Scheletri ritrovati nella grotta del Romito (Papasidero - Calabria) |
«Romito 8» era forte e
robusto, con un fisico ideale per sopravvivere, dodicimila anni fa,
quando gli uomini si procuravano il cibo cacciando gli animali e
raccogliendo i frutti della terra. Era il Paleolitico. A vent'anni,
però, subisce un trauma: probabilmente una caduta dall'alto che lo
fa atterrare sui talloni e gli provoca uno schiacciamento delle
vertebre, un torcicollo, una lesione del plesso brachiale e una
paralisi delle braccia. Non può più andare in cerca di cibo, ma
sopravvive: trova qualcuno che lo accudisce e gli procura persino
un'occupazione. «Le ossa delle gambe raccontano che rimaneva a lungo
accovacciato, mentre i suoi denti, l'unica cosa sana e forte che gli
era rimasta, mostrano segni di usura fino alla radice — spiega
Fabio Martini, archeologo all'Università di Firenze — e questo fa
pensare che li abbia usati per un lavoro: per masticare materiale
duro come legno tenero oppure canniccio che altri, si può
ipotizzare, avrebbero utilizzato per costruire manufatti come cestini
o stuoie. Quelle lesioni non trovano nessun'altra giustificazione».
Il caso di Romito 8 è la
dimostrazione che anche gli uomini preistorici si prendevano cura di
malati e disabili ed è l'unico, finora noto, che dimostra come un
individuo, incapace di provvedere a se stesso, possa rendersi utile
alla comunità e ripaghi con il suo lavoro chi lo aiuta a
sopravvivere. Romito 8 è uno dei nove individui ritrovati nella
grotta del Romito, nel comune calabrese di Papasidero all'interno del
Parco del Pollino. La scoperta risale al 1961, ma gli studi sui
reperti continuano ancora oggi (le indagini sul Romito 8 verranno
pubblicate proprio quest'anno su una rivista scientifica
specializzata) e sono coordinati da Fabio Martini con la
collaborazione di due antropologi, Pierfranco Fabbri dell'Università
di Lecce e Francesco Mallegni dell'Università di Pisa, che hanno
misurato, radiografato e sottoposto le ossa alle più moderne
indagini scientifiche, tomografie computerizzate e analisi del Dna
comprese.
Le ossa possono
raccontare molto sulla salute dei nostri antenati: possono indicare
l'età e il sesso di una persona, le malattie di cui ha sofferto, o
almeno di alcune, i lavori che ha svolto (perché lo stress muscolare
lascia segni sullo scheletro), l'alimentazione che ha seguito. E
anche qualcosa di più. La storia di «Romito 2» lo dimostra: questo
individuo soffriva di una grave patologia congenita, una forma di
nanismo chiamata displasia acromesomelica (il primo caso riconosciuto
nella storia umana); era alto un metro e dieci e aveva gli arti molto
corti; non era in grado di cacciare, ma nonostante questo è
sopravvissuto fino a vent'anni, assistito dalla sua comunità. «Il
Romito 2 è stato sepolto con una donna della stessa età in una
posizione particolare — continua il dottor Fabio Martini — perché
l'uomo appoggia la testa sulla spalla della donna. Questo è inusuale
dal momento che, nelle sepolture doppie, i cadaveri sono
semplicemente avvicinati. Se questa specie di abbraccio abbia un
significato protettivo nei confronti di chi è disabile è difficile
dire, ma certamente la suggestione è da prendere in considerazione».
Oggi gli archeologi non
si limitano, dunque, a ricostruire la storia clinica degli uomini
primitivi, ma cercano di capire come i malati o i disabili erano
accuditi dalla comunità e di risalire, attraverso queste
osservazioni, anche ai modelli culturali della società: è la
bioarcheologia della sanità (o delle cure sanitarie), come la
definiscono Lorna Tilley e Marc Oxenham dell'Australian National
University di Canberra in un recente articolo pubblicato sulla
rivista «International Journal of Paleopathology». I due autori
propongono una metodologia, in quattro fasi, per studiare gli
scheletri di individui malati o disabili: la prima punta a formulare
la diagnosi clinica, la seconda a descrivere il significato che la
malattia o la disabilità assumono nel contesto culturale della
società di appartenenza, la terza a individuare il tipo di
assistenza che potevano richiedere. Per esempio, per una persona
paralizzata è indispensabile un'assistenza di tipo infermieristico,
mentre le condizioni del Romito 2 presupponevano soltanto tolleranza
da parte della comunità e un aiuto generico.
Il quarto stadio è
quello dell'interpretazione: tentare, cioè, con gli elementi
raccolti, di formulare ipotesi sulle culture preistoriche. I
ricercatori hanno applicato questo metodo a «Man Bac Burial 9» o
«M9», uno scheletro rinvenuto nella provincia di Ninh Binh, a un
centinaio di chilometri da Hanoi nel Nord del Vietnam, in un cimitero
del Neolitico. M9 era un uomo di 20-30 anni e il suo scheletro,
ritrovato in posizione fetale, mostrava un'atrofia delle braccia e
delle gambe, un'anchilosi di tutte le vertebre cervicali e delle
prime tre vertebre toraciche, nonché una degenerazione
dell'articolazione temporo-mandibolare.
G li studiosi
australiani, dopo un'attenta analisi delle ossa, hanno formulato la
loro diagnosi: sindrome di Klippel Feil di tipo III, e hanno
ipotizzato che la paralisi degli arti (nel migliore dei casi una
paraplegia, nel peggiore una tetraplegia) fosse sopravvenuta quando
era adolescente e che M9 fosse sopravvissuto in queste condizioni per
altri dieci anni. I due studiosi sono così arrivati alla conclusione
che gli individui della sua comunità, prevalentemente cacciatori e
pescatori, capaci di allevare a malapena qualche maiale addomesticato
e incapaci di usare il metallo, spendevano del tempo per prendersi
cura di lui e soddisfacevano tutti i suoi bisogni da quelli più
semplici, come il mangiare, il vestirsi, il muoversi, a quelli più
complessi come il mantenimento dell'igiene personale o la
somministrazione di vere e proprie cure. «La bioarcheologia della
salute — ha scritto nel suo lavoro Tilley — è in grado di
fornire informazioni sulla vita dei nostri antenati. Il caso del
giovane vietnamita non solo dimostra che la società in cui viveva
era tollerante e disponibile, ma che lui stesso aveva una certa stima
di sé e anche una grande forza di volontà. Senza questo non avrebbe
potuto sopravvivere».
“Corriere della Salute
– Corriere della sera”10 febbraio 2013
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