Da un aureo libretto della serie “I
grandi discorsi” della manifestolibri, riprendo l’introduzione della
traduttrice e curatrice e l’incipit del discorso che il grande predicatore
gesuita Jacques-Benigne Bossuet pronunziò nella cattedrale di Netre-Dame a
Parigi a qualche mese dalla morte del principe di Condé. Si tratta
probabilmente della fonte più importante del Cinque Maggio manzoniano. (S.L.L.)
di Maria Teresa Ricci
Il 10 marzo del 1687, dietro
ordine di Luigi XIV, il famoso predicatore gesuita Jacques-Bénigne Bossuet
pronuncia l’orazione funebre per Louis de Bourbon, detto il Grand Condé, primo
principe del sangue, fortunato generale e al contempo orgoglioso ribelle.
Come l’orazione funebre per
Enrichetta d’Inghilterra, e forse come ogni orazione di Bossuet, anche la
presente si potrebbe riassumere nelle parole dell’Ecclesiaste: «Vanità delle
vanità, tutto è vanità». La morte è annientamento: l’uomo non è che un’ombra destinata
a sparire, la vita non è che un sogno e la gloria è soltanto apparenza. E
tuttavia, è proprio la morte che permette all’uomo di scoprire ciò che è, e
soprattutto essa appare come la sola garante sicura dell’immortalità.
«State attenti, e imparate a
morire, o piuttosto imparate a non attendere l’ultima ora per cominciare a
viver bene», dirà Bossuet riproponendo il tema della «buona morte», così caro
al XVII secolo, al pensiero gesuitico barocco in cui è proprio la visione della
morte il mezzo per accedere al gran teatro della vita. La morte non è la fine
della storia ma la sua origine, il suo fondamento. Tra le artes bene vivendi e le artes
bene moriendi vi è reciprocità: saper vivere significa sempre saper morire.
«Non essendo la morte se non il termine della vita, certamente chi vivrà bene
fino alla fine morirà bene; né potrà morir male chi non è mai vissuto male;
allo stesso modo che chi è vissuto male, muore anche male, né può non morir
male chi non è mai vissuto bene» (così il cardinale Bellarmino in un suo
opuscolo sul ben morire).
Contrariamente alla nostra epoca,
in cui la vita non ha altro scopo che la sua durata e l’allontanamento e la
rimozione della morte, ai tempi di un Bossuet non è la lunghezza della vita, la
quantità del tempo ciò che conta, ma l’uso che se ne fa. «Non abbiamo di nostro
che il tempo, nel quale vive chi non ha neppure spazio per vivere», dice
Baltasar Gracián; e Bossuet, nell’elogio funebre di Jolanda di Monterby,
affermerà che «è perduto tutto quel tempo cui non abbiamo attaccato qualcosa di
meno mutabile di lui, qualcosa che possa passare alla beata eternità».
Della morte bisogna perciò
imparare a servirsi, sostiene il predicatore gesuita, se si vuole ottenere
l’immortalità e dire così: Ubi est, mors,
victoria tua?, dov’è, o morte, la tua vittoria? E servirsene vuol dire
abbandonare la vanità delle cose terrene e dedicarsi alla pratica di una vita
cristiana, ovvero a Dio: solo così, per Bossuet, si può sottrarre alla morte il
proprio tempo e guadagnare la salvezza eterna, la beata eternità.
Tuttavia, dei grandi personaggi
per cui Bossuet pronunciò elogi funebri, non tutti furono dei buoni cristiani.
Enrichetta d’Inghilterra, Anna di Gonzaga o lo stesso principe di Condé, sono
divenuti leggendari, hanno guadagnato quell’immortalità che dà la storia,
attraverso la costruzione di vite appassionate, avventurose, e spesso
scandalose, soprattutto agli occhi di un austero predicatore antilibertino.
Il Grand Condé, cui era ispirato Le Grand Cyrus di Madeleine de Scudery,
uno degli interminabili romanzi del preziosismo francese, incarnazione dunque
dell’ideale prezioso, è così ritratto dal Cardinal de Retz: «Il principe di
Condé è nato capitano, cosa che è accaduta soltanto a lui, a Cesare e a
Spinola. Ha uguagliato il primo; ha superato il secondo. L’intrepidezza è uno
dei tratti minori del suo carattere. La natura gli aveva dato un’intelligenza
grande quanto il coraggio. La fortuna, facendolo nascere in un secolo di
guerre, ha permesso al suo coraggio di manifestarsi in tutta la sua pienezza;
la nascita, o piuttosto l’educazione, in una casa legata e sottomessa al
governo, ha imposto limiti troppo stretti alla sua intelligenza. Non gli sono
state inculcate a tempo opportuno le grandi e generali massime, che fanno e che
formano ciò che si chiama spirito di coerenza. Non ha avuto il tempo di
impararle da sé, perché sin dalla giovinezza è stato coinvolto nella grande
politica, e si è abituato alla fortuna. Per questa manchevolezza egli, con
l’anima meno cattiva del mondo, ha commesso ingiustizie; con il coraggio di
Alessandro, non è stato meno di lui immune dalla debolezza; con una mente
meravigliosa, è caduto in imprudenze; e, pur avendo tutte le qualità di
Francesco di Guisa, in certe occasioni non ha servito lo Stato così bene come
avrebbe dovuto e, avendo anche le doti di Enrico dello stesso nome, non ha
portato il suo partito così lontano come avrebbe potuto. La sua azione non ha
potuto corrispondere pienamente ai suoi meriti; è un difetto; ma è raro, ma è
bello».
Nato a Parigi nel 1621 da Henri
II de Bourbon e da Charlotte-Marguerite di Montmorency, il principe di Condé
non fu soltanto quel famoso capitano la cui «ombra avrebbe potuto ancora
vincere delle battaglie». All’epoca del preziosismo, il Grand Condé,
conoscitore della lingua latina, appassionato di ogni sorta di letture, aveva
fatto sì che il suo hôtel non valesse meno del famoso hôtel di Rambouillet,
regno della galanteria, della conversazione e delle arti.
E tuttavia, ciò che più si
ricorda di lui non è certo la sua cultura o il suo prezioso charme di
intellettuale mondano ma il suo coraggio di guerriero. A soli ventidue anni
inaugura la serie delle sue grandi vittorie con la battaglia di Rocroi, in cui
sconfigge gli spagnoli rivelando tutte le sue qualità di condottiero. Durante
la Fronda lo vediamo dapprima schierarsi contro il movimento parlamentare,
accrescendo così il suo prestigio agli occhi dell’autorità, e poi contro
l’odiato Mazzarino. Il disprezzo verso costui e la sua ambizione lo misero
contro la corte e venne perciò arrestato con l’accusa di cospirazione.
Rimesso in libertà nel 1651, dopo
un anno di prigionia, orgoglioso e assetato di vendetta, si mise alla testa
della Fronda dei principi. Marciò su Parigi, ma fu respinto da Turenne.
Dichiarato decaduto dai suoi beni e titoli, fu condannato in contumacia. Lasciò
dunque Parigi mettendosi al servizio degli spagnoli, contro cui la Francia era
ancora in guerra. Con la pace dei Pirenei (1658) venne tuttavia reintegrato nel
suo rango, e così, sotto Luigi XIV, partecipò all’occupazione della Franca
Contea (1668) e alla guerra contro Guglielmo d’Orange (1674). Gli ultimi anni
della sua vita li trascorse nel suo castello di Chantilly, circondato da
artisti e letterati. Morì a Fontainebleu nel 1686.
Il discorso qui presentato non è
soltanto, come spesso accade per le orazioni di Bossuet, un mezzo per
convertire gli ascoltatori, un’occasione per mostrare, attraverso il destino
del personaggio, verità di dottrina e di morale. In realtà, povera di
insegnamenti religiosi, l’orazione è piuttosto una glorificazione del defunto e
al contempo una pagina di storia, in cui però alla verità si sovrappone spesso
l’idealizzazione. In una prosa maestosa ed epica, Bossuet narra le campagne e
le vittorie del principe, le cui qualità militari appaiono già tutte nel
racconto dettagliato della battaglia di Rocroi, che costituisce il passaggio
più famoso dell’orazione. Ma sul suo coinvolgimento nella
Fronda, guerra pervasa di intrighi, passioni e galanterie, che sconvolse il
regno, e in particolare Parigi, dal 1648 al 1653, non dirà quasi nulla
limitandosi a condannare il principe attraverso il suo stesso pentimento, il
suo «umile ravvedimento», e mostrando perciò forzatamente che il Grand Condé non fu
mai veramente infedele al re.
Pur fustigando la vacuità dei desideri
umani e la falsa gloria dei conquistatori, pur proclamando con veemenza che la
morte smaschera comunque l’ambizione e mostra la vanità delle grandezze umane,
Bossuet non può qui astenersi dall’esaltare le virtù guerriere del principe sorvolando
sul suo orgoglio e sulla sua violenza. Ritraendolo nelle sue gesta eroiche e
nel suo «temperamento
così vivace», egli
tenta però di mostrare non solo i pregi del capitano ma anche quelli dell’uomo,
attribuendogli, contrariamente a quanto fanno molti dei suoi contemporanei,
virtù, modestia, bontà, devozione, e paragonandolo a quell’astro «fatto per abbellire e per rischiarare questo grande teatro
del mondo». Lo
redimerà quindi anche da ciò che per lui costituiva la più grave colpa, ovvero
l’irreligione, esaltando, nel racconto degli ultimi momenti della sua vita, il
suo abbandono nelle braccia di Dio.
A Condé, Bossuet aveva già dedicato,
nel 1648, la sua dissertazione, detta «tentativo»,
per la chiusura dei corsi preparatori al baccellierato di teologia. Alla
discussione fu presente lo stesso principe con tutto il suo corteggio. Diversi anni
più tardi, nella Chiesa di Notre-Dame di Parigi, Bossuet e il Grand Condé
saranno ancora una volta i protagonisti di una solenne cerimonia. L’«aquila di Meaux», così veniva chiamato Bossuet, pronuncerà questa sua ultima
orazione con cui dirà addio alla grande eloquenza per riserbare al suo gregge «i resti di una voce che si affievolisce, e di un ardore che
si spegne».
Luigi di Borbone, il celebrato gran Condé, in un ritratto |
di Jacques-Benigne Bossuet
“Nel momento in cui prendo la parola
per celebrare la gloria immortale di Luigi di Borbone, principe di Condé, mi
sento confuso tanto per la grandezza del soggetto, quanto, se mi si permette di
confessarlo, per l’inutilità dell’assunto. Qual parte del mondo abitabile non
ha udito delle vittorie del principe di Condé e delle meraviglie della sua
vita? Si raccontano dappertutto: il francese che le vanta non insegna nulla
allo straniero; e qualunque cosa io oggi ve ne possa riferire, sempre prevenuto
dai vostri pensieri, dovrò ancora rispondere al tacito rimprovero che mi farete
d’esser rimasto molto al di sotto.
Noi, labili oratori, non possiamo nulla
per la gloria delle anime straordinarie: il Saggio ha ragione di dire che
«soltanto le loro azioni le possono lodare»; ogni altra lode languisce di
fronte ai grandi nomi, e solo la semplicità di un racconto fedele potrebbe
sostenere la gloria del principe di Condé. Ma, nell’attesa che la storia, che
deve questo racconto ai secoli futuri, lo metta in luce, dobbiamo soddisfare,
come potremo, la pubblica riconoscenza e gli ordini del più grande di tutti i
re. Che cosa non deve il reame a un principe che ha onorato la casa di Francia,
la nazione francese, il suo secolo, e, per così dire, l’umanità intera? Lo stesso
Luigi il Grande ha fatto suoi questi pensieri. Dopo aver pianto questo
grand’uomo, e avergli fatto con le sue lacrime, in mezzo a tutta la corte, il
più glorioso elogio che potesse ricevere, egli aduna, in un tempio così
celebre, quanto il suo reame ha di più augusto per
rendervi pubblici onori alla memoria di questo principe, e vuole che la mia
debole voce animi tutti questi tristi catafalchi e tutto questo funebre
apparato. Facciamo dunque questo sforzo sul nostro dolore. Ora un più grande
soggetto, e più degno di questo pulpito, si presenta al mio pensiero. È Dio che
fa i guerrieri e i conquistatori. «Siete voi, gli diceva Davide, che avete
insegnato alle mie mani a combattere e alle mie dita a tenere la spada». Se
egli ispira il coraggio, non meno elargisce le altre grandi qualità naturali e
sovrannaturali, e del cuore e della mente. Tutto deriva dalla sua mano potente:
è lui che invia dal cielo i nobili sentimenti, i saggi consigli, e tutti i
buoni pensieri; ma vuole che noi sappiamo distinguere fra i doni che abbandona
ai suoi nemici e quelli che riserva ai suoi servi. Ciò che distingue i suoi
amici da tutti gli altri è la devozione: finché non si sia ricevuto questo dono
dal cielo, tutti gli altri non soltanto sono niente, ma anzi si mutano in
rovina per coloro che ne sono dotati. Senza questo dono inestimabile della
devozione, cosa sarebbe il principe di Condé con tutto quel grand’animo e quel
gran genio? No, fratelli miei, se la devozione non avesse come santificato le
altre sue virtù, né questi principi troverebbero alcun conforto al loro dolore,
né questo religioso pontefice alcuna fiducia nelle sue
preghiere, né io stesso alcun sostegno alle lodi che devo a un sì grand’uomo.
Spingiamo dunque alla rovina la gloria umana con questo esempio; distruggiamo
l’idolo degli ambiziosi; che esso cada annientato davanti a questi altari.
Mettiamo insieme ora, giacché lo possiamo in un sì nobile soggetto, tutte le
più belle qualità di un’eccellente natura; e, a gloria della verità,
dimostriamo, in un principe ammirato da tutto l’universo, che ciò che fa gli
eroi, ciò che porta al culmine la gloria del mondo, valore, magnanimità, bontà
naturale quanto al cuore, vivacità, penetrazione, grandezza e sublimità di
genio quanto alla mente, non sarebbero che un’illusione, senza l’aggiunta della
devozione, e, infine, che la devozione è tutto per l’uomo. Ecco, signori, ciò
che vedrete nella vita eternamente memorabile dell’altissimo e potentissimo
principe Luigi di Borbone, principe di Condé, primo principe del sangue.
Dio ci ha rivelato che lui solo fa i conquistatori, e che lui solo
li adopera per i suoi disegni. Chi altri fece un Ciro se non Dio, che l’aveva
menzionato duecento anni prima della sua nascita negli oracoli d’Isaia? Tu non
sei ancora, gli diceva, ma io «ti vedo, e ti ho nominato con il tuo nome: tu ti
chiamerai Ciro. Io camminerò davanti a te nelle battaglie; al tuo avvicinarti
metterò i re in fuga; abbatterò le porte di bronzo. Sono io che distendo i
cieli, che sostengo la terra, che nomino ciò che non è come ciò che
è, vale a dire sono io che faccio tutto, e io che vedo, dall’eternità, tutto
ciò che faccio….”
da I
grandi discorsi, manifestolibri, 1996
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