14.1.14

Novecento dimenticato: Mastronardi il visionario (di Angelo Mastrandrea)

Lucio Mastronardi
Esistono oggi in Italia scrittori come Lucio Mastronardi? La domanda non è affatto peregrina, se per essa intendiamo la capacità di raccontare le trasformazioni della sterminata provincia italiana e, attraverso questo filtro, riuscire a prevedere come esse cambieranno il volto dell’intero Paese. Non siamo in grado di dire se oggi vi siano, nemmeno in nuce, scrittori dotati di suddette virtù visionarie, come fu Mastronardi per una breve stagione a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, oppure il suo amico Luciano Bianciardi o ancora Pier Paolo Pasolini. Quel che è sicuro è che quella folgorante meteora che per qualche anno illuminò il panorama della letteratura italiana è oggi fuori dagli scaffali delle librerie e dalle pagine culturali dei giornali, e Mastronardi (a differenza di Bianciardi e Pasolini) è da annoverare a pieno titolo tra gli scrittori dimenticati del Novecento italiano.
Grande merito, allora, a cinquant’anni esatti da quel Maestro di Vigevano che rimarrà il suo ineguagliato successo editoriale (al quale si ispirerà Elio Petri per l’omonimo film con Alberto Sordi protagonista), a Riccardo De Gennaro per aver ritirato fuori la vicenda umana e letteraria di uno dei tanti scrittori abbandonati per strada nella vorticosa progressione della storia italiana del dopoguerra (La rivolta impossibile Vita di Lucio Mastronardi, prefazione di Goffredo Fofi, Ediesse editore). Si tratta della prima biografia di Mastronardi, a più di trent’anni dalla morte, e anche questo la dice lunga sull’oblìo cui è stato consegnato lo scrittore di Vigevano. Bisognerebbe chiedersi il perché, ancora una volta, la sua prosa non abbia retto all’urto del tempo, nonostante a rileggerlo si possano ritrovare i germi dell’Italia di oggi e si possa capire da dove provenga una certa cultura che ha spadroneggiato nell’ultimo trentennio. Ci si domanda: come avrebbe trattato gli yuppies dell’era craxiana, gli aziendalisti, i rampanti della finanza, l’avanzata leghista lo scrittore che per primo, raccontando l’ascesa sociale (da scarpari a industrialotti) dei suoi compaesani, aveva intuito alla radice la degenerazione del boom economico in un Paese ancora scarsamente acculturato, se il 27 aprile del 1979 non avesse deciso che era ora di farla finita per davvero e si fosse gettato nell’amato Ticino («La piazza e il fiume, questo amo di Vigevano, null’altro», soleva dire)?

Alberto Sordi è Mombelli, il maestro di Vigevano,
nel film di Elio Petri tratto dal romanzo di Mastronardi
La parabola di Mastronardi scrittore è molto breve, figlia del neocapitalismo dei primi anni sessanta ed essenzialmente legata a una trilogia che si apre nel 1959 con il Calzolaio di Vigevano e, dopo l’exploit del Maestro, si conclude con Il meridionale di Vigevano. Il resto saranno oscillazioni tra il non riuscire a sconfinare dalla cittadina lombarda, che faticherà ad abbandonare anche solo per una vacanza, e l’ambizione di «diventare uno scrittore», smarcandosi finalmente dall’artigianato di provincia e avvicinandosi al Gruppo 63 che proprio allora muoveva i primi passi. In entrambi i casi lo scrittore di Vigevano incontrerà la disapprovazione di Italo Calvino, suo grande estimatore fino a quel momento. Una disapprovazione che sfocerà in scontro aperto, anche per il carattere fumantino di Mastronardi, e culminerà nella rottura tra i due e nel passaggio di quest’ultimo dalla Einaudi che lo aveva scoperto e lanciato alla Rizzoli.
La prima stroncatura Calvino la riserverà, nel 1965, al suo quarto romanzo ancora dattiloscritto, L’industrialotto: «Naturalmente quello che posso dirti lo sai già da te: è sempre la stessa storia, le stesse persone, lo stesso mondo. Con ciò non voglio dire che devi cambiare, per carità! Ma non aver fretta e lascia scorrere il tempo, lascia che il mondo cambi intorno a te, e poi, se ne hai voglia, ne registrerai i cambiamenti (…) Il lavoro dello scrittore non è mica quello di un giornale: noi lavoriamo sui tempi lunghi».
La seconda arriverà a seguito di uno scambio di missive per un progetto, poi abortito, di un libro di racconti: «Non leggere libri di critica che ti confondano le idee. Leggi il Volponi». «Un mattone», per Mastronardi, che contrattacca: «Ho letto le Mimesis di Auerbach; stupenda opera. A pagina 326
del secondo volume ho finalmente trovato un pensiero che, forse, mi ha sbloccato dalla crisi nella quale mi dibatto da anni e che risale al Calzolaio, appena subito dopo (…) Per me che cerco di descrivere trasformazioni sociali, il senso del tempo è essenziale». La reazione di Calvino è dura: «Trovo che dal tuo temperamento stilistico è molto meno lontano Volponi che i tipi che scrivono incastrando una storia con l’altra. (…) Scritti come erano scritti i tuoi racconti hanno un senso, non solo logico ma letterario. Così no, anche se usi lo stesso materiale variamente disposto. Te lo dicevo che a leggere libri di critici pasticcioni ti sarebbe venuto da fare dei pasticci». Quando parla di «critici pasticcioni» Calvino si riferisce a personaggi come Barilli, Guglielmi, probabilmente Balestrini,ma il bersaglio principale rimane Mastronardi. «Mi pare che la nuova strada non valga la vecchia», gli rimprovera in una delle ultime lettere, il 6 aprile del 1966, a commento di un racconto inedito intitolato Un poco di buono, lasciando intendere che la sua originalità era legata proprio almodo in cui, raccontando la sua Vigevano, Mastronardi aveva messo a nudo le magagne di un’intera nazione contagiata dalla febbre della crescita economica e dell’industrializzazione, e che l’ «italo-lombardo» (la definizione è di Vittorini, che pare gli abbia fatto riscrivere il Calzolaio ben quindici volte) dei suoi libri era già la sperimentazione più felice che potesse aver compiuto. Prova postuma ne sia il fatto che il suo ultimo romanzo, pubblicato da Rizzoli nel 1971, A casa tua ridono, lascerà poche tracce e sarà accolto freddamente dallo stesso establishment letterario. Pur nell’eclissarsi della meteora, Mastronardi avrà però un ultimo guizzo, riuscendo a profetizzare la mercantilizzazione dell’editoria in una lettera del 1966 a Guido Davico Bonino in cui sostiene polemicamente che la maggior parte degli editori «non crede per niente nella letteratura, non crede negli scrittori, non crede in niente fuorché nel commercio e negli affari» e che i libri «sono oramai diventati oggetti di consumo, come i dischi».
Il fitto carteggio con Calvino è uno dei fili più importanti che sorreggono La rivolta impossibile, quasi un’autobiografia nella biografia, tanto intenso fu il rapporto tra due personaggi che non potevano essere più diversi. Era stato lo scrittore de Le città invisibili a costituire una sorta di fratello maggiore dai tempi in cui Mastronardi si era presentato in questo modo a Vittorini: «Sono un giovane di 25 anni e da almeno dieci mi interesso di letteratura... Verga, Pirandello, lei, Hemingway e Steinbeck, l’Americana...». L’infatuazione della casa editrice per quel giovane aspirante scrittore, maestro elementare nella capitale della scarpa, figlio di un comunista e d’indole profondamente anarchica, finito due volte in manicomio e una volta in carcere per aver litigato con un ferroviere, allontanato dalla scuola in cui insegnava nell’esilio di Abbiategrasso perché in rotta con l’intero istituto, fu totale ed è certificata dallo stesso Giulio Einaudi nel libro-intervista di qualche anno fa a Severino Cesari. La Storia darà loro ragione e la trilogia vigevanese, pubblicata nei «Coralli», rimarrà insuperata: quel «fare soldi per fare soldi per fare soldi» raccontato da Giorgio Bocca in un celebre reportage gli darà spunto per immortalare una classe operaia che, stordita dal boom, non aveva saputo sviluppare una coscienza di classe.
A ben leggere, in quel cambiamento antropologico possiamo trovare le radici dell’ideologia leghista e di quella berlusconiana. Ritorna la domanda: esistono oggi in Italia scrittori come Lucio Mastronardi, capaci di raccontarci non solo come siamo, ma dove stiamo andando?

“alias talpa – il manifesto”, 10 giugno 2012

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