2.2.15

Nel paese dell'ironia (Italo Calvino)

Italo Calvino
L'espressione inglese "tongue-in-cheek" (letteralmente "lingua nella guancia") è definita dall'Oxford Dictionary: "parlare in modo non sincero e con ironia". Espressione intraducibile, dice Guido Almansi: "strizzata d' occhio" evoca l' idea d'"un commento esplicito esterno", mentre la "tongue-in-cheek" è qualcosa d' implicito, d'interno al messaggio che si vuole trasmettere; è un "rumore" (nel senso della teoria dell'informazione) che altera la comunicazione del messaggio "in una direzione non specificata (e qui sta il punto)" in quanto "può solo confermare uno stato di dubbio". Invece "in italiano, in francese, in tedesco, tutto avviene all'aperto, in pubblico, su quel palcoscenico dove agiscono le nostre espressioni facciali, la nostra gestualità, la mimica e l'ammicco... L' italiano conosce il sarcasmo, l'ironia di primo grado di immediata risoluzione, e le forme grossolane dell'ironia del faceto...".
Già in quella inesauribile enciclopedia del nostro secolo che è La montagna incantata di Thomas Mann, al classicista Settembrini che rifiutava l' ironia se non codificata secondo le norme dell'arte oratoria, Hans Castorp obiettava: "Ma un'ironia che non si presta all'equivoco neppure per un momento, che ironia sarebbe, in nome di Dio?". Alla rivendicazione di questa ironia subliminale, quanto più discreta tanto più sovvertitrice d'ogni certezza, congeniale soprattutto allo spirito britannico ma che lampeggia in guizzi intermittenti per tutta la letteratura mondiale, Guido Almansi ha dedicato un saggio (Amica ironia, Garzanti) che cerca di circoscrivere, più che di definire, quanto di essa sfugge a ogni definizione troppo rigida. Il che si può fare sopratutto attraverso esemplificazioni, e qui Almansi ha sempre la mano felice nel citare da Jane Austen e George Eliot, da Boccaccio (un elogio delle donne bolognesi), dall'Ars amandi di Ovidio (Pasifae e il toro). Tanto che viene da rimpiangere che gli esempi non siano più numerosi; io avrei messo al posto d'onore T.S. Eliot, che proprio per la continua impalpabile ironia di cui avvolge le cose che ha da dirci, spesso in sé nient'affatto amene, resterà il più grande poeta del nostro secolo.
Nessun esempio letterario comunque può rivaleggiare con quello che Almansi estrae da uno dei Casi clinici di Freud, dove siamo al di là d'ogni intenzione ironica, proiettati negli automatismi d'una logica assurda: "Il giorno della partenza dell'amica, essendo inciampato in un sasso mentre camminava per la strada, dovette raccoglierlo e metterlo in un canto, perché gli era venuta l'idea che la carrozza su cui lei viaggiava avrebbe percorso quella strada qualche ora dopo e l'amata avrebbe potuto subire un danno a causa del sasso; ma qualche minuto dopo pensò che era un'assurdità e dovette tornare indietro a rimettere il sasso dove si trovava prima, in mezzo alla strada". Qui è la nevrosi, non la ragione, a essere ironica.
Per l'ironia ogni sistemazione classificatoria rischia di trasformarsi in una trappola, e Almansi ha preferito scrivere un pamphlet, un' invettiva contro le forme d'ironia precostituita, spiattellata (per esempio contro l'antifrasi, cioè il dire bianco perché s'intenda nero, o contro tutti gli espedienti che tengono ad avvertire il pubblico: "Guardate che io sto per essere ironico"), nonché contro i critici che attribuiscono all'ironia un significato univoco.
"Nella Repubblica di Platone c'è una grande pagina dove si accetta l'impossibilità di arrivare a una verità assoluta circa il concetto di giustizia. Socrate conclude il suo discorso con queste dolenti parole: "E voi che sapete tutto dovreste aver pietà di noi e non essere inquieti con noi". Per Booth, cultore dell'ironia stabile, Socrate sta qui usando una forma di ironia degna di un attore da avanspettacolo: quando dice "Voi che sapete tutto", ciò che intende è "Voi bestie ignoranti". In questo modo Booth sfugge alla vertiginosa ironia dell'episodio platonico, perchè le parole di Socrate non sono antifrastiche ma, semmai, dette con tongue-in-cheek. Innanzitutto il "Voi che sapete tutto" è anche vero, a un certo livello; e agli altri livelli deve coprire tutta la gamma fra il sapere tutto e il non sapere niente, compreso quel territorio sacro in cui il sapere tutto e il non sapere niente coincidono". Il che è molto giusto e ben detto; ma se seguitiamo a leggere vediamo che Almansi, quando si tratta di difendere la leggerezza dell'ironia, va su tutte le furie e non ha certo la mano leggera: ne fa le spese proprio il malcapitato professor Wayne Booth, autore d'un recente volume della University of Chicago Press, The Rhetoric of Irony: "Nel ridurre tutta l' ironia della grande letteratura alla sua forma stabile, Booth cerca di compiere una operazione vandalica di proporzioni cataclismiche, alla fine della quale non avremmo più letteratura. Dove è passato Wayne Booth non cresce più l'erba dell'ironia. Per nostra fortuna Booth è anche incompetente oltre che malintenzionato, e quindi la sua opera di organizzazione, di classificazione, di sistematizzazione dell'ironia lascia il tempo che trova".
Se vogliamo applicare a queste frasi il metodo almansiano di contraddizione interna al messaggio, potremmo individuarvi un tipo di ironia apocalittica che scatena tuoni e fulmini e saette per evocare il contrario, cioè la negazione d'ogni perentorietà, un sommesso riserbo di fronte all' indecidibilità d'ogni giudizio. Altro bersaglio polemico cui non vengono risparmiati i colpi è il Manzoni: perchè l'ironia dei Promessi Sposi (i soldati spagnoli "che insegnavan la modestia alle fanciulle") è "bonaria e tollerante secondo la concezione ginnasiale della cultura". Qui ci sarebbe da dire che i termini di confronto andrebbero presi nel contesto letterario dell'epoca, italiano e francese - romanticismo e classicismo - che Manzoni aveva presente, dove d'ironia non c'era neanche l'ombra (come non ce n'era nel resto dell'opera manzoniana, versi e tragedie), e allora la decisione d'introdurre un registro ironico nel moralismo del suo romanzo, a sfumarne la gravità dell'assunto storico-politico-religioso, può essere valutata nei suoi limiti, certo, ma anche nella sua novità, che precorre (d'una decina d'anni almeno) un' inclinazione del romanzo europeo per la velatura ironica, sensibile sopratutto proprio nell' Inghilterra vittoriana.
Amica ironia si richiama nel titolo e nell' epigrafe a una poesia di Ardengo Soffici che comincia: "Palazzeschi, eravamo tre - Noi due e l'amica ironia...". E' una poesia garbata e orecchiabile, di cui resta nella memoria, insieme all' inizio, il finale: "E fummo quattro oramai - A braccetto per quella via. - Peccato! La malinconia - S'era invitata da sé". Almansi cita solo l'inizio, perché il finale ci obbligherebbe ad affrontare il nesso ironia-malinconia, proprio della sensibilità romantica, tema non nuovo e su cui forse non mette conto ritornare. Ma si può veramente circoscrivere ciò che è ironico se si taglia fuori tutto il versante del rapporto con ciò che è "serio"? (Con ciò che ciascun autore considera sia per lui "serio"?). Ecco (per chi come me si lascia tentare dal demone classificatorio) che ogni sistemazione teorica del modo ironico s'allarga nella mappa dei diversi modi letterari (vedi Northrop Frye).
L' ironico non solo si contrappone al tragico, ma vi si mescola: pensiamo a Dostoevskij, a Samuel Beckett. E' possibile immaginare un universo solo ironico? Sì, Swift l'ha fatto - risponderebbe Almansi - e forse anche Gogol, col risultato - aggiungeremmo, io o lui, o tutti insieme - di raggiungere una tragicità tutta immanente. Così come Cervantes tocca il culmine dell'ironico nel rappresentarci l' impossibilità dell'"eroico" in un mondo "comico"; e il risultato è tragico ancora una volta. Perché, attenzione!, c' è un'altra frontiera che dobbiamo delimitare, quella col "comico", colla rappresentazione d'un universo assolutamente "basso", ridotto al solo peso della carne, dove non c' è più posto per l'ambiguità, l'inafferrabilità dell'ironico.
E' su questa frontiera che Almansi sta accampato; la sua vocazione rabelaisiana lo porta a spaziare nelle metafore fisiologiche; quando una metafora riguarda il corpo lui è sempre pronto a prenderla alla lettera e ad amplificarla: le parole sono sudore che gocciola e forma pozze al suolo, il pianto è secrezione delle ghiandole, la tongue-in-cheek non è solo un' espressione idiomatica evocante una smorfia appena accennata, ma è proprio una lingua che s'agita contro le pareti della cavità buccale; e non vi dico quali saranno le prove della sincerità d'un giudizio estetico come "quella donna è bella". Può Gargantua con le sue mani di gigante acchiappare una libellula senza torcerle neanche un'ala? Almansi vince la scommessa intessendo col linguaggio della carnalità l'elogio dell'ironia impalpabile. E questa riuscita non fa che convalidare la sua teoria dell'ironia come contraddizione interna al messaggio.
Le suggestioni del saggio non si fermano qui, perché studiando l'ironia Almansi ci porta ad affacciarci sui paradossi inerenti ai meccanismi del linguaggio, alla logica che non può decidere tra verità e menzogna (mentiva il cretese che diceva: "tutti i cretesi sono mentitori"?), alla "letteratura come menzogna" (già esemplarmente teorizzata da Manganelli). Più in là intravvediamo vertiginosi ribaltamenti e isomorfismi del pensiero quali quelli meticolosamente percorsi da Hofstadter in Godel, Escher, Bach (tutti i libri letti nello stesso periodo di tempo interferiscono nella mia mente e ora scrivo sotto l'influenza di questo volumone sfaccettato e poliedrico, di cui qui mi limito ad annunciare la traduzione, meritoria impresa dell'Adelphi), dove i fondamenti della logica, della matematica, della scienza, della stessa realtà della natura si rifrangono nel cristallo d'un'ironia intrinseca alla costituzione dell'universo.


“la Repubblica”, 28 novembre 1984

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