Una delle doti migliori della scrittura
di Enzensberger è la limpidezza, la fluidità di un racconto senza inceppi, la
schiettezza delle opinioni, finanche delle singole parole. Ogni cosa è
esattamente se stessa, ogni pensiero è espresso in modo logico e semplice. C’è
onorevolezza nel dichiarare senza superbia, usando anzi il distacco sottile
dell’ironia. Nel suo modo di procedere c’è un candore consumato, potremmo dire,
se non suonasse ossimoro a ingrato rischio di astuzia. Scrittura spontanea e
diretta, la sua, e piacere di chiamare le cose col loro nome.
Difficile dire, nel caso di
Enzensberger, se si tratti più di indole o di disciplina, più di spontaneità o
di nitidezza d’espressione fermamente voluta e rigorosa. E ciò non implica, per
forza, l’adozione di un tono fiabesco: anche Il mago dei numeri (Einaudi, 1997) e Ma dove sono finito? (Einaudi,
1998) sono libri serissimi, esempi di una narrativa di impianto pedagogico non
priva di leggerezza e di intima complessità. Oltre all’esito in bestseller dei
due libri «per ragazzi», basta riandare alla sua aurorale e indimenticabile Difesa dei lupi del 1957, o pensare al
garbato ma denso Josephine e io
(Einaudi, 2010), o a quell’interessante montaggio sulla vicenda di un
rivoluzionario anarchico della guerra civile spagnola che è La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di
Buenaventura Durruti (Feltrinelli, 1973).
Enzensberger, scrittore
poliedrico dalla vena straordinariamente produttiva e recepita con favore dalla
critica tedesca e straniera, ha ora raccolto progetti rimasti allo stadio di
abbozzo, o procrastinati sine die, o
senza mezzi termini falliti, in un libro nuovo, I miei flop preferiti. E altre idee a disposizione delle generazioni
future (traduzione di Claudio Groff e Daniela Idra, «Supercoralli» Einaudi).
Titolo e sottotitolo, disincantati e sinceri – tutti i flop raccontati sono
cari all’autore, sia pure in modi e per ragioni diverse –, indicano subito uno
sguardo che si volge al passato e apre al futuro.
Il libro è strutturato in due
parti: Flop, che ha amabile sapore memoriale
e narrativo, e Magazzino di idee che
offre progetti a chi voglia eventualmente servirsene, perché sulle idee «vigono
le leggi dell’evoluzione, regnano dunque lo spreco, la selezione e il
cambiamento». Le idee sono sovrabbondanti e circolano proponendosi alla libera
realizzazione: su di loro «non esiste il copyright». La prima parte, quella che
costruisce il carattere dominante del libro e ne fonda autoironicamente il
nucleo morale, scopre e annoda alcuni tra i fili più resistenti di una attività
intellettuale intensa nei ritmi e varia negli interessi. La seconda parte è
potenzialmente costruttiva: «invenzioni» che non hanno oltrepassato «lo stadio
di abbozzo» e che a oggi potrebbero essere ancora adottate. Globalmente si ha
l’impressione di entrare in un vasto, articolato e compitissimo quaderno di
appunti lasciato a lungo decantare, fatto raffreddare, riorganizzato con cura e
distanza ironica.
Stilando il regesto dei suoi flop
preferiti Enzensberger mette in luce episodi della sua biografia intellettuale e
nel contempo delinea atmosfere storico-culturali di respiro internazionale. Che
il libro sia improntato a sostanziale piacevolezza è esplicitato – il termine
flop è «senza dubbio gradevole già in virtù della proprietà onomatopeica che l’Oxford
English Dictionary gli attribuisce» –, e il disincanto nei confronti del mercato
editoriale emerge chiarissimo dalla scelta di un termine adeguato e
«imprescindibile nello show business». Nessun imbarazzo mostra Enzensberger nel
raccontare alcuni dei suoi fiaschi migliori, invita anzi «sorelle e fratelli in
Apollo» a fare lo stesso, perché «in ogni circostanza penosa è insita
un’illuminazione (...). I trionfi non tengono sottomano nessun insegnamento,
gli insuccessi, al contrario, favoriscono in vari modi la presa di coscienza.
Consentono di farsi un’idea delle clausole produttive, di usi e costumi delle industrie
di rilievo, e aiutano l’ignaro a valutare le insidie, i campi minati e gli impianti
di sparo automatici di cui deve tener conto muovendosi su questo terreno».
L’intento, dunque, attraverso
lacerti autobiografici, è al fondo politico: il racconto dei fiaschi ha
funzione disvelatrice (oltre a essere «terapeutico» e – sia detto a voce bassa
ma con forte speranza
– capace di «mitigare malattie
professionali degli autori quali perdita di controllo e mania di grandezza»).
Tanto per essere chiari, rispetto
alla vocazione d’autonomia di Enzensberger, e rispetto alla frizione spesso posta
in rilievo tra fruitori e critici, il libro si apre con un’operazione
avventata, la stesura, a metà dei Cinquanta (da principiante, dato l’anno natale
1929), di un poema in prosa che garantisse coesione a un film sperimentale già
montato, Giona: entusiasmo della
critica, deserto del pubblico tenutosi «cocciutamente alla larga». Numerosi
flop riguardano il cinema – a grosso rischio, si sa, per il bisogno di
investimenti cospicui –: un film sull’«eccelso» illuminista Lichtenberg che fa
parte dei suoi «lari», corposo e fantastico canovaccio sull’enigma
dell’attrazione erotica, progetto non fallito, in verità, ma senza fine
rinviato; uno su Humboldt, famoso ma poco compreso in patria, cui dedicò un
ampio e suggestivo brogliaccio, ma non una sceneggiatura vera perché chi scrive
sceneggiature «ha lo stesso peso della quinta ruota del carro» e in più viene
considerato «un presuntuoso guastafeste vittima dell’illusione che il film in realtà
sia roba sua». Contiguo al mondo del cinema è quello dell’opera lirica. Ecco allora
il libretto per un’opera buffa sul Politburo, che continua ad attendere la
musica del «celebre» e «spiritoso» Wolfgang Rihm, caduto in « prolungata
depressione» alla morte della madre; l’ipotesi di due brevi libretti col titolo
«rubato» a Leopardi, Operette morali,
per portare «un po’ di vita nel trantran» del teatro d’opera, senza arrivare a
dargli fuoco, come avrebbe voluto Pierre Boulez, e senza neanche sposare (con
sorpresa e sdegno dei critici) «le offerte più stridule della neo-neo-avanguardia».
Sorridente, oggi, il racconto di come venne «sotterrata» La tartaruga, suo esordio drammaturgico nel 1961 a una riunione del
Gruppo 47: la lettura della sua commedia su un vecchio cancelliere federale
ostinatamente aggrappato alla sua carica, allora, non fece ridere nessuno. Ma
su tutti brillano i flop editoriali, istruttivi quant’altri mai. Il fallimento
di una pregevolissima intrapresa periodica come «Gulliver», un foglio che aveva
tra i suoi ideatori anche Uwe Johnson, Ingeborg Bachmann, Martin Walser, Günter
Grass, e che avrebbe dovuto rompere l’isolamento della Germania Federale
coinvolgendo un’équipe internazionale (Butor, Barthes, Starobinski, Genet,
Calvino, Vittorini, Pasolini, Fortini...): sepolta «senza strilli né pianti»,
commemorata sul «Menabò» nel 1964. E inoltre: l’ambiziosa rivista
«TransAtlantik», pensata per colmare la mancanza in patria, negli anni
settanta, di una rivista come il «New Yorker»; o l’«Intelligenzblatt», rivista
che avrebbe dovuto formare un’opinione pubblica critica, tenendo vivo nella
memoria uno sfogo di Hegel contro le «fabbriche di recensioni in cui la
mediocrità si protegge e si custodisce a vicenda».
Nel Post scriptum Enzensberger offre la sua morale usando un apologo di
Wilde. Ma noi possiamo trarre un tutto nostro o mythos delòi: offrire alle stampe questo libro è una virtuosa e
didattica ritorsione contro il mercato: dai fiaschi si può trarre impeccabile profitto.
“alias della domenica”, 17 giugno
2012
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