André Malraux |
Non so se sia ancora
leggibile o se tornerà a esserlo. Era una Francia da nobiltà dello
spirito, intollerante e spesso intollerabile; nipote e fratello di
innumerevoli, persino della «bocca d'ombra» di Hugo, e giù, da
Barrès a Gide e magari a Peguy, a Camus; al di sopra delle
distinzioni politiche, l'orgoglio della distinzione; l'esotismo
eroto-rivoluzionario e il senso delle seicentesche foreste
domestiche, del domaine avito nelle provincie regie; lo
sguardo da esteta oltre Reno, Alpi e Pirenei; la fraternità virile,
la sigaretta forte.
Per quelli della mia età
è stato anche, o soprattutto, altro. L'intervento al primo congresso
dell'Unione degli scrittori sovietici, agosto 1934; la rivelazione,
allora sconvolgente, di che cosa era stata la guerra di Spagna, e la
discussione esistenziale sulla violenza nelle pagine di “Espoir”,
lette solo durante la guerra; e la Cina; la Shangai di La
condition humaine che avrei «riconosciuta» quasi trent'anni
dopo quel 1927 che aveva rappresentato. Quello che è stato per me,
oserei dire per noi, Malraux; né conta troppo sapere che cosa, in
quelle pagine, fosse passione nostra e che cosa retorica sua.
(Altrettanto potrei dire nel dopoguerra, per i tre volumi della
Psychologie de l'art). Anche chi ha letto certe crudeli
biografie del personaggio può guardare, credo, al di là del
personaggio: e persino al di là dei suoi libri. Nella favola
superomistica delle «querce abbattute» (sua è la formula, e per De
Gaulle) c'è qualcosa che non abbiamo il diritto di spregiare troppo
facilmente. Soprattutto quando è anche grazie a Malraux che
dall'Europa di Hitler e di Mussolini alcuni poterono levarsi a
ricordare il volto vero dei propri doveri, come, nei fìlms che egli
diresse durante la guerra spagnola, quel contadino che, portato tra
le nuvole dall'aereo della ricognizione repubblicana, riconosce, a un
tratto, i campi suoi, per i quali dovrà combattere.
“il manifesto”, 24
novembre 1976
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