Tra le letture recenti
dell'Odissea e della figura
di Odisseo una delle più convincenti mi pare quella che emerge da un
libro di Eva Cantarella, Itaca,
studiosa e prestigiosa docente di Diritto greco e romano, che si
distingue per l'approccio interdisciplinare e per il rigore
dell'analisi filologica, letteraria e storica dei testi utilizzati
non disgiunto dal “genio dell'interpretazione”, dalla capacità
cioè di leggere tra le righe ciò che altri non sono riusciti a
vedere.
La
“premessa” di Itaca, intitolata
Il viaggio, espone con
chiarezza ed efficacia la chiave interpretativa e può rappresentare
utile sollecitazione verso il libro, che, a mio parere, dovrebbe
essere letto da molti. (S.L.L.)
L'immagine è la "Venere di Urbino" di Tiziano, nella Galleria degli Uffizi |
Nella
poesia di Kavafis posta in epigrafe a questo libro, Itaca è una
metafora. È la meta di un viaggio inteso come esperienza, il
percorso lungo il quale il viaggiatore prende coscienza della
con-dizione umana, e pur avendone esperimentato i costi decide di
accettarne i limiti, affermando l'autonomia della sua coscienza e la
sua libertà di determinarsi.
Ma
in questo libro, tengo subito a precisarlo, Itaca non è una
metafora. È un luogo reale, una piccola comunità greca che sta
dandosi le strutture fondamentali di quella che verrà chiamata
un'organizzazione politica. O meglio: è il prototipo di una delle
tante comunità di questo tipo realmente esistite in terra greca in
un momento che non può essere successivo all'VIII secolo a.C. (dirò
poi le ragioni di questa collocazione nel tempo). Una città con i
suoi abitanti, le sue case, il suo porto, le sue navi, con il suo re
- traduco così, per ora, il termine basileus
-, con la sua piazza (agore),
dove si riunisce l'assemblea del popolo. Il prototipo, insomma, di
una comunità che si appresta a diventare una polis,
l'organizzazione politica di cui Atene resterà il modello
insuperato, o quantomeno più conosciuto, e di cui Itaca presenta già
chiaramente in embrione gli elementi caratterizzanti.
In
questo libro, insomma, l'Odissea non
è vista come Bildungsroman.
Come è giusto, quell'Odissea
resta territorio di letterati e filosofi. E non è neppure vista,
secondo un'altra interpretazione cara ai letterati, come ripetizione
di episodi che raccontano sempre, senza fine, la stessa esperienza
del protagonista.
Vero
è, certamente, che le avventure di Ulisse non finiscono con il suo
ritorno a Itaca. A dircelo è Ulisse stesso, nell'Odissea.
Tornato finalmente alla sua isola, dopo aver ucciso i pretendenti
della moglie e punito i servitori che lo avevano tradito (il capraio
Melanzio, le dodici ancelle infedeli), Ulisse si appresta a godere
con la moglie del "sonno soave", da lui più che meritato e
dalla povera Penelope tanto lungamente atteso. Ma prima di
concederselo, si sente in dovere di avvertire la moglie che a Itaca
egli resterà solo per qualche tempo: nell'Ade, l'indovino Tiresia
gli ha predetto che le sue prove non termineranno con il ritorno in
patria (Od., 11, 119-137).
Penelope,
a riprova delle sue virtù, si guarda bene dal recriminare: io sarò
sempre qui ad attenderti, promette al marito, nel letto che sarà
sempre pronto per te, ogni volta che "lo vorrai nel cuore".
Ma una domanda, una sola, Penelope vuole farla: quale sarà la meta
del prossimo viaggio? E Odisseo racconta la profezia: egli dovrà
navigare sino a giungere presso genti che non conoscono il
mare,/ non mangiano cibi conditi con sale,/ non sanno le navi dalle
guance di minio,/ né i maneggevoli remi, che son ali alle navi.
(Od.,
23, 269-272)
Un'altra
Odissea lo attende, insomma: sui dettagli della quale, peraltro, vi
sono non poche incertezze. Nella profezia di Tiresia, egli viaggerà,
portando un remo sulla spalla, fino a quando un altro viandante gli
dirà che regge sulla spalla un ventilabro: in altre parole, sino a
che non giungerà presso gente che non conosce la navigazione. Solo
allora, dopo aver piantato in terra il remo e aver sacrificato a
Poseidone, Ulisse potrà finalmente tornare a casa, e restarvi sino a
quando "morte dal mare" gli verrà, molto dolce,
cogliendolo "vinto da serena vecchiezza" e circondato da
"popoli beati" (Od.,
23, 267-284, che riprende 11, 121-137).
Ma
le fonti diverse da Omero, pur confermando la notizia, di questi
viaggi danno versioni differenti. Oltre a informarci sull'itinerario,
questi racconti parlano di incontri femminili, che attestano quel che
- del resto - risulta già chiaro dall'Odissea:
a differenza di quella proverbiale della moglie (sulla quale peraltro
torneremo), la fedeltà di Ulisse è quantomeno discutibile.
Secondo
l'Epitome di
Apollodoro, infatti, attraversato l'Epiro, Ulisse sarebbe giunto
presso i Tesproti, sui quali avrebbe regnato dopo averne sposato la
regina, Callidice, che gli avrebbe dato un figlio di nome Polipete. E
secondo Pausania solo alla morte di Callidice egli sarebbe tornato a
Itaca, ove nel frattempo Penelope gli aveva dato un secondo figlio,
di nome Poliporte. Ma i suoi ultimi giorni a Itaca non sarebbero
stato felici come gli aveva predetto Tiresia. Ulisse infatti sarebbe
stato ucciso nel corso di una rissa da Telegono, il figlio avuto da
Circe, che - sbarcato sull'isola alla ricerca del padre - sarebbe
stato da questi scambiato per un ladro. Infine, dopo l'uccisione del
padre, Telegono avrebbe sposato Penelope.
Le
notizie insomma sono molte e contraddittorie; la morte per mano di
Telegono, infatti, non si concilia con il verso omerico sopra citato,
che parla di "morte dal mare". Ma l'espressione greca ivi
tradotta è ex alos,
che può anche significare "lontano dal mare": donde un
tentativo - in verità non poco forzato - di conciliare le opposte
versioni: Ulisse muore per il veleno di una razza, usata come punta
della sua lancia da Telegono, il figlio "nato lontano".
Su
tutto questo torneremo: come che sia, il viaggio verso Itaca non è
l'ultimo viaggio di Ulisse. E, di nuovo, le interpretazioni delle
ragioni che lo inducono a riprendere le vie del mare sono molte.
Secondo
quella forse più scontata, il viaggio, inteso come meta da
raggiungere e prove da superare, è il senso stesso della vita di
Ulisse. Così lo intende, accanto a molti filologi di professione,
anche Giovanni Pascoli: dieci anni sono passati dal momento del
ritorno in patria (dieci è ovviamente numero topico nella storia di
Ulisse: dieci anni sotto le mura di Troia, dieci in mare, sulla via
del ritorno, dieci a Itaca, prima di reimbarcarsi).
Ulisse,
vecchio e canuto, non trova più ragioni per vivere. Gli anni
trascorsi a Itaca, senza motivazioni e senza obiettivi, hanno
trasformato la sua vita in un'anticamera della morte. Sinché, un
giorno, quasi ridestandosi da un lungo sonno - mentre Penelope dorme,
senza svegliarla - Ulisse si reca sulla riva del mare, dove da dieci
anni, appunto, lo attendono i compagni, e riprende il suo viaggio a
ritroso, quasi alla ricerca di un passato nel quale ha vissuto
momenti che forse rimpiange, in cui ha compiuto scelte di cui forse
non comprende più il senso, di cui non sa più valutare a fondo le
ragioni.
Eccolo
dunque dirigere la prua verso l'isola di Circe, verso la terra dei
Lotofagi, verso la dimora delle Sirene: quelle Sirene di cui, un
tempo, non aveva voluto ascoltare il canto, ma che ora interroga, per
sapere che senso ha la sua vita mortale. Ma le Sirene, quasi a
punirlo per non averle ascoltate quando volevano rivelargli le verità
che esse sole conoscevano, restano chiuse in un ostinato mutismo:
come, in una bella pagina di Kafka, avrebbero peraltro già fatto nel
corso del primo incontro. E Ulisse continua il suo viaggio, giungendo
finalmente da Calipso, la ninfa che gli aveva offerto l'immortalità,
e muore tra le braccia di lei, avvolto nei suoi capelli. Forse,
chissà, rimpiangendo di aver scelto la sorte dei mortali.
Ma
tante altre, e diverse, possono essere le interpretazioni dei viaggi
di Ulisse, di quei viaggi che quando sembrano giunti al termine
ricominciano, senza fine: in genere perché un dio è stato offeso,
ma a volte anche senza una ragione (come, appunto, nel caso
dell'ultimo viaggio).
Sotto
questo profilo, è difficile allontanare l'immagine di un'Odissea
serial, racconto a
puntate antesignano dei Dallas televisivi, a loro volta
caratterizzati, oltre che dalla ripetitività della trama, dalla
tipizzazione dei personaggi, televisivamente ottenuta
dall'abbigliamento, dal sorriso, dalla pettinatura o altri elementi
che immediatamente segnalano il tipo sociale e psicologico, il loro
carattere, il loro ruolo.
Pensiamo
alla forma più elementare della tipizzazione omerica, i famosi
"epiteti", che costantemente accompagnano il riferimento ai
diversi personaggi, fino a diventare quasi parte del loro nome:
Achille "piè veloce", Odisseo "dalle molte astuzie",
Penelope "saggia". Era "dalle bianche braccia", e
via dicendo: la tipizzazione dei personaggi televisivi attraverso gli
elementi visivi, come è stato osservato, appare in qualche modo
l'equivalente degli epiteti omerici.
Senonché,
mentre l'interpretazione letterario-filosofica di questo "serial"
(se così lo si vuole leggere) pone l'accento sulla ripetitività
senza fine delle esperienze del protagonista, la nostra indagine
privilegia un'ottica diversa. Della nostra storia, Ulisse è il
deuteragonista: la protagonista è Itaca, la meta del viaggio.
Itaca
con i suoi abitanti, le sue istituzioni, la sua storia. E la storia
di Itaca non è ripetizione di eventi: è la vita in divenire di una
comunità dove uomini e donne si confrontano e si affrontano, dando
vita a un tessuto di relazioni sociali governate, fondamentalmente,
dai meccanismi tipici di una "cultura di vergogna": di una
cultura, come vedremo meglio più avanti, in cui il rispetto delle
regole è assicurato dal timore di perdere l'immagine (o, come si
dice oggi, la faccia).
Ma
nel momento in cui il re finalmente ritorna, dopo un periodo di
rottura delle convenzioni dovuto alla sua assenza e alla tracotanza
dei pretendenti di sua moglie, qualcosa di molto importante accade,
nell'isola. Il ritorno di Ulisse non segna solo il ristabilimento
dell'ordine precostituito. Esso preannunzia la nascita di un ordine
nuovo. Una volta eliminate le turbative, Itaca si riorganizza in un
sistema nel quale è possibile cogliere le tracce delle prime regole
giuridiche del mondo occidentale.
Itaca
e la nascita del diritto, insomma: questa è la storia che vogliamo
raccontare. Una storia che, intrecciandosi ovviamente con quella di
Ulisse e del suo ritorno in patria, sarà composta di tre parti.
La
prima parte sarà dedicata a Itaca in assenza di Ulisse: una comunità
in cui vige la legge del più forte, nella fattispecie la hybris,
la tracotanza senza misura dei pretendenti di Penelope; una città in
cui il tempo sembra sospeso in attesa del ripristino di un ordine
senza il quale non è neppur pensabile una vita civile.
La
seconda parte sarà dedicata alle avventure di Ulisse lungo la via
del ritorno, o quantomeno ad alcune di esse; al significato che
queste hanno ai fini della comprensione dei valori eroici e del
discrimine tra la civiltà, che Ulisse rappresenta, e la barbarie,
nella quale si imbatte e sulla quale ha il sopravvento. Ma non è
solo la barbarie il pericolo che Ulisse deve scongiurare. Non meno
pericolosa, anche per i valori civici, è la seduzione, rappresentata
nell'Odissea -
certamente non a caso - da figure femminili più o meno mitiche.
Le
avventure di Ulisse con questi personaggi femminili insegnano tra
l'altro che esiste una divisione netta e invalicabile tra due
categorie di donne, che hanno ruoli e, più avanti nel tempo, uno
status giuridico diverso. Una distinzione presente, nella mentalità
greca, ben prima del momento in cui la polis
la codificherà nelle sue leggi: da un lato le donne oneste (le mogli
e le donne destinate a diventare mogli: le figlie e le sorelle del
capo della casa); dall'altro le seduttrici, donne libere, autonome al
punto da vivere sole, belle e invitanti, ma mortalmente pericolose.
Infine,
esaminate sia singolarmente, sia nel loro complesso, le avventure di
Ulisse sulla via del ritorno si rivelano, in più di un'occasione,
come le gesta di un soggetto - contrariamente a quanto spesso si
afferma - già "intero" e compatto, capace di
autodeterminarsi e di agire non solo indipendentemente, ma a volte
addirittura contro la volontà degli dèi.
La
terza parte, quella conclusiva, sarà dedicata a Itaca dopo il
ritorno di Ulisse. Essa sarà la storia della sua riconquista del
potere familiare e politico. Due poteri diversi, che Ulisse riafferma
all'interno di due logiche diverse.
Il
potere domestico - potere di un capo assoluto, su dipendenti che
potremmo definire sudditi - viene riaffermato infliggendo castighi, a
volte feroci, ma che tengono conto tuttavia di concetti etici come
volontarietà o involontarietà dell'azione, presenza o assenza della
colpevolezza e responsabilità dell'agente.
La
riconquista del potere politico, invece, si svolge nella logica
inesorabile della vendetta, retribuzione pura che non può tener
conto di stati soggettivi, di gradazioni della volontarietà e di
misurazioni della colpa. Ma anche all'interno di questa logica - non
nel caso dei proci, ma nel corso di altre vendette - è possibile
cogliere l'emergere di nuove regole, che segnalano la trasformazione
della forza fisica da strumento di riaffermazione dell'onore
individuale e familiare in strumento per il mantenimento di un ordine
comunitario, garantito da alcune norme di comportamento che la
comunità considera imprescindibili. E sempre all'interno di questa
logica, è anche possibile individuare i metodi predisposti dalla
nascente polis per
imporre l'osservanza di queste norme. In altre parole, come abbiamo
già detto, è possibile cogliere un momento fondamentale nella
storia dell'Occidente: quello nel quale, in Grecia, nacquero le prime
regole che oggi definiamo giuridiche.
Da
Itaca. Eroi donne e potere tra vendetta e diritto,
Feltrinelli, 2013 (prima ed.
2002)
Nessun commento:
Posta un commento