Su un libro e un dibattito
americani a proposito di “The Voice”,
un articolo di tanto tempo fa (quasi trent’anni) che a me sembra ancora tuttora
stimolante. La sua rilettura, peraltro, è stata sollecitazione a riascoltare
memorabili interpretazioni. (S.L.L.)
Frank Sinatra, ormai settantenne,
ha vinto molte battaglie (e quelle che ha perso non sono poche), ma nessuno si
sarebbe mai azzardato a prevedere quest' ultimo suo trionfo: la critica
musicale americana più giovane, composta di gente che quando "la
Voce" abdicava per la seconda volta non era ancora nata, lo riconosce
padre del rock' n' roll. Non Elvis
Presley, ma Sinatra.
In un libro appena uscito, Sinatra: An American Classic, John
Rockwell raccoglie le opinioni sparse di almeno una dozzina di critici dell'ultima
leva e presenta la stupefacente affermazione. Quali sono i termini di questa
strana equazione? Rockwell afferma: "Sinatra, nella storia della musica leggera
americana, precorre la 'veracità' emotiva del rock migliore come nessun altro,
anche se i due stili - il suo e quello creato da Elvis - non si sono mai
incontrati direttamente. Lo sa Iddio quanto il rock' n' roll sia anche esagitato, gonfiato e super-retorico; è l'altra
sua anima. Ma nelle sue manifestazioni più durature, hard o soft che sia, il
rock si muove nelle convenzioni della ' sincerità' colloquiale, cosa che
Sinatra faceva quando i divi di oggi non sapevano nemmeno cosa fosse una
chitarra".
Per giustificare una tale affermazione,
Rockwell riprende in esame la vita e la carriera di Sinatra come se fosse il
primo a farlo (invece lo hanno preceduto almeno venti biografi). Ricchissimo di
illustrazioni, il suo libro sembra una carrellata "visiva", la
lunghissima sequenza di un'avventura che è sempre stata zeppa di colpi di
scena. Tre volte, a partire dalla fine della guerra, la carriera di Sinatra è
sembrata sul punto di essere finita; e ogni volta è ripartita in quarta. Comeback, il ritorno, è la sua parola d'
ordine (ne sta vivendo uno proprio ora). Il magro ragazzo di Hoboken ce la fa a
entrare nell' orchestra di Dorsey. Poi parte da solo. Incide dischi. Ogni
decennio cambia compagnia discografica ed è come sfogliare un libro di storia
(per molti di noi: la storia della nostra vita). Eccolo nei pantaloni
super-abbondanti negli anni Quaranta. E' il disinvolto "padrone del
mondo" negli anni Cinquanta, il "notabile" (con parrucchino)
degli anni seguenti. E' con Franklin Delano Roosevelt nella campagna elettorale
del 1944, alla Casa Bianca con John Kennedy, con Ronald Reagan al suo ballo
inaugurale. Un camaleonte, un divinatore: l'anima opportunistica, arrogante,
ambigua e mutevole di una generazione che, nell'esigenza di restare a galla non
importa come, preannunciava perfino (direbbe Tom Wolfe) l'avvento della "me generation", cronologicamente
tanto più giovane.
Sinatra (qui, e probabilmente,
nella realtà) non è emblematico, ma a modo suo è esemplare. Inoltre (si
chiedono molti critici) ciò che conta è la sua musica; la sua musica, e
aggiungeremmo, i suoi film (almeno due: Da
qui all' eternità e L'uomo dal
braccio d' oro). Ma le immagini si soffermano sugli episodi amorosi, le
molti mogli, i figli, le "virate" politiche, le cazzottate con i
fotografi, quaranta anni di rapporti con la mafia (mai provati, ma sempre lì,
nell'occhio della gente). Il padre (un emigrante italiano finito pompiere), i
"Hoboken Four", l'intuito di Harry James, il suo piombare da idolo
(voce di baritono, l'aria affamata, pronuncia da strada) tra i
"bobby-soxers", i giovanissimi del primo anno di pace: è come l'arrampicata
del protagonista di uno dei film in bianco e nero che partoriva Chicago (dietro
c'è Nelson Algren, c'è James T. Farrell). Nel 1952, improvvisamente, le sue
corde vocali si spezzarono. Sinatra si ribellò, divenne Maggio in Da qui all' eternità (8 mila dollari di
compenso, un' offesa: ma avrebbe recitato per nulla): e vinse un Oscar. Vinse
anche, daccapo, al microfono. Era ormai il "chairman of the board"
dello show business.
Un uomo complesso, come sapevamo.
Rockwell e gli altri trovano tuttavia che c'è un momento, nella sua vita, in
cui la sua "verità" si scopre, ed è in quel suo primo comeback. Bing Crosby aveva indicato che
si poteva cantare in pieno relax: Sinatra, superandolo, si appropriò di quella
dizione naturale, ma sostenendola con un virtuosismo tanto accorto quanto
apparentemente "ineducato". Fu in quegli anni che studiò il
"belcanto" italiano, imparò a controllare il respiro.
Il massimo del suo registro
"popolare" lo raggiunse negli anni Cinquanta su temi arrangiati e
diretti da Nelson Riddle, ed è qui che oggi si trova la parentela tra Sinatra e
il rock. Scrive Rockwell: "Super-sicuro di sé con le donne, ma
emotivamente scoperto, vulnerabile, come se si confessasse". Sinatra, poi,
percorse la sua strada, probabilmente inconsapevole di quanto aveva fatto per
la musica pop. Quando pensò di saperlo, sbagliò: incise qualche motivo rock,
fece una versione disco di Night and Day.
Era fuori strada; e di nuovo tornò alla ribalta, ma come? Riprendendo Kern,
Gershwin, Porter e Berlin: la tradizione che gli aveva dato la sincerità da
passare ai più giovani.
La ripete anche oggi, e bene.
Tutto questo teorizzare sul significato della sua parabola musicale può essere
discutibile. A noi pare però notevole non tanto confermare o confutare la
parentela tra Sinatra e il rock, quanto il fatto che il rock senta il bisogno
di darsela, questa parentela (parlo del rock americano, naturalmente). Un altro
ripiegamento nostalgico? Forse.
la Repubblica, 17 marzo 1985
Nessun commento:
Posta un commento