Italo Calvino |
L'espressione inglese
"tongue-in-cheek" (letteralmente "lingua nella
guancia") è definita dall'Oxford Dictionary: "parlare in
modo non sincero e con ironia". Espressione intraducibile, dice
Guido Almansi: "strizzata d' occhio" evoca l' idea d'"un
commento esplicito esterno", mentre la "tongue-in-cheek"
è qualcosa d' implicito, d'interno al messaggio che si vuole
trasmettere; è un "rumore" (nel senso della teoria
dell'informazione) che altera la comunicazione del messaggio "in
una direzione non specificata (e qui sta il punto)" in quanto
"può solo confermare uno stato di dubbio". Invece "in
italiano, in francese, in tedesco, tutto avviene all'aperto, in
pubblico, su quel palcoscenico dove agiscono le nostre espressioni
facciali, la nostra gestualità, la mimica e l'ammicco... L' italiano
conosce il sarcasmo, l'ironia di primo grado di immediata
risoluzione, e le forme grossolane dell'ironia del faceto...".
Già in quella
inesauribile enciclopedia del nostro secolo che è La montagna
incantata di Thomas Mann, al classicista Settembrini che
rifiutava l' ironia se non codificata secondo le norme dell'arte
oratoria, Hans Castorp obiettava: "Ma un'ironia che non si
presta all'equivoco neppure per un momento, che ironia sarebbe, in
nome di Dio?". Alla rivendicazione di questa ironia subliminale,
quanto più discreta tanto più sovvertitrice d'ogni certezza,
congeniale soprattutto allo spirito britannico ma che lampeggia in
guizzi intermittenti per tutta la letteratura mondiale, Guido Almansi
ha dedicato un saggio (Amica ironia, Garzanti) che cerca di
circoscrivere, più che di definire, quanto di essa sfugge a ogni
definizione troppo rigida. Il che si può fare sopratutto attraverso
esemplificazioni, e qui Almansi ha sempre la mano felice nel citare
da Jane Austen e George Eliot, da Boccaccio (un elogio delle donne
bolognesi), dall'Ars amandi di Ovidio (Pasifae e il toro).
Tanto che viene da rimpiangere che gli esempi non siano più
numerosi; io avrei messo al posto d'onore T.S. Eliot, che proprio per
la continua impalpabile ironia di cui avvolge le cose che ha da
dirci, spesso in sé nient'affatto amene, resterà il più grande
poeta del nostro secolo.
Nessun esempio letterario
comunque può rivaleggiare con quello che Almansi estrae da uno dei
Casi clinici di Freud, dove siamo al di là d'ogni intenzione
ironica, proiettati negli automatismi d'una logica assurda: "Il
giorno della partenza dell'amica, essendo inciampato in un sasso
mentre camminava per la strada, dovette raccoglierlo e metterlo in un
canto, perché gli era venuta l'idea che la carrozza su cui lei
viaggiava avrebbe percorso quella strada qualche ora dopo e l'amata
avrebbe potuto subire un danno a causa del sasso; ma qualche minuto
dopo pensò che era un'assurdità e dovette tornare indietro a
rimettere il sasso dove si trovava prima, in mezzo alla strada".
Qui è la nevrosi, non la ragione, a essere ironica.
Per l'ironia ogni
sistemazione classificatoria rischia di trasformarsi in una trappola,
e Almansi ha preferito scrivere un pamphlet, un' invettiva
contro le forme d'ironia precostituita, spiattellata (per esempio
contro l'antifrasi, cioè il dire bianco perché s'intenda nero, o
contro tutti gli espedienti che tengono ad avvertire il pubblico:
"Guardate che io sto per essere ironico"), nonché contro i
critici che attribuiscono all'ironia un significato univoco.
"Nella Repubblica
di Platone c'è una grande pagina dove si accetta l'impossibilità di
arrivare a una verità assoluta circa il concetto di giustizia.
Socrate conclude il suo discorso con queste dolenti parole: "E
voi che sapete tutto dovreste aver pietà di noi e non essere
inquieti con noi". Per Booth, cultore dell'ironia stabile,
Socrate sta qui usando una forma di ironia degna di un attore da
avanspettacolo: quando dice "Voi che sapete tutto", ciò
che intende è "Voi bestie ignoranti". In questo modo Booth
sfugge alla vertiginosa ironia dell'episodio platonico, perchè le
parole di Socrate non sono antifrastiche ma, semmai, dette con
tongue-in-cheek. Innanzitutto il "Voi che sapete tutto"
è anche vero, a un certo livello; e agli altri livelli deve coprire
tutta la gamma fra il sapere tutto e il non sapere niente, compreso
quel territorio sacro in cui il sapere tutto e il non sapere niente
coincidono". Il che è molto giusto e ben detto; ma se
seguitiamo a leggere vediamo che Almansi, quando si tratta di
difendere la leggerezza dell'ironia, va su tutte le furie e non ha
certo la mano leggera: ne fa le spese proprio il malcapitato
professor Wayne Booth, autore d'un recente volume della University of
Chicago Press, The Rhetoric of Irony: "Nel ridurre tutta
l' ironia della grande letteratura alla sua forma stabile, Booth
cerca di compiere una operazione vandalica di proporzioni
cataclismiche, alla fine della quale non avremmo più letteratura.
Dove è passato Wayne Booth non cresce più l'erba dell'ironia. Per
nostra fortuna Booth è anche incompetente oltre che malintenzionato,
e quindi la sua opera di organizzazione, di classificazione, di
sistematizzazione dell'ironia lascia il tempo che trova".
Se vogliamo applicare a
queste frasi il metodo almansiano di contraddizione interna al
messaggio, potremmo individuarvi un tipo di ironia apocalittica che
scatena tuoni e fulmini e saette per evocare il contrario, cioè la
negazione d'ogni perentorietà, un sommesso riserbo di fronte all'
indecidibilità d'ogni giudizio. Altro bersaglio polemico cui non
vengono risparmiati i colpi è il Manzoni: perchè l'ironia dei
Promessi Sposi (i soldati spagnoli "che insegnavan la
modestia alle fanciulle") è "bonaria e tollerante secondo
la concezione ginnasiale della cultura". Qui ci sarebbe da dire
che i termini di confronto andrebbero presi nel contesto letterario
dell'epoca, italiano e francese - romanticismo e classicismo - che
Manzoni aveva presente, dove d'ironia non c'era neanche l'ombra (come
non ce n'era nel resto dell'opera manzoniana, versi e tragedie), e
allora la decisione d'introdurre un registro ironico nel moralismo
del suo romanzo, a sfumarne la gravità dell'assunto
storico-politico-religioso, può essere valutata nei suoi limiti,
certo, ma anche nella sua novità, che precorre (d'una decina d'anni
almeno) un' inclinazione del romanzo europeo per la velatura ironica,
sensibile sopratutto proprio nell' Inghilterra vittoriana.
Amica ironia si
richiama nel titolo e nell' epigrafe a una poesia di Ardengo Soffici
che comincia: "Palazzeschi, eravamo tre - Noi due e l'amica
ironia...". E' una poesia garbata e orecchiabile, di cui resta
nella memoria, insieme all' inizio, il finale: "E fummo quattro
oramai - A braccetto per quella via. - Peccato! La malinconia - S'era
invitata da sé". Almansi cita solo l'inizio, perché il finale
ci obbligherebbe ad affrontare il nesso ironia-malinconia, proprio
della sensibilità romantica, tema non nuovo e su cui forse non mette
conto ritornare. Ma si può veramente circoscrivere ciò che è
ironico se si taglia fuori tutto il versante del rapporto con ciò
che è "serio"? (Con ciò che ciascun autore considera sia
per lui "serio"?). Ecco (per chi come me si lascia tentare
dal demone classificatorio) che ogni sistemazione teorica del modo
ironico s'allarga nella mappa dei diversi modi letterari (vedi
Northrop Frye).
L' ironico non solo si
contrappone al tragico, ma vi si mescola: pensiamo a Dostoevskij, a
Samuel Beckett. E' possibile immaginare un universo solo ironico? Sì,
Swift l'ha fatto - risponderebbe Almansi - e forse anche Gogol, col
risultato - aggiungeremmo, io o lui, o tutti insieme - di raggiungere
una tragicità tutta immanente. Così come Cervantes tocca il culmine
dell'ironico nel rappresentarci l' impossibilità dell'"eroico"
in un mondo "comico"; e il risultato è tragico ancora una
volta. Perché, attenzione!, c' è un'altra frontiera che dobbiamo
delimitare, quella col "comico", colla rappresentazione
d'un universo assolutamente "basso", ridotto al solo peso
della carne, dove non c' è più posto per l'ambiguità,
l'inafferrabilità dell'ironico.
E' su questa frontiera
che Almansi sta accampato; la sua vocazione rabelaisiana lo porta a
spaziare nelle metafore fisiologiche; quando una metafora riguarda il
corpo lui è sempre pronto a prenderla alla lettera e ad
amplificarla: le parole sono sudore che gocciola e forma pozze al
suolo, il pianto è secrezione delle ghiandole, la tongue-in-cheek
non è solo un' espressione idiomatica evocante una smorfia appena
accennata, ma è proprio una lingua che s'agita contro le pareti
della cavità buccale; e non vi dico quali saranno le prove della
sincerità d'un giudizio estetico come "quella donna è bella".
Può Gargantua con le sue mani di gigante acchiappare una libellula
senza torcerle neanche un'ala? Almansi vince la scommessa intessendo
col linguaggio della carnalità l'elogio dell'ironia impalpabile. E
questa riuscita non fa che convalidare la sua teoria dell'ironia come
contraddizione interna al messaggio.
Le suggestioni del saggio
non si fermano qui, perché studiando l'ironia Almansi ci porta ad
affacciarci sui paradossi inerenti ai meccanismi del linguaggio, alla
logica che non può decidere tra verità e menzogna (mentiva il
cretese che diceva: "tutti i cretesi sono mentitori"?),
alla "letteratura come menzogna" (già esemplarmente
teorizzata da Manganelli). Più in là intravvediamo vertiginosi
ribaltamenti e isomorfismi del pensiero quali quelli meticolosamente
percorsi da Hofstadter in Godel, Escher, Bach (tutti i libri letti
nello stesso periodo di tempo interferiscono nella mia mente e ora
scrivo sotto l'influenza di questo volumone sfaccettato e poliedrico,
di cui qui mi limito ad annunciare la traduzione, meritoria impresa
dell'Adelphi), dove i fondamenti della logica, della matematica,
della scienza, della stessa realtà della natura si rifrangono nel
cristallo d'un'ironia intrinseca alla costituzione dell'universo.
“la Repubblica”, 28
novembre 1984
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