Ho letto le sessanta lettere di
Umberto Saba, fin qui inedite, che Gianfranca Lavezzi e Rossana Saccani hanno
scelto tra le trecentocinquanta conservate nel Fondo manoscritti dell'Università
di Pavia. Indirizzate alla moglie Lina e alla figlia Linuccia nel periodo
1945-1953, le lettere appaiono da Bompiani (pagg. 224, lire 20.000) con un
titolo suggestivo, per non dire pittoresco, tratto da un passo dello scrivente:
Atroce paese che amo. Ammetto che
suona molto sabiano, e che si addice a quegli anni umilianti, squallidi, di
povere passioni e di paure. Qualcuno potrebbe affermare che si addice anche a
questi anni, e agli anni appena passati e agli strapassati. E' un titolo che fa
colore, è poetico drammatico nazionalpopolare. Ciò non toglie che nel leggere
le lettere privatissime di uno scrittore morto trent'anni fa mi sono sentito a
volte un ficcanaso; e a parlarne divento un ficcanaso pubblico, ovviamente
autorizzato.
Probabilmente il mio imbarazzo
dipende dal fatto che non sono mai stato, nemmeno nei tempi giovanili, un
patito della poesia sabiana. La percepivo prontamente e la trovavo ammirevole,
ma i miei gusti s'invaghivano di altri suoni e altre orchestrazioni. Come se a
uno, viziato ascoltatore di Satie e Bartòk, Webern e Casella, o per venire più
vicini a noi di Cage e Giacinto Scelsi proponessero una stagione di Ottorino
Respighi.
Primo: per quanto posso, mi
sforzo spesso di comprendere gli artisti e gli scrittori che i miei gusti m'indurrebbero
a trascurare. Dieci anni fa (qualche antico lettore di queste pagine forse
vagamente se ne ricorderà) lessi da cima a fondo il Canzoniere di Saba e, mettendomi dal punto di vista della sua
poetica, trovai almeno venti poesie che avrebbero dovuto rappresentarlo in
qualsiasi antologia.
Secondo: nelle prose di Saba sono
molte e molte le pagine memorabili (e qui sarebbe fuor di luogo enumerarle).
Terzo: se veniamo a sapere
qualche cosa della vita d'uno scrittore, quel qualche cosa confermerà quanto
già sapevamo della sua opera? né più, né meno? Quanto a lui in persona,
conosceremo fatti, manie, aneddoti, di cui avremmo potuto tranquillamente far
senza, ma che, una volta conosciuti, aumenteranno la nostra portatile
collezione di malinconie buffe, metafisici sogghigni o appigli di conversazione
colta. Tipo: la sai la storia del cappotto di Saba, a Trieste nel ' 52? Se il
nostro interlocutore non avrà letto Atroce
paese che amo, potremo fornirgli, eccola, la graziosa storia raccontata dal
poeta a Linuccia.
Carletto, il commesso-socio della
libreria antiquaria di Saba, è pieno di rimorsi per il cappotto del vecchio
Umberto, diventato proprio indecente, e vorrebbe comprargliene uno nuovo
spendendo non più di 30-35.000 lire. Ora un buon cappotto costava allora
pressappoco il doppio. “Così ho avuto un'idea felice. Gli ho proposto di darmi
il suo (a lui non piaceva perché troppo scuro, gliel'ha regalato suo cognato di
Palermo, a me sta benissimo ed è di ottima stoffa) e comperarsi invece lui, a
spese della bottega, uno nuovo e di suo gusto. Ha accettato, con sua e mia
grande soddisfazione. Come sai odio gli indumenti nuovi di sartoria. Il
cappotto di Carletto invece lo conoscevo già, me lo prestava anche quando andavo
alla radio”.
Come si vede, l'idea felice ha un
sottofondo complicato, nel quale gira tortuosamente vittorioso il senso del
regalo e della compensazione. Considerando che un cappotto è regalato due
volte, due cappotti verranno a costare quanto mezzo cappotto; è una mossa di
taccagneria magica, inventiva, gratificante! Da un cappotto usato si ricavano
due cappotti nuovi (uno dei quali meglio che nuovo), e ciò a spese della
bottega, ossia senza esborso di capitale.
Il più bel ritratto di Saba in
quegli anni è di Mario Spinella in Memoria
della Resistenza, citato dalle curatrici nell' introduzione: poeta vecchio
e mite cui balena talvolta negli occhi uno sguardo duro e freddo di rapace. E'
il Saba perseguitato (Spinella lo incontra nel ' 44 a Firenze, dove s'è
rifugiato con la famiglia per sfuggire alla deportazione), o non è il Saba di
sempre? Il poeta impoverito fa vita grama, gode anche di qualche aiuto; chi lo
ospita, chi gli dona pacchi di sigari e tabacco per la pipa; cerca un po' di
fortuna a Roma e a Milano, scrive, pubblica e molto si amareggia: perché non
gli danno un premio di 100.000 lire con la scusa che, essendo triestino e in
odore di comunismo, la scelta avrebbe un risvolto politico (viltà
probabilissima nel ' 46), perché la sua Trieste è sempre più fascista (una
città infernale) e l'Italia del ' 48 è diventata un boccone da preti; e si
amareggia ancor più per esser sempre posposto a Montale e Ungaretti, e magari a
Quasimodo. Si arrabatta, alterna umiliazioni e rivincite. Ha tenacissima stima
di sé e non molla. Nelle difficoltà si difende. E nel difendere il proprio
spazio letterario è, sì, duro e all'erta come un rapace.
Ha in cantiere, tra le altre
cose, il proprio monumento psicologico-critico: Storia e cronostoria del Canzoniere. S' è trasferito da poco a
Milano, dove s' è impegnato a finire o ristampare sue opere per Mondadori, che
dovrebbe passargli un modesto mensile in conto diritti d'autore per sei mesi,
quando da Roma riceve proposte allettanti e inquietanti: dirigere la rivista “L'Italia
che scrive” e fondare una libreria antiquaria. Dopo qualche dubbio e turbamento
rifiuta allegando varie ragioni, la principale delle quali è la più tranciante:
la direzione della rivista mi avrebbe messo a contatto con tutta la letteratura
contemporanea italiana (mi avrebbe messo cioè al servizio dei miei nemici). Ci
teneva, Saba, al proprio isolamento monumentale; e questo si può anche capire.
Ciò che colpisce di più il
lettore delle lettere è l'incerto rapporto di Saba con la scrittura. Lasciamo
stare il tono, raramente vivace, spesso patetico, querulo o semplicemente
depresso. Su questo punto non si scopre nulla di nuovo. Dopo la pubblicazione
del Canzoniere da Einaudi (1945) e di Scorciatoie
da Mondadori (1946) Saba si sente tremendamente sottovalutato. Non occorreva
essere né molto intelligenti né molto profeti per capire che in Italia in
questo atroce paese che amo la mia voce non poteva avere una sorte diversa. In
un paese di letterati e di petrarchisti, un poeta di grande razza è come Gesù
in un paese di preti; l'unica cosa che questi possono offrirgli con tutto il
loro nero cuore è il martirio.
Tutti i poeti (alcuni sono bravi
a nasconderlo) provano il bisogno infantile di essere gratificati dalla gloria,
la quale li assicuri; tu sei grande, tu sei il primo. No, non è questo il
punto. Si avverte piuttosto, e fa perfino tenerezza nel vecchio poeta, che a
Saba non veniva naturale lo scrivere bene e correttamente in italiano. Come se
la sua vera lingua fosse il dialetto e dovesse fare uno sforzo segreto con se
stesso, tranne forse che nei momenti di grazia, per elevare la scrittura fino
alla lingua. Si possono spiegare così certe forme scorrette: aver l'aggradimento, a gratis, andare al Brasile e il buffo carcioffi
alessi e la volpina alessa.
Da Roma nel ' 45 scrive: “Mi
hanno tanto pregato un articolo su Trieste”. E Bobi Bazlen gli consiglia di non
farlo: faccia invece mi ha detto un sonetto postumo. Sembrerebbe uno scherzo,
una scorrettezza caricaturale, la insistita sgrammaticatura di questo passo:“Come
tu sai, non so scrivere, o meglio scrivere mi costa una fatica enorme. La stesura
attuale (si riferisce a Storia e
cronistoria del Canzoniere) è la quinta, me ne occorerebbero ancora due...
Mi occorerebbe anche una signorina che copiasse tutto in bella forma esterna ed
un professore di lingua italiana molto intelligente per rivedere tutto un'
ultima volta. Quante cose mi occorerebbero!”.
E francamente comico è il terrore
della letteratura, e dei letterati, che Saba cerca di comunicare a Linuccia: è
un lavoro terribile, addirittura pericoloso. “A fare le cose onestamente, urti
contro malattie assai gravi dei letterati. Perché non si tratta solo di vanità,
e di interesse, ma anche del fatto che la maggior parte di essi scrive per
reagire a qualche debolezza nascosta, e questo tutti, me compreso, ad un senso
d'inferiorità di origine infantile, cioè fatale”.
Che schietto, questo Saba; che
melodrammatico, dirà qualcun altro. Ma in fondo è lo stesso modo passionale con
cui il poeta vaticina le conseguenze del 1948 democristiano scrivendo alla
moglie: “Fra 6 mesi o un anno l' Italia sarà la Spagna di Franco. Non occorre
ti dica che tutti i letterati sono dalla parte di Franco. Avranno così soldi,
oneri, ecc.; mentre sul Canzoniere e sulle altre mie opere scenderà (è già
sceso) un velo nero...”.
I poeti sono per natura come i
Guasconi dell'Imbriani: esageratori, iperboleggiatori, trasformatori di mosche
in elefanti. Anche uno che pare così aggradirsi delle cose umili come il
dimesso Umberto Saba, il poeta e prestigiatore dei cappotti usati e nuovi. Alla
fine mi guizza un'impressione che mi scatenerà addosso la muta dei sabiani.
Nell'introduzione le curatrici citano una deliziosa lettera del '46 (non
compresa in questo volume) a proposito di certi dialoghi tra il poeta e
Carletto. Con perfetta naturalezza e magnifico effetto di stile s'intrersecano
nel racconto lingua e dialetto. Così succede nella novella Ernesto (o romanzo incompiuto), che resta un libro sorprendente. E
l'impressione è questa: e se Saba avesse concepito anche le sue poesie
mescolando lingua e dialetto? Avremmo forse avuto una poesia meno sublimante e
più giocata espressionisticamente sui piaceri-dolori della vita in versi?
La Repubblica, 14 novembre 1987
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