4.2.13

Venticinque anni dopo. SuperByron (di Irene Bignardi)

Nel 1988, in occasione del secondo centenario della nascita  di George Byron, una mostra ravennate ne rievocò le vita avventurosa e l’opera letteraria, con una attenzione particolare alle frequentazioni italiane e ravennati del poeta. Il commento alla mostra di Irene Bignardi (da “la Repubblica”) mi pare tuttora un utile approccio alla complessa figura dell’autore dell’Aroldo, alle sue contraddizioni, alla sua ambigua modernità. (S.L.L.)
A percorrere le belle sale della Biblioteca Classense, tra i ritratti e i documenti, tra le edizioni rare e i video, tra i busti e i cimeli che la città di Ravenna ha raccolto per celebrare George Byron con una grande mostra appena inaugurata, non ci si può sottrarre a una tentazione irresistibile come la maggior parte delle tentazioni.
La tentazione è quella di sovrapporre al poeta e al suo personaggio i modelli di oggi o di appena ieri.
l modello maledetto, un po' hippy, dell' intellettuale che cerca e trova una lotta ideale e politica per cui battersi (e, nel caso di Byron, in cui lasciare la vita).
Il modello di un rappresentante della classe alta che dirazza e sceglie la causa degli altri (il discorso con cui il giovane Byron debuttò alla Camera dei Lords in difesa degli operai delle industrie tessili, colpevoli di aver fatto a pezzi i telai meccanici, è qualcosa che l' Inghilterra non gli perdonò e non gli ha ancora perdonato, visto che, solo tra i grandi, Byron continua a restare sepolto fuori dal terreno sacro di Westminster).
E poi il modello turbolento di una grande libertà sentimentale e sessuale, all' insegna di un dongiovannismo più subìto che cercato (diceva, il bel Lord, di essere stato stuprato più di qualsiasi essere vivente dalla guerra di Troia in poi), di un' ambiguità e inquietudine tranquillamente esibite e cantate (dagli amori con l' infelice sorellastra Augusta a quelli con il suo scudiero greco).
E ancora il modello yuppie di un ossessivo cultore della propria forma fisica e dell' eleganza. Perché passi per i colossali conti che Byron pagò sempre a sarti e dentisti (tanto che arrivato in Italia chiedeva con insistenza al suo editore John Murray di spedirgli regolarmente, appunto, una certa polvere dentifricia rossa, gli spazzolini, gli unguenti e i raschiacalli che lo aiutavano nelle sue rigorose toilette). Ma Byron, a quanto risulta, visse un' anticipatoria vocazione per le diete, e pur laureato in tutti i vizi principali, tra cui quello della gola, quando riuscì, da giovanottone di cento chili afflitto anche dal complesso del piede deforme, a trasformarsi nel bellissmo dandy che noi conosciamo, continuò per tutta la vita a digiunare. Ad Atene, aboliti saggiamente carne e vino, mangiava solo riso e beveva acqua e aceto. Nel 1813, in Inghilterra, si limitava a sei biscotti secchi al giorno e a bere the cinese verde.

Jack il pazzo
Il modello, infine, di una popolarità affidata all'immagine, alla leggenda, persino al pettegolezzo più, forse, che non alla stessa clamorosa notorietà della sua poesia (che pure raggiunse per l'epoca tirature e vendite vertiginose), e che fa di Byron un precursore della stagione dello star-system e dei mass-media. Prova ne sia che spesso le opere che pubblicava erano accompagnate, in un'epoca ancora innocente, da massicce dosi di qualcosa che assomigliava alla pubblicità.
Insomma Byron come personaggio di grande modernità.
Sarà anche per questo che gli organizzatori della mostra di Ravenna, tra cui Donatino Domini che ha curato il bel catalogo edito da Longo pieno di saggi e di contributi, sostengono, anche se la mostra si inaugura in pieno '88, di non aver voluto celebrare un anniversario. Cosa per la quale sarebbero in effetti un po' in ritardo, visto che Byron, come ha già ricordato su queste pagine Guido Almansi il 22 gennaio scorso, nacque con il nome di George Gordon proprio il 22 gennaio 1788 in un modesto appartamento di Holles Street a Londra, da un capitano noto come Jack il pazzo e dall' ereditiera scozzese che il suddetto capitano avrebbe spogliato di ogni penny prima di piantarla e scomparire per sempre. E visto che il poeta è stato in questi mesi celebrato variamente in giro per il mondo, dal libro che l'ex leader laburista Michael Foot ha dedicato alle sue idee politiche alla mostra che il Museo Delacroix di Parigi ha inaugurato in giugno con tutto ciò che Byron ha ispirato a Delacroix stesso.
La mostra, invece, vuole soprattutto essere un omaggio autonomo della città di Ravenna al poeta che a Ravenna è lungamente vissuto.
George Byron, già carico di gloria e di fortuna, oltre che di piccanti leggende e di una fama sulfurea, approdò infatti a Ravenna per amore nel 1819. Da quando, per una serie di morti degne di Sangue blu, aveva imprevidibilmente ereditato il titolo di Lord Byron, il poeta aveva scandalizzato la Camera dei Lords, aveva pubblicato i primi canti di Childe Harold, aveva compiuto un Grand Tour anomalo che lo aveva portato alla periferia dell' impero di allora, dal Portogallo all' Albania alla Turchia. Aveva amato un numero inverosimile di donne, da Lady Caroline Lamb alla sorellastra Augusta Leigh (“Benché umana tu non m' ingannasti...” comincia una lacerante poesia a lei dedicata che accompagna, nella mostra, un bellissimo ritratto della donna amata).
Si era sposato con una ragazza bella e nobile, che per lui rimase però la principessa dei parallelogrammi e la mia matematica moglie, con cui ebbe la figlia Ada e da cui si separò prontamente e scandalosamente dopo un anno di matrimonio. Sull'onda dei suoi dissensi politici e dello scandalo aveva lasciato l'Inghilterra, aveva conosciuto Shelley, aveva passato con lui, con sua moglie Mary, con la di lui sorellastra Claire Clairmont e il dottor Polidori la torrida estate 1816 a Villa Diodati, sul lago di Ginevra, da cui nacquero sia il Frankenstein di Mary Shelley sia una sfortunata bambina di nome Allegra, avuta con Claire e destinata a morire a cinque anni in un convento di Bagnacavallo. Ed infine era arrivato, preceduto dalla sua fama letteraria e personale, a Venezia, a Palazzo Mocenigo, dove scrisse tantissimo, da cui inviò quotidianamente decine di lettere ad amici ed amanti, dove diede sfogo alla sua scatenata vitalità nuotando dal Lido fino a Mestre e intrecciando intrighi amorosi.
Finché un giorno, nel salotto della contessa Benzoni, Byron conobbe Teresa Gamba, diciannove anni, moglie del sessantenne conte Guiccioli di Ravenna. Fu per lei che Byron si trasferì a Ravenna. Fu per lei che accettò di impersonare, con molta autoironia, il ruolo del cavalier servente, trasferendosi addirittura a vivere nelle sale di Palazzo Guiccioli, con il beneplacito del conte.
La sua fuga senza fine si fermò per un po' in quello che fu un grande amore, di cui alcuni autografi esposti a Ravenna riproducono tutti i balbettamenti insensati, comprese le crocette al posto dei baci e le tenerezze in codice. La fuga riprese quando Teresa Guiccioli fu esiliata assieme alla sua famiglia, carbonara, che aveva coinvolto anche Byron nelle sue attività rivoluzionarie. Byron raggiunse Teresa a Pisa. La felicità forse era finita. Certo irruppe nella apparente tranquillità la morte di Shelley, finito in un naufragio al largo di Livorno e cremato sulla spiaggia di Viareggio sotto gli occhi dell'amico.
Nel settembre 1822 Byron si trasferì a Genova e il 13 luglio 1823 (venerdì) partì per la Grecia, per andare a combattere contro i Turchi nella battaglia per la liberazione della sua amata Ellade.
Affrontò anche questo, come tutto il resto della sua vita, passioni e frivolezze comprese, con grande serietà e senso dell'ironia insieme. Ma il destino non gli fu amico. E dopo una misteriosa crisi e alcuni salassi assassini, Byron morì, a trentasei anni, il 19 aprile 1824, in mezzo alle pianure di Missolungi.
Di questo poeta dimenticato e di questo personaggio ingigantito dalla leggenda, la mostra di Ravenna segue tutto il percorso umano e poetico. Ed inevitabilmente, visto che Byron poeta è certo meno letto di altri suoi contemporanei, chi esce vincente è il personaggio, la sua vicenda umana, la sua forza, la sua bizzarria e la sua simpatia. I quadri bellissimi o curiosi di Turner e di Géricault, di Eastlake o di Thorvaldsen, le incisioni e le stampe, le mappe e le caricature, ci restituiscono così Byron e le sue donne, il suo mondo e i suoi personaggi il Conte Lara, la Parisina, Manfred, e, più autobiografico che mai, il giovane Aroldo in un intreccio ordinato e confuso tra arte e vita. Byron in costume albanese o greco, o in intensa meditazione di fronte alle rovine del Partenone, non è meno personaggio del Conte Lara, bellissimo, di Morelli, così come romantico e romanzesco è il ritratto di Teresa Gamba e di suo marito in cui il volto della donna è stato abraso, forse dalla donna stessa.

La pelle ai posteri
La pira su cui brucia Shelley o il livido, aulico Byron morto di Odevaere non sono meno drammatici e letterari dei tanti prigionieri di Chillon di cui la mostra è popolata. La caricatura che ci mostra il poeta vecchio e laido come la morte non gli permetterà mai di essere accanto a un'invecchiata e orribile Guiccioli per la serie Les amants célébres non è meno divertente, nella sua crudeltà invidiosa, delle illustrazioni popolari al Vampiro attribuito a Byron (e in realtà opera dell' ambiguo e un po' plagiario dottor Polidori).
Di tassello in tassello, questo viaggio nella memoria del supereroe byroniano è accompagnato da una colonna sonora che ci ricorda quanto il melodramma debba a Byron dal Manfredi alla Parisina d'Este al Mazeppa a I due Foscari fino alla sala dei feticci.
Umano, troppo umano, il nostro Byron si tagliava capelli e altro, li intrecciava e li distribuiva alle sue amiche. E alla più cara di tutte e la più tenace, Teresa, restava anche dopo la sua morte, per piangerlo, un medaglione contenente alcuni frammenti della pelle del prezioso lord, persi per un'eccessiva esposizione al sole dell' estate 1822, e, con raccapricciante idolatria, conservata per la nostra gioia.

“la Repubblica” 9 agosto 1988

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