Un rovescio di Pietrangeli |
Un cronista, un filologo e uno
scrittore: è raro riscontrarne il combinato disposto in una sola persona ma,
quando succede, ciò spiega il carattere eccezionale di opere quali 500 anni di tennis (Mondadori,), vera
bibbia della racchetta che torna in libreria con i debiti aggiornamenti,
mantenendo però lo splendore tipografico e l'accuratezza degli apparati bibliografici
e documentari. Il biblista in questione, Gianni Clerici, l'aveva pubblicata nel
'74, sotto l'egida di Gianni Brera, e una seconda volta nell'87', libro
ponderoso, outsider anche nel formato e nella sontuosa impaginazione che
alterna bianco-e-nero e sequenze fotografiche a colori, era da tempo
irreperibile e di esso può dirsi, come di non molti altri, che se ne sentiva la
mancanza. Né occorre essere appassionati di tennis, o dei praticanti, per apprezzarne
tutta quanta la bellezza squadernata; anzi, un certo tasso di incompetenza o di
relativa estraneità allo sport che pure fu l'emblema della borghesia in cerca
di lustro e aristocratica eleganza induce paradossalmente il lettore a una
ricezione più straniata, dunque più ricca e consapevole.
La parte del cronista, Clerici se
la riserva nelle fitte didascalie al corredo fotografico, quasi un libro nel
libro: che spieghi un servizio di Pancho Gonzalez, un rovescio di Nicola
Pietrangeli o che sorprenda Marcel Proust in una buffa istantanea, mentre inginocchiato
suona la racchetta a mo' di mandolino, lì ritroviamo la puntualità, la
notazione precisa e senza un fronzolo di migliaia di articoli apparsi a sua
firma prima sulla “Gazzetta dello Sport” e sul “Giorno” e poi per decenni su “Repubblica”.
A Clerici filologo e storico dello sport spetta invece il compito della
ricostruzione cronologica, del quadro ambientale e di costume tracciato con
nitore e sicurezza critica, vale a dire con la capacità di distinguere e compulsare
fonti storiografiche molto lontane, che vanno dalla genesi grecolatina alla
penetrazione del gioco nell'intero bacino del Mediterraneo, fino alla pallacorda,
le jeu de paume, con tanto di primi
trattatisti sulle cui pagine il tennis, la pallina che in eterno va e viene,
già simula la dialettica precaria e/o struggente ricomposizione.
E qui va ricordato che proprio da
un nucleo di 500 anni l'autore ha tratto di recente Divina. Suzanne Lenglen, la più grande tennista del XX secolo
(Corbaccio, 2002), una biografia che in effetti si legge come un libro di
storia, o come una vicenda emblematica, circonfusa di mito e nostalgia, della
Bildung secolare. A Clerici scrittore tocca infine la galleria dei ritratti, il
vasto campionario degli atleti nella cui vicissitudine, ogni volta, egli isola
un dettaglio fisico, una vera o potenziale attitudine, insomma qualcosa che sia
capace di svelare il campione e pienamente umanizzarlo alludendo all'ambiente
di origine, al percorso e alla formazione, a quanto in una parola potrebbe dirsi
la sua cultura. Perciò i singoli gesti, prima che dettagli tecnici,
rappresentano sempre metafore e vettori di altro, sono la zona emersa e in
pieno sole di quanto resta in loro un segreto o un mistero appena adombrato.
Stanandoli, alternando ardore lirico e ironia, Clerici li traduce in forma di
quesiti esistenziali. Ecco allora emanciparsi dallo stato di enigma il drive
classicissimo di Jack Kramer, la ritmica duale di Hoad e Rosewall, o l'antitesi
perfetta di Borg e McEnroe, ascia bipenne contro racchetta lisergica. Così
esordisce ad esempio il ritratto di Rod Laver detto il Genio, minuscolo
australiano dai capelli rossi, un mancino che tagliava il rovescio con effetti
lunari e per chiunque scabrosi: «Era una sorta di piccolo cowboy, ma non veniva
dal Texas, il suo paese era più lontano, più duro e più brullo del Texas:
bambino, andava ad appostare i canguri, con gli amici. (...) La prima cosa che
il maestro Hollis insegnò a quel bambino dai capelli rossi, dal viso di triste
Pierrot sommerso di efelidi, dalle gambe arcuate e dalle braccia lunghissime,
fu che doveva vincere sempre 6-0, 6-0, e non mollare mai la palla, nemmeno se
rimbalzava su un albero. Rod promise di essere obbediente, e Hollis si dedicò
allora ai suoi colpi, soprattutto al rovescio».
Del resto, nemmeno la vocazione
narrativa di Clerici è una novità, anche se non tutti i lettori conoscono I gesti bianchi (1974), originale romanzo
dell'apprendistato che si dilata ad affresco (con notevoli intersezioni
d'epoca, si pensi a Le piccole vacanze
di Arbasino) tra Alassio 1939 (a pochi chilometri, cioè a Rapallo, Ezra Pound
giocava le sue incredibili partite a tennis), la Costa Azzurra del 1950 e Wimbledon
di dieci anni dopo; Baldini & Castoldi ha proposto il romanzo in integrale
nel '95 con l'avallo di Oreste del Buono, firmatario di un risvolto dove è detto
che Clerici «scrive del suo sport come nessun altro, senza le nostalgie
adolescenti di Giorgio Bassani né le astrazioni velleitarie di Michelangelo
Antonioni. Con fascino fitzgeraldiano e nervosismo arbasiniano, ma con indipendenza
assoluta di ritmo, colpo d'occhio, tonalità di colori e di risposte del cuore a
ogni provocazione, movimenta la pagina come fosse sempre in campo, in gara,
sempre in tensione».
Una scrittura infatti di cadenza
veloce, a tratti nervosa, ma solo quanto basta per vietarsi effetti eccessivamente
liftati, e che dunque riuscirebbero decorativi; piuttosto, una scrittura che
del tennis mantiene, nei rapidi trapassi di ritmo, quella specie di metronomo
ideale che scandisce la partita e la contiene tutta in sé, sublimando lo sforzo
e lo spreco di sudore in una compostezza sostanziale, in una trama di arabeschi
volatili. È questa la metafora dei gesti bianchi, cioè fatica che diviene
forma, l'arte come riscatto di un lavoro: gli stessi gesti che gremiscono, alla
maniera di una totale ricompensa, la bibbia appunto intitolata 500 anni di
tennis.
“alias – il manifesto”, 26 giugno
2004
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