Il 10 dicembre 1513 Niccolò
Machiavelli in una lettera giustamente famosa a Francesco Vettori annunciava la
composizione del Principe. Per i
cinquecento anni Donzelli ha realizzato una nuova edizione corredata da una
riscrittura in italiano moderno di Carmine Donzelli, l’editore, da una
introduzione e da un commento di Gabriele Pedullà. L’intenzione dichiarata è di
offrire un Principe nuovo perché
antico, perché liberato da tutte le incrostazioni ideologiche del Moderno e
restituito al suo tempo nell’asse della continuità, riconnesso cioè alla
discussione umanistica e caso mai riletto in una prospettiva “antropologica”,
di “mentalità”, un po’ alla maniera degli storici novecentisti delle Annales francesi. Il rischio è di
offrire un Machiavelli “revisionato”, edulcorato e castrato, appropriato a un “secol
superbo e sciocco” che si vanta del tornare indietro e lo chiama progredire. Leggeremo
questo nuovo commento senza pregiudizi, ma l’anteprima dell’introduzione pubblicata
da “Il Sole – 24 Ore”, che qui riprendo, non promette niente di buono. (S.L.L.)
Da cinquecento anni il Principe funziona come una sorta di
specchio nel quale non smette di riflettersi la coscienza occidentale,
proiettando sulle parole di Machiavelli ansie, ossessioni, speranze, paure.
Politica e morale, mezzi e fini, il partito come moderno principe, la libertà
positiva e la libertà negativa, l'emergere dello Stato, il governo degli uomini
e delle anime, la politica come tecnica, i fantasmi del totalitarismo, lo stato
d'eccezione...
Niente di strano, dal momento che
ancora oggi Machiavelli entra obbligatoriamente in qualsiasi discorso
filosofico sulla vita associata. Eppure, un simile successo planetario ha
avuto, e ha, il suo prezzo. Chiosato, interpretato, adattato e spesso
violentemente frainteso, il Principe
ha troppo spesso finito per smarrire la propria fisionomia e assumere quella
dei suoi ammiratori o detrattori.
Questo processo di appropriazione
si è ulteriormente intensificato negli ultimi due secoli, da quando cioè, negli
anni a cavallo tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, la
Rivoluzione francese in politica e il Romanticismo in letteratura hanno segnato
una duplice cesura rispetto al mondo nel quale il Principe o i Discorsi sopra
la prima deca di Tito Livio erano stati concepiti. Consapevolmente o
inconsapevolmente, da quel momento indicare Machiavelli come padre della
modernità ha voluto dire proiettare su di lui un giudizio, a seconda dei casi
positivo o negativo, sul processo che si era aperto con la grande cesura del
1789. Negli ultimi anni l'esigenza di liberare Machiavelli da questa pesante
ipoteca non riguarda più soltanto i guardiani del sapere storico. Impegnarsi
per riportare il Principe alle categorie del suo tempo non vuol dire insomma
per forza tessere l'apologia di un fantomatico Machiavelli-come-era-per-davvero
contro le esigenze, spesso spudoratamente attualizzanti, della teoria. Le
incrostazioni degli ultimi due secoli di letture non soltanto, infatti,
deformano l'immagine di Machiavelli ma ormai rischiano di renderlo anche e
soprattutto inutilizzabile: se non a costo di ripetere, fuori tempo massimo, le
letture otto-novecentesche che si sono servite delle sue opere e ancor più del
suo feticcio allo scopo di elaborare la propria apologia (Hegel, Croce,
Gramsci) o la propria condanna (Schmitt, Strauss, Arendt) del Moderno in quanto
tale.
Quel mondo non è più il nostro,
ed è anzitutto per questo che c'è bisogno di un nuovo Machiavelli. Per trovare
questo nuovo Machiavelli è necessario però liberare le sue parole dai materiali
che si sono depositati negli ultimi duecento anni, un poco come insegnano le
istruzioni di qualsiasi colla attaccatutto: detergere accuratamente con l'acqua
ragia le superfici da saldare assieme prima di applicare il prodotto. Ed è qui
che gli acidi della storiografia diventano ancora una volta essenziali. Nel
caso del Principe la strada più appropriata è parsa quella di un nuovo commento
interamente ripensato nei contenuti e nei metodi. A questo scopo l'edizione del
cinquecentennale propone una nuova ricognizione sistematica degli autori
classici utilizzati nel Principe (con
decine e decine di scoperte che mutano, spesso in maniera decisiva,
l'interpretazione), ma soprattutto sfrutta per la prima volta in maniera approfondita
quella letteratura quattrocentesca che è il punto di riferimento polemico
implicito di gran parte delle affermazioni più scandalose di Machiavelli. Se
dalla schedatura di oltre duecento opere umanistiche molti nuovi tasselli sono
emersi, mai, tuttavia, si è trattato di una mera caccia alla fonte. Diversi
sono infatti anzitutto gli obiettivi che questo commento si è proposto.
Nell'età di wikipedia e delle enciclopedie open
access è inutile stendere una lunga voce biografica per spiegare chi era Alessandro
Magno o Scipione l'Africano; ma può essere molto utile, e addirittura
indispensabile per comprendere i passi del Principe
che li riguardano, sapere come l'uno e l'altro venissero giudicati dai
contemporanei di Machiavelli. Assai più importante che aggiungere nuovi
scaffali alla biblioteca delle ipotetiche letture di Machiavelli è infatti
aiutare i lettori a familiarizzare con le grandi categorie concettuali del
Rinascimento (un poco come, in anni recenti, Amedeo Quondam ha fatto nelle sue
edizioni di Boccaccio e Castiglione). È una regola che forse oggi dovrebbe
valere per qualsiasi commento a un classico, ma che nel caso di un'opera come
il Principe, abitualmente
interpretata alla luce delle categorie della discontinuità radicale rispetto a
tutto ciò che l'ha preceduta e del precorrimento del nostro presente, si fa
sentire con tanta più forza.
È dunque soprattutto qui, sui
concetti generali e sulla semantica delle parole chiave del discorso politico e
morale del Rinascimento al cui interno va compresa la novità machiavelliana,
che il commento pone l'accento. Questa scelta ha voluto dire prendere le
distanze da una delle lezioni del massimo machiavellista italiano del secolo
scorso, Carlo Dionisotti, il quale riversava volentieri la propria tagliente
ironia contro quanti avevano addotto «a proposito di Machiavelli, testi a noi
oggi familiari dell'Alberti, Della
famiglia e Iciarchia» senza
«gettar l'occhio sull'apparato dell'edizione critica di quei testi e informarsi
come siano giunti a noi, e sapere che, come il De maiestate di Maio, la Iciarchia
è sopravvissuta in un unico testimone». Tale caveat ha avuto dapprima l'effetto
indubbiamente positivo di richiamare gli studiosi alla materialità della
diffusione delle idee (codici, edizioni, manoscritti), ma con il tempo ha
finito per scoraggiare nuove ricerche. E questo è stato un male. Se Iciarchia, De maiestate e altre decine e decine di
opere anche meno note e diffuse sono essenziali per intendere il Principe non è infatti perché
Machiavelli le abbia necessariamente lette, ma perché, nella loro ripetitività,
gli scritti degli umanisti ci permettono di entrare in un sistema di pensiero
che ha indubbiamente contato molto per il fiorentino.
Infine, parecchio spazio è stato
dato alle pratiche sociali, alle istituzioni e alle credenze indispensabili per
comprendere il discorso machiavelliano: la giurisprudenza e la medicina, la
teoria degli umori, il dibattito sull'astrologia giudiziale e sul libero
arbitrio, il sistema del mecenatismo, le convenzioni dei generi letterari, il
principio di imitazione, le tecniche belliche, l'origine del debito pubblico,
le ansie di rinnovamento religioso... Un approccio che, nel complesso, potrebbe
definirsi "antropologico": con un richiamo al ruolo speciale che l'antropologia
ha giocato nel rinnovamento degli studi storici del secondo Novecento,
contribuendo a liberarli dalla gabbia di una histoire evenementielle sino a quel momento fatta unicamente di
nascite, morti, battaglie e insurrezioni. Nella convinzione che anche il Principe
abbia tutto da guadagnare da una lettura che faccia piazza pulita di ogni
illusione ingenuamente continuista con il nostro tempo.
L'edizione del cinquecentannale
si presenta perciò, in definitiva, come un esercizio di restauro o, se si
vuole, di filologia politica: che punta a liberare il testo del Principe dalle incrostazioni
sedimentatesi nei secoli per offrire ai lettori, al tempo stesso, un classico
sottratto alle formule ideologiche degli ultimi duecento anni e un'opera
"fresca" (anche grazie alla rispettosissima "traduzione" a
fronte di Carmine Donzelli). Un'opera da leggere senza i pregiudizi e le
prevenzioni che accompagnano quasi inevitabilmente il nome di Machiavelli:
anzitutto affinché sul Principe si possano proiettare le passioni del XXI secolo
e non – come ancora oggi troppo spesso succede – quelle del XIX o del XX.
“Il Sole 24 ore – Domenica”, 8
dicembre 2013
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