Gli epistolari dei grandi (e
anche dei nongrandi: rampolli dell'aristocrazia e parvenus di ogni genere) sono spesso caratterizzati, negli anni
giovanili, da continui lamenti su basse difficoltà quotidiane: malattie,
povertà, case squallide, abiti logori. Non fa eccezione a questa regola l'atteso
primo volume delle Letters of T.S. Eliot,
curato dalla sua seconda moglie, Valerie Eliot (Harcour Brace Jovanovich), che
copre l'arco 1898-1922: dall'infanzia alla pubblicazione di The Waste Land. Il libro contiene una
litania dei soprusi subiti dal poeta; ma anche, per fortuna, non poche
riflessioni che fanno luce, essendo in gran parte inedite, sul momento
fondamentale della sua rinuncia all' America per l'Inghilterra.
Thomas Stearns Eliot aveva
certamente, in quegli anni, di che lamentarsi. Harvard, dove arrivò nel 1906,
lo deluse perché volgare e disordinata. Parigi, dove passò due anni (1910-11,
alla Sorbona), lo respinse perché Aristotele si può studiare solo a Oxford.
Ezra Pound, che Eliot conobbe nel 1914, lo irretì nella giostra del modernismo
più di quanto avesse fatto la lettura di The
Symbolist Movement in Literature di R.A. Symons (uno dei capisaldi della
sua formazione). Poi, nel 1915, sposò Vivien Haigh-Wood, che Bertrand Russell
giudicò subito destinata a uscire di mente. Le conseguenze del matrimonio
furono drammatiche: il padre di Eliot gli tagliò il mensile, lui dovette
rinunciare alla carriera accademica, abbandonò l'America e trovò lavoro presso
la Lloyds Bank.
Ma, sebbene pubblicasse tra l'altro
Prufrock e nel 1922 assumesse la
direzione della rivista letteraria The
Criterion, il rientro all'ovile del vecchio mondo (abbandonato da un suo
avo nel 1670) si rivelò catastrofico. “Le città universitarie sono deserti
intellettuali qui come in America, solo che qui il deserto lo organizzano
meglio, scrive a Conrad Aiken. Ma la mia decisione è giusta: qui sarò felice”,
comunica imprudentemente al padre. Si fa coraggio, certo; però “Prufrock è il mio canto del cigno”,
confida al fratello Henry nel 1916. Due mesi dopo torna a scrivergli: “Sono
sconfitto su tutto il fronte, alludendo al suo matrimonio e alla sua poesia”.
In questa montagna di lettere
indirizzate a settantaquattro interlocutori, Eliot sembra spesso un vinto. Alla
cugina Eleanor dice: “Vivo in un romanzo di Dostoevskij, non in uno di Jane
Austen”; ed esprime commozione per un fattorino ebreo di nome Joseph, che già
sogna di entrare in possesso di cinquemila sterline; come se la stessa cosa non
la sognasse anche lui. Sul finire della grande guerra Eliot cerca di arruolarsi
nello spionaggio americano, ma senza riuscirci. “La burocrazia militare mi ha
fatto perdere due settimane di stipendio alla banca”, si lamenta col padre.
Dante, padre spirituale, gli
suggerisce di continuo l'idea dell'inferno: malattie fisiche, crolli mentali,
umilianti collette organizzate da amici, Vivien alla deriva, fallimento del
matrimonio. E' però in questo inferno che Eliot crea la sua poesia. In questa società
solo i manovali della penna possono comporre versi, afferma, senza riflettere
che lo fa anche lui. Intanto tiene fitte corrispondenze con Marianne Moore,
Julian Huxley, James Joyce, Virginia Woolf, Paul Valéry, André Gide, Hermann
Hesse, Sylvia Beach, e naturalmente Pound e Russell.
Sono, le sue, lettere studiate,
analitiche, che rimandano a ciò che egli scrive in altra sede, nei saggi, nelle
recensioni. Solo con Aiken e Pound si abbandona alle vere confidenze. “Devo
imparare a parlare inglese”, scrive a Aiken nel 1914. E più avanti: “Le
preoccupazioni minute uccidono, e l' America vive di preoccupazioni... Si
dovrebbe poter guardare alla propria vita come se fosse la vita di un altro. In
Inghilterra questo è difficile, in America è quasi impossibile”. A Pound, che
pure ha definito prima benintenzionato ma incompetente, manda una
recensione-adesione a un suo (di Pound) manifesto letterario, nella quale
chiarisce la propria posizione verso l'America. “La perniciosa influenza
dell'atletica, dell'assistenza sociale e dei sermoni...”, scrive. “Un'università
non è una scuola di agricoltura, ma in America le scuole di agricoltura sono
più oneste delle università... Ciò che mi allarma è l' americanizzazione delle
nostre università, non il loro prussianesimo. I tedeschi, se non altro, vantano
qualche fatto; noi, solo parole. Loro hanno l' Archeologia, noi abbiamo Come apprezzare i cento massimi dipinti
... Dovremmo parlare della malefica influenza della Verginità sulla Civiltà
Americana”.
Se però è sbagliato attribuire la
sua scelta inglese al matrimonio con Vivien (Eliot la sposò pur amando l'americana
Emily Hale), è altrettanto sbagliato supporla provocata dal suo rifiuto del
mondo accademico americano. Quando scrive “mi sento soffocare”, non parla il
professore universitario deluso: è Prufrock che si sente spiritualmente fuori
da una società che reputa inferiore ai valori estetici di cui si crede
portatore. Il dramma di questa prima fase della sua vita (seguita da quella in
cui avverte le circostanze imprigionanti della civiltà, e da quella in cui
cerca rifugio nella religione) è nel suo non trovare pace nella nuova patria.
C'è poco da fare: la vita di
Eliot è un dramma irritante, e la lettura di queste lettere non attenua
l'irritazione. Si ha un bel tentare di giustificare (come fece, tra gli altri,
Stephen Spender nel 1975) il suo continuo riferirsi a monarchia, ordine,
chiesa, dogma, disciplina, autorità, aristocrazia (la Roma ideale di Virgilio
anziché la Grecia) come forze positive da contrapporre, su un campo di
battaglia solo simbolico, alle forze negative: progresso, liberali, ebrei
cosmopoliti, ecc.; queste allusioni balzano in evidenza (e disturbano) nelle
lettere, che non hanno nulla di simbolico e si rivolgono a persone reali. Alla
poesia di Eliot si può chiedere il risarcimento di tutto questo; e infatti lo
si fa. Purtroppo l'epistolario non è intriso solo dei piagnistei dello snob
offeso che sia pure con estrema eleganza si lamenta della vita: esso rivela la
convinzione che in America la civiltà non c'è, e in Europa (in Inghilterra) si
sono dimenticati di com'era. La scoperta che permettono queste lettere è che,
dopo essere salpato da Boston, Eliot non approdò mai veramente a Southampton.
Nemmeno quando prese la cittadinanza inglese.
“la Repubblica”, 18 settembre
1988
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