I
media e i governanti, per giustificare riforme di ogni genere, si
vantano di aver finalmente eliminato certi «tabù» e aver dato
prova di coraggio. In definitiva si tratta sempre di riduzione dei
salari e delle prestazioni sociali. Eppure il vero tabù che
penalizza tutti coloro che vogliono investire e creare posti di
lavoro è un altro: il costo proibitivo del capitale. L'articolo che
qui riprendo da “Le Monde diplomatique” è di un paio d'anni or
sono, ma non ha perso la sua validità. L'autore è un economista che
è professore all’università di Lille-I. Ha partecipato,
con Thomas Dallery, Vincent Duwicquet, Jordan Melmiès e Franck Van
de Velde, allo studio del Clersé su cui si basa il pezzo.
(S.L.L.)
Banchiere a Zurigo |
Può essere interessante ripercorrere
il cammino barcollante, tortuoso e vacillante che ha attraversato
l’Europa e che alla fine ha ridotto la causa di tutti i nostri mali
a questioni di competitività e, poco a poco, a problemi di costo del
lavoro. La crisi dei subprime, la crisi di liquidità
bancaria, le colossali svalutazioni degli attivi, il crollo del
credito, l’immobilismo della domanda, la trasformazione dei debiti
privati in debiti pubblici, le politiche di austerità sono state
tutte dimenticate. Come aveva ben spiegato già nel 2012 Ulrich
Wilhem, all’epoca portavoce del governo tedesco, «la soluzione per
correggere gli squilibri [commerciali] nella zona euro e stabilizzare
le finanze pubbliche consiste nell’aumento della competitività
dell’Europa nel suo insieme (1)».
Quando si fornisce una spiegazione,
bisogna essere pronti a difenderla contro qualsiasi nemico, compreso
il rigore aritmetico. Avendo ormai capito che i nostri squilibri
interni non possono risolversi in una gara infinita e fratricida tra
i ventisette paesi europei per guadagnare competitività gli uni
contro gli altri – quel che si chiama, a rigore, un gioco a somma
zero… – il progetto che ci viene proposto ora mira ad aumentare
la nostra competitività nei confronti del resto del mondo. Al
culmine dei suoi sforzi, «l’Europa nel suo insieme» riuscirà a
risanare le bilance commerciali dei suoi paesi membri, contro quelle
dei partner esterni. Aspettiamo impazienti che l’Organizzazione per
la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e l’Organizzazione
mondiale del commercio (Wto) ci impongano di rafforzare la
competitività del «mondo nel suo insieme», perché ritrovi una
buona salute commerciale contro i marziani.
Di fronte a una tale impasse,
avremmo immaginato che i responsabili europei, i direttori delle
maggiori istituzioni economiche, gli esperti più titolati, i
commentatori seri si sarebbero liberati dall’ossessione per il
costo del lavoro e ne avrebbero cercata un’altra, che un semplice
spirito di simmetria avrebbe dovuto suggerir loro già da molto
tempo. Senza abbandonare il tema dei costi, che popola l’immaginario
degli economisti, avrebbero così indagato, per curiosità, sul costo
del capitale, e sul suo aumento. E questo non per dare nuovo vigore
alla dottrina della competitività (2), ma perché una volta saziato
il loro appetito per soluzioni facili, un leggero gusto per la
diversità avrebbe potuto spingerli a esaminare dei problemi senza
soluzione (fin qui). Questo punto di vista viene illustrato in uno
studio condotto dagli economisti del Centre lillois d’études et
de recherches sociologiques et économiques (Clersé), su
richiesta della Confédération générale du travail (Cgt)
e dell’Institut de recherches économiques et sociales
(Ires).Gli autori dello studio illustrano come l’aumento del
costo del capitale – o piuttosto del suo sovraccosto – , sulla
scia della finanziarizzazione dell’economia, spieghi le performance
deludenti che le vecchie economie sviluppate hanno offerto negli
ultimi trent’anni: il ritmo fiacco dell’accumulazione di
capitale, l’aumento delle diseguaglianze, il boom dei redditi
finanziari, la persistenza di un massiccio fenomeno di
sottoccupazione… Lo studio evidenzia anche l’impennata del
sovraccosto del capitale, proponendo un indicatore meno rassicurante
del famoso «costo medio ponderato dei capitali (3)», reso popolare
dalla dottrina finanziaria standard.
Per capire di cosa si tratta, occorre
distinguere tra due nozioni di costo del capitale: il costo economico
e quello finanziario. Il costo economico è lo sforzo produttivo
necessario per fabbricare gli strumenti, e più in generale,
l’insieme dei mezzi di produzione: macchinari, immobili,
stabilimenti, mezzi di trasporto, infrastrutture, brevetti, software…
Questo sforzo produttivo rappresenta in qualche modo il «vero»
costo del capitale, quello che occorre necessariamente spendere in
termini di lavoro per fabbricare questo capitale, inteso qui nel
senso di «capitale produttivo». La misura di tale sforzo (su un
anno per esempio) rappresenta quelle che vengono più generalmente
chiamate spese di investimento, e che i contabili nazionali chiamano
la formazione lorda di capitale fisso. Queste spese rappresentano
all’incirca il 20% della produzione annuale delle imprese francesi.
Questo costo di produzione del capitale
produttivo, commisurato al suo prezzo d’acquisto, non è tuttavia
l’unico a pesare sulle imprese, che quando vogliono acquistare e
mettere in funzione questi mezzi di produzione, devono anche
remunerare le persone o le istituzioni che gli hanno procurato il
denaro necessario (denaro chiamato anche «capitale», ma questa
volta nel senso finanziario del termine). Pertanto al «vero» costo
del capitale vanno aggiunti gli interessi versati ai creditori e i
dividendi pagati agli azionisti (come remunerazione per gli apporti
di liquidità forniti a ogni aumento di capitale, o quando rinunciano
a una parte dei «loro» profitti offrendoli come riserva per
l’impresa).
Ora, una gran parte di questo costo
finanziario (gli interessi e i dividendi) non corrisponde ad alcun
servizio economico reso, che si tratti di servizi offerti alle
imprese stesse o alla società nel suo insieme. Conviene quindi
sapere cosa rappresenta questa parte del costo finanziario
completamente improduttiva, derivante da un fenomeno di rendita e di
cui si potrebbe evidentemente fare a meno, organizzandosi altrimenti
per finanziare l’azienda, per esempio immaginando un sistema basato
unicamente sul credito bancario, fatturato al minor costo possibile.
Per conoscere l’ammontare di questa
rendita indebita, basta ritagliare dai redditi finanziari la porzione
che potrebbe essere giustificata… da buone ragioni economiche. Una
parte di questi interessi e dividendi copre in effetti il rischio
incorso da creditori e azionisti, di non rivedere più i loro soldi,
per via della possibilità di fallimento inerente a qualsiasi
progetto aziendale. È quel che potremmo chiamare il rischio
d’impresa. Un’altra parte di questi redditi può essere
giustificata dal costo di amministrazione dell’attività
finanziaria, che consiste nel trasformare e dirottare le liquidità
accantonate verso le imprese.
Quando dall’insieme dei redditi
finanziari si ritagliano queste due componenti, che possono essere
giustificate (rischio d’impresa e costo di amministrazione), si
ottiene una misura della rendita indebita. Potemmo definirla come un
«sovraccosto del capitale», dal momento che si tratta di un costo
sopportato dalle parti interessate interne all’impresa, che alza
inutilmente il «vero» costo del capitale.
Lo studio del Clersé mostra come
questo sovraccosto sia notevole. A titolo di esempio, nel 2011
rappresentava in Francia, per l’insieme delle società non
finanziarie, 94,7 miliardi di euro. Se lo rapportiamo al costo
«vero», ossia all’investimento in capitale produttivo per lo
stesso anno, che era di 202,3 miliardi di euro, otteniamo un
sovraccosto del 50%... Se paragonassimo questo sovraccosto alla sola
parte di investimento che corrisponde all’ammortamento di capitale
– che rappresenterebbe meglio, agli occhi di numerosi economisti,
il costo «vero» del capitale –, otterremmo una valutazione ancora
più sorprendente: dell’ordine del 70%!
Questo significa che quando i
lavoratori francesi riescono a produrre le loro macchine, le loro
fabbriche, i loro immobili, le loro infrastrutture, ecc. a un prezzo
totale di 100 euro all’anno (compreso il margine di profitto), le
aziende che utilizzano questo capitale produttivo in realtà pagano
tra i 150 e i 170 euro all’anno, per il solo fatto di dover pagare
una rendita, non giustificata economicamente, a chi ha loro prestato
del denaro.
Un tale sovraccosto del capitale non è
né necessario né ineluttabile. Nel periodo 1961-1981, che ha
preceduto il «big bang» finanziario mondiale, il sovraccosto del
materiale era in media del 13,8%, diventando addirittura negativo
alla fine del «trentennio glorioso» (1973-1974), per via del
ritorno dell’inflazione.
Sono state le politiche restrittive
innescate dalla rivoluzione monetarista che, in un primo tempo, hanno
fatto impennare la rendita finanziaria spingendo i tassi di interesse
reale a livelli altissimi. Quando poi, negli anni ’90, i tassi
hanno cominciato a scendere, il versamento accelerato dei dividendi
ha preso il loro posto. Il potere azionariale, rimesso in sella
dall’aumento vertiginoso degli investitori istituzionali (fondi
risparmio, fondi pensione, compagnie di assicurazioni…), si è
poggiato sulla disciplina dei mercati, l’attivismo azionariale e la
nuova governance aziendale, per non lasciarsi scappare la
rendita.
Riassumendo, possiamo affermare che
l’esplosione del sovraccosto del capitale negli ultimi trent’anni
è la diretta conseguenza dell’innalzamento della norma finanziaria
imposta alle aziende con l’aiuto dei loro dirigenti, i cui
interessi sono stati allineati a quelli degli azionisti. Per passare
dalle esigenze di rendimento su fondi propri dell’ordine del 15%
all’anno al sovraccosto di capitale, basta rettificare in qualche
modo la misura. Tali esigenze corrispondono in pratica a un
sovraccosto imposto a qualsiasi progetto di investimento e vanno dal
50 al 70%.
Gli effetti di questo innalzamento
della norma finanziaria, sebbene immaginabili, sono incalcolabili.
Infatti in questo campo, ciò che è più importante non è forse ciò
che appare più visibile. Questi trasferimenti di ricchezza verso i
creditori e gli azionisti rappresentano una manna, che non ha smesso
di aumentare (dal 3% del valore della produzione nel 1980 al 9% di
oggi) e che non va né nelle tasche degli imprenditori (a meno che
non siano anche proprietari delle aziende) né nelle tasche dei
lavoratori.
Questo ulteriore sfruttamento dei
lavoratori sarebbe già di per sé deplorevole. Ma c’è di più:
come calcolare infatti l’enorme spreco in termini di ricchezze mai
prodotte, posti di lavoro mai creati, progetti collettivi, sociali,
ambientali mai intrapresi per il semplice fatto che la soglia
redditizia annuale da raggiungere per poterli attuare è del 15%?
Quando il fardello che pesa sulle aziende, siano esse pubbliche o
private, si vede maggiorare il suo costo reale del 50 o addirittura
del 70%, come stupirsi del debole dinamismo delle nostre economie
sottomesse al giogo della finanza? Solo un mulo potrebbe sopportare
un carico equivalente al 70% del proprio peso.
Il problema non sta tanto nel fatto che
questo sovraccarico finanziario drena i fondi necessari per gli
investimenti. È piuttosto vero l’inverso. Il denaro distribuito ai
creditori e agli azionisti è l’esatta controparte dei profitti di
cui le imprese non hanno più bisogno, dal momento che esse limitano,
di loro propria iniziativa, i progetti di investimento alla porzione
suscettibile di essere più redditizia. La domanda giusta da porsi
allora è la seguente: in un mondo in cui vengono intraprese azioni,
individuali o collettive, solo a condizione che offrano tra il 15 e
il 30% in termini di redditività, quanto è grande il cimitero delle
idee (buone o cattive che siano, occorre deplorarlo) che non hanno
mai visto la luce perché avrebbero portato solo dallo 0 al 15%?
Nel momento in cui bisognerebbe aprire
la strada alla transizione ecologica e sociale delle nostre economie,
si potrebbe pensare che un progetto politico autenticamente
socialdemocratico dovrebbe per lo meno darsi il seguente obiettivo:
liberare dal giogo della proprietà e della rendita il potenziale
d’azione degli imprenditori, dei lavoratori e di tutti coloro che
ricercano il progresso economico e sociale. Liquidare la rendita,
invece di liquidare posti di lavoro e intere aziende.
Una tale ambizione è certamente fuori
dalla portata di un uomo solo. Ma è sicuramente alla portata di
un’ambizione collettiva. «Questo non vuol dire», ci ha già
avvertito John Maynard Keynes, «che l’utilizzo dei beni capitali
non costerebbe quasi niente, ma semplicemente che il reddito che si
ricaverebbe dovrebbe coprire quasi esclusivamente la svalutazione
dovuta all’usura e all’obsolescenza, con un margine per
compensare i rischi e l’esercizio della capacità e del giudizio».
A coloro che vedrebbero in tutto questo
i presagi della fine del mondo, Keynes offriva una consolazione:
«Questo stato di cose sarebbe perfettamente compatibile con un certo
grado di individualismo. Ma implicherebbe comunque l’eutanasia del
rentier e, di conseguenza, la progressiva scomparsa del potere
oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di
scarsità del capitale (4)». Brrrrr!
(1) Financial Times, Londra, 22 marzo
2010.
(2) Esiste comunque un legame, come
dimostrato dalla Fondazione Copernic e Attac nel loro rapporto «Farla
finita con la competitività» (ottobre 2012). Quando le imprese
francesi, che perdono competitività, sono costrette a ridurre i loro
margini, ma continuano a versare copiosi dividendi ai loro azionisti,
si capisce bene come tutto ciò sia in parte a discapito delle
attività di ricerca e sviluppo.
(3) Cfr. «Redditività e rischio nel
nuovo regime di crescita», rapporto del gruppo presieduto da
Domenique Plihon per il Commisariat Général du Plan, La
Documentation française, Parigi 2002. O l’articolo di Wikipedia:
«costo medio ponderato del capitale».
(4) J.M. Keynes, Teoria generale
dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Utet, 2006.
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Da Le Monde diplomatique il manifesto
LUGLIO 2013 (Traduzione di F. R.)
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