31.1.14

Vienna 1780-1830. L’età classica della musica (Giorgio Pestelli)

L’articolo, recensione e sintesi di un libro per specialisti e appassionati, riesce a comunicare con grande efficacia il senso di una grande stagione musicale e del suo tramonto. (S.L.L.)

Franz Schubert al pianoforte in un salone viennese. Stampa d'epoca
A differenza di quanto avvenuto in altre arti, l'«età classica» della musica, con il suo centro a Vienna nel mezzo secolo circa fra il 1780 e il 1830, è una età di profondo rinnovamento, di vera e propria rivoluzione; infatti è nella musica di quell'epoca che il linguaggio musicale si costituisce in modo autonomo ed esemplare, articolandosi in una «vicenda» interiore di cui anche l'ascoltatore ingenuo avverte il riflesso nel ritmo della propria coscienza; non è certo un caso che in quell'epoca, per la prima e unica volta, la musica sia stata considerata come l'arte per eccellenza, quella a cui anche le altre arti dovevano tendere per il loro perfezionamento. 
Una sintesi di questa età aurea, ammirevole per profondità di definizioni e ampiezza di vedute, è contenuta nell'ultimo volume di Carlo Piccardi dedicato ai «Maestri viennesi» (Maestri viennesi. Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert. Verso e oltre, Ricordi LIM, 2012): ovvero, le quattro sommità di Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert, più la distesa di una infinità di maestri minori o minimi che tutti testimoniano la nascita della civiltà musicale viennese e il suo perdurare fino alla fine dell'impero asburgico. 
La prima cosa che risalta dalla lettura complessiva è la constatazione che la rivoluzione della «classicità viennese», a differenza delle rivoluzioni artistiche moderne, non è di opposizione al passato, di ribaltamento radicale, ma un prodigioso fenomeno di assorbimento che trova nella città di Vienna la sua camera di compensazione; qui vengono metabolizzate e fuse in unità le più diverse tendenze della cultura e del gusto, che il libro illustra con vivacissima abbondanza di dati: la tradizione colta e quella popolare, sublimità di sinfonie e farsa di operette, la tradizione del contrappunto e il rapimento della danza, «il soffio slavo e il riflesso luminoso d'Italia» (come diceva Hofmannsthal), l'aulicità francese e il dialetto viennese, con il robusto apporto delle correnti provenienti dalle «province» di Boemia e Ungheria; tutto un fermento di prospettive, nutrito nel nostro libro da un sostrato di discussioni letterarie, dibattiti, trattazioni teoriche e critiche giornalistiche che denotano l'insediarsi della musica come realtà totalizzante di un'epoca storica irripetibile.
Il merito principale del vasto saggio è come riesca, diciamo così, a rendere solubili dei colossi come i quattro super-maestri nel tessuto di una storia tanto diffusa e ramificata; è chiaro che personalità come Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert, tutti ripercorsi nelle loro individualità, non sono riducibili a una entità «viennese» (del resto solo Schubert era nato a Vienna, e Gluck, Brahms e Mahler venivano da altre contrade), ma tutti si nutrono delle sue linfe e la bravura di Piccardi consiste proprio nel farli uscire e rientrare continuamente sullo sfondo dello scenario viennese, nel vederli aderire a un codice corrente e poi rimbalzare con un colpo d'ala alle loro altezze solitarie. Decisivo poi per il mordente della narrazione è il suo modo di parlare di musica: sempre concreto e legato alla realtà fonica delle partiture, in modo che i dati culturali sono ricercati e ricavati nella e dalla musica, non in riferimento a forme astratte o a generiche necessità evolutive.
Non si può qui dare conto di tutta la portata di un libro così ricco di scorci storici, spunti originali e intuizioni critiche; limitiamoci a segnalare l'ultimo e fondamentale capitolo, «La parabola musicale dell'impero estinto», che lo compendia e lo illumina a ritroso; una parabola che va dal severo barocco cattolico all'ebbrezza del valzer e ai frizzi dell'operetta, passando attraverso un avvincente paragrafo dedicato alle «turcherie»: che a Vienna o Praga erano poi il lessico degli zigani inurbati, fonte di centinaia di pezzi «all'ungherese» (nello Schubert del celebre Divertimento il pianoforte riesce anche a imitare «l'arpeggiato gesto percussivo del cymbalum»). L'ultimo sguardo penetrante dell'autore va al valzer di Johann Strauss figlio, dove «la spirale del ritmo che gli zigani sapevano tendere dalla più cupa prostrazione fino al più esilarante vortice di note staccate» si esalta fino allo stordimento, alla perdita del senso stesso della realtà: simbolo eloquente di «uno stato imperiale dalle basi politiche sempre più sfuggenti e che, dal Congresso di Vienna in poi, si ostinò a vivere il suo destino dell'utopia della Restaurazione».


“Tuttolibri – La Stampa”, 26 maggio 2012

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