Riccardo Piglia |
Accade di rado che nel corso di una
lettura si abbia la sensazione di vivere un’esperienza fondamentale, di leggere
cioè un libro che porteremo per sempre con noi. E più si procede nel nostro
percorso di lettori, più invecchiamo, più rare si fanno le folgorazioni. Non
dubito che se avessi letto Respirazione
artificiale quindici o vent’anni fa il mio destino di scrittore, oltre che
di lettore, ne sarebbe rimasto segnato. Ma è andata diversamente. Lo leggo
soltanto ora nella superba traduzione di Gianni Guadalupi (Edizioni Sur), e pur
ricavandone un’emozione intensissima, rimpiango ciò che avrebbe potuto farmi in
anni più porosi e permeabili.
Conoscevo già Ricardo Piglia.
Avevo avuto la piacevole ventura di imbattermi in Bersaglio notturno, romanzo di sapore poliziesco, Soldi bruciati, romanzo di sapore
analogo ma ispirato a un fatto di cronaca, e L’ultimo lettore, raccolta di riflessioni letterarie. Per quanto
ottimi, nessuno di essi aveva però lasciato tracce indelebili. Tutto
considerato, a colpirmi maggiormente era stata una cosa detta da Roberto Bolaño
in un’intervista. Sosteneva che a Piglia piacciono le cattive traduzioni. Gli piacciono
perché lo scrittore che considera suo maestro, Robert Arlt, si formò da
autodidatta leggendo cattive traduzioni. Bolaño, preferendo quelle buone,
considerava questa passione di Piglia una frivolezza, una specie di vezzo.
Da una città oscura
Anch’io, come tutti del resto,
preferisco leggere un testo ben tradotto, nondimeno la faccenda mi incuriosì; vi
intravedevo qualcosa di profondo riguardante la natura più intima dello scrivere.
Mi sarebbe piaciuto saperne di più. Se mai dovessi incontrare Piglia gli
chiederò lumi, mi dicevo. Ignoravo che i lumi erano a portata di mano, offerti
in forma mirabile proprio in uno dei pochi libri di Piglia che non mi ero preso
la briga di leggere. Non ignoravo tuttavia che Respirazione artificiale è il suo libro migliore. A tal punto
migliore che, dopo averlo liberato per le stampe, e parliamo di decenni fa, Piglia
non lo ha più riletto per il timore di dover constatare che non ha mai più
scritto così bene. Lo scrisse sul morire degli anni ’70 del secolo scorso, un
periodo che per l’Argentina significa desaparecidos e Guerra Sporca.
Piglia lo visse a Buenos Aires,
«una città oscura, in quegli anni». Abitava in un monolocale prestatogli da un’amica
esiliata a Parigi. La finestra affacciava su Plaza del Congresso dove i
militari stendevano tappeti rossi per le loro cerimonie. Una camera con vista
sulla dittatura. E proprio così viene il più delle volte definito il romanzo che,
tra il luglio del 1977 e il marzo del 1980, tra quelle mura fu scritto: il
ritratto in codice di un paese oppresso e torturato. Ed è forse per questo se,
a lungo e scioccamente, me ne sono tenuto alla larga: perché me lo figuravo
come un lamento politico camuffato da romanzo. Inoltre, conoscendo
l’inclinazione argentina al labirinto, immaginavo di affondare in un ginepraio
di criptiche allusioni a vicende di cui avevo nozioni vaghissime. E non
sbagliavo. Nel romanzo vengono snocciolati a profusione nomi di generali, capi
di stato, capi di rivolte, politici, attivisti, nonché di una nutrita schiera
di intellettuali, scrittori, poeti, alcuni dei quali notissimi, ma molti oscuri
o quasi, tant’è che questa nuova edizione italiana è confortata da un’appendice
di note, un benvenuto filo d’Arianna tratto da una precedente edizione
americana tradotta e curata da Daniel Balderstron. E proprio Balderstron, nella
sua prefazione, rivela quanto poco piaccia a Piglia che Respirazione artificiale venga considerato come il mero prodotto di
uno stato di terrore. Ritengo, dice Piglia, che una finzione narrativa sia
comunque in codice, in qualunque contesto essa nasca. La letteratura non è mai
diretta, dice, e così dicendo la assimila in sostanza alla traduzione, a sua
volta espressione indiretta, riscrittura di un testo già esistente.
Il romanzo ha inizio nell’aprile
del 1976, subito dopo il colpo di stato del 24 marzo, ed è dedicato a due
amici, due fra i tantissimi scomparsi in quei giorni bui, Elías e Rubén, «che mi
aiutarono a conoscere la verità della storia». Due indizi forti, così forti da
sembrare inequivocabili. Che nel prosieguo del romanzo la dittatura militare al
potere in quegli anni sia pressoché assente non dovrebbe pertanto importare. Lo
scrittore doveva tutelarsi, mettersi al riparo dalla censura. Perciò ci ha
fornito subito la chiave: perché tocca a noi aprire la porta. Perno dell’esile
intreccio è inoltre un uomo che mai compare sulla scena se non in maniera
indiretta. Potremmo definirlo un nunca
aparecido. Apprendiamo delle sua esistenza per via epistolare o attraverso
i racconti di chi lo ha conosciuto. Quest’uomo, Marcello Maggi, un professore
di Storia e dal passato torbido che vive in esilio più o meno volontario a
Concordia, sperduta cittadina di provincia, lavora per anni a un libro su un
certo Enrique Ossorio, un presunto traditore della patria morto suicida e del
quale Maggi ha sposato una discendente. Nell’aprile del 1976 Maggi scrive al
nipote, Emilio Renzi, che ha appena pubblicato un romanzo ispirato proprio alla
torbida vicenda famigliare di cui il professore fu tempo addietro protagonista.
A quanto pare, Maggi si sente in pericolo e intende lasciare a Renzi le carte
del suo libro su Ossorio.
Tra i due, che non si vedono da un
quarto di secolo, inizia una irregolare corrispondenza e quando Maggi smette
del tutto di scrivere, Renzi si reca a Concordia. Qui, anziché trovare lo zio,
fa la conoscenza del suo migliore amico, un profugo polacco allievo di
Wittgenstein, il quale lo intrattiene una notte intera in una conversazione o,
meglio ancora, con un monologo nel quale l’espatriato alterna aneddoti a certe
sue teorie, la sua filosofia della letteratura, fondata su un ipotetico
incontro tra Hitler e Kafka.
Come anticipato, la notte si
risolverà in un’attesa vana. A Renzi, dello zio nunca aparecido, non resteranno che le carte a suo tempo affidate a
Tardewski (così si chiama il polacco). Ma è evidente che il vero lascito è la fiumana
di parole, i racconti di un intellettuale espatriato e fallito, che Renzi
trascrive con cura e che costituiscono metà (se non più) del libro.
Una trascrizione continua
Del resto già l’incipt è tutto un
programma: «C’è una storia?» Come dire: C’è un romanzo? E un vero romanzo non
c’è. Ci sono scambi epistolari, conversazioni, frammenti di un libro nel libro
(anch’esso in forma epistolare) e i tentativi di decifrarlo da parte di un
oscuro inquisitore. Ma soprattutto c’è la verbosa prolusione, culminante nel
letto di morte di Kafka, la chiave per capire cos’è il libro e perché si
intitola Respirazione artificiale. Un
libro che si maschera da romanzo per essere altro.
Il che non costituirebbe certo una
novità, non fosse per il modo in cui Piglia scrive. Un modo che è una trascrizione
continua, un continuo passare dal discorso diretto all’indiretto, dallo
scrivere al riscrivere; un modo che è un motivo di fondo, un basso continuo che
strega, irretisce, che costringe alla rilettura. Perché questo è un libro sulla
vera natura dello scrivere. E il vero scrivere e per l’appunto sempre un
riscrivere, la cui vera natura, a sua volta, consiste nel leggere e poi nel
rileggere. E qual è in fondo l’intima natura del rileggere, dell’interpretare,
se non quella d’essere una sorta di cattiva traduzione? E già so che questo
farò. Non farò come Piglia. Diversamente da lui, rileggerò il suo libro, la sua
ipnotica cattiva traduzione. Lo rileggerò per seguitare a rileggerlo, sicuro di
non staccarmene mai più.
“alias talpa – il manifesto”, 17
giugno 2012
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