Italia, anni Trenta: fra Chiesetta alpina e Giovinezza, fra le onde radio della giovanissima Eiar s'iniziano a
sentire suoni diversi, più sincopati; l'America di Glenn Miller e di Duke
Ellington sbarca molto prima che le truppe Usa arrivino ad Anzio: questo però è
uno sbarco pacifico, quello dello swing. Il movimento ondulante che è parente
stretto del rock'n'roll, arriva, come narrano le vicende avventurose dei
musicisti italiani di quel periodo, tramite i padelloni, ossia i V disc.
Grazie ai supporti in vinile
(anzi acetato) del popolo musicale degli Usa e a un forte mercato che non tiene
conto solo dell'opera lirica italiana, i fortunati che riuscivano ad ascoltare
questi dischi, potevano innamorarsi di un tipo di musica molto diversa da
quella che si sentiva in Italia e che il regime imponeva d'ascoltare.
La storia è lunga a questo punto,
poiché il regime non capiva molto di musica, tant'è che lo stesso Mussolini
(che possiamo vedere in alcune foto imbracciare un violino) era più che altro
un dilettante delle sette note e non aveva competenze specifiche, così come la
maggior parte dei suoi gerarchi e del gruppo degli intellettuali di cui
s'attorniava nella corte romana. Basti solo pensare che i compositori fascisti
(che aderirono al partito e che furono attivisti) si ancorarono a Pietro
Mascagni; già, l'autore di Cavalleria
rusticana che ha sempre malamente condiviso i palcoscenici italiani con la
bravura e la signorilità di Giacomo Puccini, compositore di gran lunga
superiore, aveva la competenza di chi usciva dai conservatori dell'epoca e
quindi proponeva una cultura classica della musica, figuriamoci quindi cosa
potesse mai capire di jazz o di swing. Per uno melodico come lui potevano
andare bene le canzoni del collega Ruccione.
Mario Ruccione è stato proprio il
simbolo del pressappochismo fascista verso la musica; infatti fu lui l'autore
di Faccetta nera (in realtà plagio
della sigla che Gustavo Cacini, un attore romano sullo stile di Fregoli e
Petrolini, aveva composto per i suoi show), ma anche della fiera del kitsch
melodico, come Bianco Padre, Chitarratella, Vecchia Roma, Popolanella,
Buongiorno tristezza. Silenziosamente
però, s'insinua il lavoro di Pippo Barzizza, genovese classe 1902, anch'egli
con solidi studi classici alle spalle. La sua prima creatoci fu l'orchestra
Blue Star che riuscì a ritagliarsi uno spazio molto importante nei locali da
ballo di Genova. Infatti all'epoca qualsiasi musica che non fosse classica,
doveva servire per far ballare. Le città dove si ballava con grande ardore
erano, oltre Genova, Torino, Milano, Napoli e Roma, ma un po' dappertutto non
si disdegnava di passare il tempo mangiando e ballando, dando vita così a quei
circoli che saranno fondamentali per diffondere la rete «popolare» di
Mussolini.
Un celebre pezzo swing di Alberto Rabagliati. |
La grande passione per il ballo
degli italiani era pari alla passione per la canzone che traeva spesso origini
dalle romanze di Francesco Paolo Tosti. In questo ambito il lavoro di Barzizza
fu molto importante, poiché quando nel 1936 entrò a lavorare come impiegato
negli studi dell'Eiar, si trovò di fronte alla cultura del motivo popolare,
quindi dovette partire dalla base ritmica per far entrare nelle orecchie degli
italiani la musica Usa; rimpolpò la sezione degli ottoni e usò gli archi con
figurazioni sincopate o semplicemente con note lunghe a mo' di pedale armonico,
mentre la batteria e le percussioni avevano il ruolo più importante nel
definire l'andamento sincopato, spesso sostenute dal pianoforte. Di fronte a
questo nuovo modo di suonare, non pochi musicisti ebbero difficoltà,
soprattutto quelli che provenivano dal mondo della canzone "classica; per
non parlare dei cantanti, alcuni dei quali si guardarono bene dall'aderire al
nuovo linguaggio. Ovviamente lo swing imperversò nelle sale da ballo e spesso
sostituì i valzer, le mazurche, i tanghi e anche i fox-trot. Con Barzizza si schierarono
idealmente e professionalmente Alberto Rabagliati, Ernesto Bonino, Oscar
Carboni, Silvana Fioresi, e con la creazione in radio dell'Orchestra Cetra la
musica cambia direzione.
Poi negli anni Trenta accadono
eventi molto importanti. Nel 1935 Carlo Prato scova, in un locale di Torino, un
trio di tre giovani olandesi che si dicono oriunde italiane: Alexandria, Judith
e Chatarina Leschan; Prato le prepara vocalmente mentre Barzizza ne intuisce le
qualità e decide di affidargli alcune di quelle canzoni che poi diverranno i
successi delle «italianizzate» Lescano. E partono quindi nell'etere C'è un'orchestra sincopata, Ciribiribin, La gelosia non è più di moda, Le
tristezze di san Luigi e l'arcinota Tulipan.
Ma è grazie a un giovane jazzista, innamorato di Louis Armstrong e di Duke Ellington,
che le Lescano «sfondano» assieme a Silvana Fioresi con Pippo non lo sa che tanto fece arrabbiare il vice duce Starace; ma
Gorni Kramer, che ne fu l'autore, non fece una piega e con la sua fisarmonica
iniziò a swingare senza sosta. A dare manforte a questa sorta di carboneria della
musica, ci pensò Louis Armstrong che arrivò proprio a Torino nell'anno delle
Lescano: il ghiaccio era rotto. Dal canto suo il regime si guardò bene dal disturbare
il successo dello swing, perché Romano Mussolini fu colpito dalla passione per
il jazz e, da modesto pianista, «impose» al padre quel linguaggio che - come
Topolino - finì per piacere anche al duce.
Concludiamo sottolineando che
Pippo Barzizza, rimane ancora oggi il maestro indiscusso di un'epoca e di un
sound che nulla aveva da invidiare ai cugini statunitensi: d'altronde quello
che riuscì a creare fu proprio una sonorità ricercata, dove si amalgamavano le
espressioni degli strumenti con le voci fino ad arrivare a quella che sarà l'orchestra
detta ritmico-sinfonica, proprio dall'intuizione di Barzizza.
L'era dello swing non è mai
finita ma si può collocare sicuramente con la fine del secondo conflitto
mondiale e con l'avvento della canzone melodica e la nascita di Sanremo (alla
quale collaborò attivamente lo stesso Angelini). Il lavoro di Barzizza, anche
se con strade e intenti diversi fu portato avanti da tanti jazzisti, primo fra
tutti Kramer e poi Lelio Luttazzi fino all'ultima generazione che è quella di
Gianni Ferrio e di Franco Cerri, ideali innovatori di un linguaggio che non
smetterà mai di far battere il piede.
“alias - il manifesto”, 12 febbraio
2011
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