23.1.14

Tito Livio, "spalla" di Augusto (Lidia Storoni)

Padova, La statua di Tito Livio nel Prato della Valle
Quando Tito Livio si trasferì a Roma da Padova, dov'era nato nel 57 a.C., durava ancora la guerra tra Antonio e Ottaviano. Incominciò a scrivere, sembra, dopo la vittoria di quest'ultimo. Se sia stato il Principe a suggerirgli di celebrare quel passato glorioso di cui si atteggiava a erede, o piuttosto lo storico a ispirare nel Principe la calcolata venerazione per la tradizione repubblicana, non si sa. Certo, dalle Deche non traspare tanto un manifesto politico, quanto l'intento di preservare i valori sui quali si fondava il patriottismo romano e ai quali lo stoicismo, religione laica dell'intellighenzia romana, aveva impresso validità di dottrina.
Più che fonte di notizie sul passato, Livio vale come testimone del suo tempo. Fa il punto sulla rotta seguita dal suo paese fino a quel momento: in conseguenza di quali premesse, si chiede, in vista di quale futuro? Consulta le fonti — Annali dei pontefici, archivi gentilizi, fasti consolari — ma senza eccessivo scrupolo; ha accesso agli Atti del Senato, lo si deduce dall'analogia lessicale tra la sua versione del Senato-consulto che nel 186 a.C. vietò il culto dionisiaco e il testo, che ci è pervenuto inciso nel bronzo. Ma non sono i fatti che lo interessano: sono gli uomini, i costumi.
Individuare, attraverso la struttura compositiva e la cronologia dell'opera, il suo rapporto con gli avvenimenti contemporanei e la dipendenza dell'autore dalle direttive di Augusto, è 1'oggetto del saggio di Sir Ronald Syme che precede i due primi volumi delle Deche pubblicati dalla Bur nella traduzione di Mario Scandola, mentre Claudio Moreschini, nell'eccellente introduzione, traccia un ampio profilo biografico e critico dello storico latino.
Livio fu estraneo al circolo di Mecenate. Consentì al principato che, dopo decenni di conflitti cruenti, si presentava come garante di ordine e stabilità; ne accettò il concetto dinamico d'una società aperta a nuove classi e a nuovi popoli («fino a che non si ebbe a disdegno alcuna stirpe ove rifulgesse il valore», fa dire al tribuno della plebe Canuleio, «si accrebbe l'impero di Roma»: parole che riecheggerà un suo allievo, l'imperatore Claudio, nel discorso che si conserva a Lione). Espone, però, anche idee rigidamente repubblicane, che non potevano piacere al Principe, come, per esempio, l'avvicendamento delle cariche: intollerante degli indugi di Camillo che non voleva lasciare il comando ad onta dell'età, Lucio Furio dice: «una città destinata a durare eterna non può dipendere dal corpo mortale d'un uomo, invecchiare con lui». E quando Livio chiama «vindice, fondatore, custode della libertà» il Bruto che scacciò re Tarquinio, certo evocava nella mente dei lettori l'altro Bruto, che pochi anni prima aveva partecipato all'assassinio di Cesare; e forse quelle espressioni le aveva trovate negli scritti degli oppositori repubblicani: biografie di Bruto, il tirannicida, suicida a Filippi, che circolavano clandestine.

Vincitori e vinti
Livio non inneggia, come i poeti, all'uomo della provvidenza. Se aderisce all'indirizzo di Augusto, è perché, negli anni in cui scriveva, era stato il Principe ad accostarsi ai conservatori; nel suo testamento Augusto infatti si vantò d'aver restaurato 82 templi e ripristinato usi e cerimonie antiche per trasmetterle ai posteri; nel suo Foro volle eternare in altrettante statue le immagini degli eroi celebrati da Livio — che Virgilio fa sfilare nei Campi Elisi — e lasciò scritto che, come si usava nei funerali patrizi, le loro venerate sembianze, in materiale precario, seguissero il suo feretro, quasi fossero non solo suoi predecessori, ma antenati.
Come spesso accade, la rivoluzione faceva suoi i principi dei nemici. La causa vittoriosa (che era quella della borghesia imprenditoriale, dell'esercito, delle province), scrive Lucano, piacque agli dei; la causa dei vinti a Catone. Ma la victa causa che apparteneva ai nobili latifondisti, detentori delle cariche in regime di monopolio, in realtà non piacque solo ai repubblicani paradigmatici come Catone e Bruto: dietro la loro bandiera nascondevano, è vero, reazione e privilegio, ma anche un patrimonio di ideali e di norme morali trasmesse da generazioni. Quel complesso di princìpi aveva tale prestigio che la classe subentrata al governo non poteva prescinderne. E, in fondo, ne deriva ancora oggi l'etica dell'Occidente.
Con questa chanson de gestes sonante di battaglie e di sentenze lapidarie, Livio eresse un monumento alle virtù che erano tipiche dei patrizi; l'imprudenza — temeritas —, la smania di emergere, la temeraria noncuranza dei presagi appartengono ai consoli plebei e furono causa di sconfitte alla Trebbia, al Trasimeno, a Canne; ma Fabio Massimo il Temporeggiatore era nobile. Livio rappresenta l'avaro tenore di vita del Lazio arcaico come un ascetismo elettivo; temperanza, austerità, coraggio, abnegazione rifulgono via via in Romolo e in Camillo, in Fabrizio e in Cincinnato, in Coriolano e in Scipione, eroi severi, incapaci di ironia, di esitazioni, di indulgenza. Si direbbe uno stesso attore, che cambia d'abito via via che recita un'altra parte, sapendo però esattamente quali gesti compiere, quali massime sentenziose pronunciare, sempre ispirandosi all'esempio dei suoi maggiori e al rispetto delle leggi; poiché senza legge, scrive Livio, «non c'è libertà».

Indignazione accorata
Il problema di Livio non è verificare le notizie, indagare sulle cause degli avvenimenti e neppure sostenere un regime. Il suo interesse è rivolto all'impero; ne ripercorre il processo formativo e si chiede quale sia la sua funzione nella storia: Roma avrà la capacità di assolvere a quella funzione, potrà durare? Vuol aiutare i romani a resistere alla versione denigratoria di quegli autori greci — «levissimi», li chiama, superficiali, non informati — i quali celebravano Alessandro e non sapevano che i condottieri romani lo avrebbero sconfitto se avesse volto le armi ad Occidente.
Con il frequente ricorso al favore degli dèi e al disegno provvidenziale nella storia («si deve, io credo, al fato l'origine d'una città così grande»), Livio intende sventare le profezie apocalittiche provenienti dall'Egitto, dalla Persia, dalla Giudea, che presagivano la fine di Roma. I destinatari della sua opera sono i denigratori, gli sfiduciati, i dubbiosi, coloro che attribuivano le conquiste alla fortuna più che alla virtus e dubitavano della durata di Roma: e in effetti, Livio lo riconosce, «le sue forze si vanno logorando». Rievocare gli inizi leggendari, le fasi di quella vicenda, individuarne i fattori significava giustificarne i mezzi, additarne i fini.
La venerazione per gli antichi, la nostalgia della povertà d'un tempo sono luoghi comuni. Molti sono gli autori che avrebbero potuto mettere come epigrafe alla loro opera il verso di Ennio: «lo Stato romano poggia sui costumi, sugli uomini d'un tempo» (moribus antiquis stat res Romana Virisque); ma il tempo di Livio era edonista, permissivo, e anche intriso di misticismo, indifferente al servizio del paese: vizi che Tiberio, di lì a poco, si dichiarerà impotente a reprimere.
Ostaggio greco e ospite degli Scipioni, cent' anni prima Polibio aveva scritto che Roma aveva diritto a dominare il mondo per l'eccellenza della sua costituzione e le virtù insigni della classe dirigente patrizia. Ma ne conseguiva che, per durare, essa non doveva modificare le sue istituzioni né discostarsi da quei costumi severi; ora, scrive Livio, essi sono precipitati così in basso che «non sappiamo più sopportare né i vizi nostri né i rimedi». E per vizi non intende il lusso e il piacere, ma l'avidità, la violenza, la discordia; con la stessa indignazione accorata di Dante quando chiama l'Italia «non donna di province ma bordello».
Per tedio del presente e incertezza del futuro Livio si rifugiò tra figure immaginarie, più alte della statura umana, pur sapendo che il loro patrimonio ideale non era recuperabile. In quel tempo antico al quale il suo spirito aderiva e che rappresentò drammaticamente da tragico più che da storico, cercò una risposta a quesiti più vasti di quelli che poneva la politica del suo tempo: Roma attuava veramente arcani disegni della provvidenza, realizzava l'ecumene vagheggiata dai filosofi? il suo dominio era benefico o dannoso all’umanità? per conservarne l’integrità territoriale e l’unità politica era proprio necessario sottostare a una monarchia ereditaria come quella che Augusto, dichiarandosi repubblicano, andava istaurando? Nelle mani del primo Bruto i romani avevano giurato che non avrebbero sopportato mai un re “né alcuno che avesse rappresentato una minaccia per la libertà”.


“la Repubblica” (il ritaglio è senza data, ma dovrebbe essere del 1979)

Nessun commento:

statistiche