Di un libro importante, Storie della Resistenza (Sellerio,
2013), ho qui copiato mesi fa qualche frammento (precisamente dal Dizionario del partigiano).
http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2013/10/dal-dizionario-del-partigiano-anonimo.html
Sul volume “posto” ora la
recensione pubblicata da Lanfranco Binni sul “Ponte”. (S.L.L.)
Il comandante Barbato, liberatore di Torino (Pompeo Colajanni) |
Storie della Resistenza, a cura di Domenico Gallo e Italo Poma
(Sellerio, 2013), ci riavvicina, quasi in presa diretta, all’esperienza
fondamentale della lotta per la democrazia in Italia nel Novecento. Attraverso
un montaggio di testi (testimonianze, racconti, ricordi) che segue il criterio
di restituire la complessità della guerriglia partigiana dopo e contro decenni
di rimozione e deformazione “storica” dei contenuti rivoluzionari del movimento
di liberazione (dall’occupazione tedesca, dal fascismo e dall’Italia
liberal-monarchica che lo aveva generato), riemergono le voci dei protagonisti
di quella stagione drammatica ed eroica della nostra storia, componendo un
quadro mobilissimo e a più dimensioni.
Tornando ai giorni della lotta
armata di liberazione, preparata da lunghi anni di cospirazione antifascista in
Italia e in Francia, dall’esperienza dei combattenti delle Brigate
Internazionali in Spagna, i curatori del volume raccolgono in forme di
antologia, in sezioni tematiche («Che cosa fu la Resistenza», «I maestri», «La
scelta», «Organizzazione politica e militare», «Le azioni», «Prigionieri,
esecuzioni e spie», «Donne protagoniste», «Ebrei nella Resistenza», «Poeti,
scrittori, intellettuali») le tante storie dei «ribelli» delle più diverse
estrazioni sociali nella loro individuale esperienza di scoperta della libertà,
dell’autonomia e della dignità dopo un ventennio di esasperata e violenta educazione
al servilismo e alla complicità con il regime.
Ecco allora la centralità di
un’altra educazione nelle formazioni partigiane, ispirata agli insegnamenti di
tanti maestri di antifascismo, da Gobetti a Gramsci, dai Rosselli a Capitini:
battere con ogni mezzo i tedeschi e i fascisti è la condizione necessaria per
ricostruire dalle fondamenta e in altra direzione (liberalsocialista,
socialista, comunista) un paese devastato e profondamente corrotto. Ecco allora
la necessità della violenza, di un contropotere organizzato e sostenuto da reti
di solidarietà nella popolazione civile, capace di gestire territori liberati,
di amministrare la giustizia partigiana. Ecco la scoperta di nuove relazioni
tra intellettuali, operai e contadini, tra uomini e donne: le bande partigiane
diventano gli straordinari laboratori, in condizioni di difficoltà estrema, di
una nuova Italia da costruire con determinazione e speranza. Sarà una stagione
breve, e l’altra Italia, quella della continuità dello Stato e della servitù
volontaria nei confronti del potere, nel 1948 ristabilirà il suo ordine. A
essere «epurati» non saranno i fascisti ma i partigiani; molti di loro,
soprattutto di estrazione popolare, scompariranno nel nulla o saranno
perseguitati dalla giustizia borghese, accusati di crimini e nefandezze. E su
tutti si abbatterà la riscrittura della Storia a opera dei normalizzatori
liberalproprietari e dei tatticisti di ogni partito. La vita quotidiana farà il
resto.
Prima che la Resistenza
diventasse un genere letterario, “letteratura della Resistenza”, con Fenoglio e
Calvino, altri avevano scritto per urgenza di verità, protagonisti e testimoni
del proprio presente. I loro testi furono pubblicati nelle riviste del
1944-1945: a Napoli «Aretusa» di Francesco Flora, a Roma «Mercurio» di Alba de
Céspedes, «Il Ponte» di Calamandrei a Firenze, «Il Politecnico» di Vittorini a
Milano. Altri testi furono pubblicati nei giornali clandestini dell’Italia
ancora occupata.
È a questo giacimento originario
e in gran parte dimenticato che attingono i curatori di Storie della Resistenza, ritrovando, per fare un esempio
significativo, un racconto del gappista Franco Calamandrei pubblicato su
«Mercurio» nel novembre-dicembre 1944, Il
compagno Francesco: operaio, combattente in Spagna, confinato a Ventotene,
gappista a Roma, «Francesco era il più onesto di noi, il compagno migliore.
In Roma liberata c’è stato per lui un posto di cuoco in una cucina militare
francese. Lì ha sudato l’estate, e la notte faceva il guardiano nella sede di
una nostra sezione. Ora ha avuto il biglietto per la Sardegna, e mi ha
salutato. Portava lo stesso vestito che il Soccorso Rosso gli dette quando
arrivò dal confino. In più aveva soltanto un pacco di giornali e di opuscoli da
distribuire nel paese».
Oppure ritrovando scrittori di
altissima qualità come Antonio Meluschi, bolognese, autodidatta, in carcere con
Gramsci e comandante partigiano nelle Valli di Comacchio, autore di uno
straordinario romanzo, La morte non costa
niente, pubblicato nel 1946 e mai più ristampato, da cui è tratto il
racconto La vita non aveva più alcun
valore: «La paura annullò individui che sembravano respirare col lievito
stesso della violenza, e che scomparvero nella passiva tristezza di tutto un
popolo: rari gli eroismi, compiuti sempre dagli stessi, e questa è la verità
storica di quella stagione in cui si pensava alla massa, alla collettività come
forza rivoluzionaria. […] Mancava il denaro per sostenere i primi gruppi
partigiani, che erano scalzi, stracciati, per acquistare armi, medicinali, viveri:
fucili, pistole, mitragliatrici rubate ai tedeschi, ai fascisti, si dovevano
comperare al mercato nero; la speculazione, l’interesse, come in ogni guerra,
circondarono la lotta per la liberazione, e gli uomini mostrarono ancora una
volta l’inciviltà, l’egoismo: vendevano a prezzi alti, esosi, a chi si batteva
per difendere la loro libertà, col solo tornaconto dei sacrifici, delle
privazioni, della morte […]»; e, a proposito di un atteggiamento diffuso nei
confronti dei partigiani nel corso del 1944: «Nacque una depressa forma di
pedagogismo politico, militare, che, confinando con la viltà, consigliava
l’inazione, aspettare la maturazione storica dei fatti, e si riprovavano i
colpi dei gappisti, ritenuti dei pazzi, degli esaltati, dei criminali, i combattimenti
dei partigiani, considerati banditi, gente staccata dalla società come un dente
guasto».
Ma proprio per questo, per
innescare un processo storico diverso, è evidente in quasi tutti i testi, di
autori dimenticati o rimossi (come Maurizio Milan, Giovan Battista Lazagna, Lia
Sellerio) e di autori noti (da Carlo Levi a Giorgio Caproni, da Nuto Revelli a
Romano Bilenchi, da Marcello Venturi a Maria Luigia Guaita), la consapevolezza
di una grande opportunità di profondo cambiamento della società italiana,
dell’apertura di una fase nuova, e necessaria, in cui ha senso rischiare la
vita per ritrovarla. E ogni storia individuale ha il suo punto di vista, la sua
connotazione culturale, ma insieme il sapore di un processo collettivo.
Testimonianza della grande
varietà delle voci che parlano in questo volume è il ricordo che il
liberalsocialista nonviolento Aldo Capitini, sperimentatore e teorico della
democrazia diretta nella prospettiva della «omnicrazia», dedica al comandante
partigiano Antonio Giuriolo, vicentino, liberalsocialista e nonviolento, ucciso
nel 1944 sulla montagna pistoiese mentre stava soccorrendo un compagno ferito,
senza aver mai sparato un colpo con il suo fucile: «Questo raro atteggiamento
era segno che, di contro alla violenza del fascismo, c’era, sì, chi
contrapponeva una violenza che doveva servire semplicemente a liberare, e non
ad opprimere, ma ci fu anche chi intravvide un ulteriore contesto, quello di
una società che rifiuta di distruggere gli avversari, e si costruisce mediante
il consenso e il dissenso, utilizzando anche le molteplici forme della non
cooperazione e della disobbedienza civile, senza violenza. Ma l’idea che fosse
possibile liberarsi dal fascismo in questa forma, persistente ed eroica,
dicendogli “no”, stabilendo le più larghe solidarietà popolari, era
assolutamente immatura, e soltanto ora, per la conoscenza ed esperienza delle
grandi campagne nonviolente, si fa strada nel mondo». Questo scriveva Capitini
nel 1966, in Antifascismo tra i giovani.
Vitale complessità dell’antifascismo e della Resistenza.
Tra i testi raccolti non si può
non citare, come documento di grande valore politico e letterario, il Dizionario del partigiano trovato nel
marzo del 1945 sul cadavere di un partigiano rimasto sconosciuto,
sull’Appennino ligure-emiliano, e pubblicato da Angelo Del Boca nel 1963: una
cinquantina di voci scritte a matita su piccoli fogli d’agenda. Da Alba («Quando spunta, può essere troppo
tardi») a Volante («Non si sa chi
abbia dato questo nome a un piccolo gruppo di uomini che, agendo di sorpresa,
attacca gli automezzi sulle grandi vie di comunicazione, fa saltare depositi e
binari e, se occorre per uno scambio di prigionieri, preleva anche un generale
tedesco dal suo stesso ufficio. Non è improbabile che a coniare questo termine
sia stato uno che ha partecipato alla guerra di Spagna. È impressionante il
bagaglio di esperienze, di nomi, di immagini, di tradizioni che ci viene da
quella sfortunata guerra per la libertà»), le parole-chiave della vita del
partigiano, delle tattiche di guerriglia, delle diverse posizioni politiche dei
combattenti, ma anche dei pensieri non detti; dalla voce Morte: «Non se ne parla mai, ma è sempre con noi. Ciascuno si è
immaginato la propria, lavorandovi intorno fin dal giorno in cui ha scelto questa
parte della barricata. È indispensabile possedere una morte, così come è
indispensabile possedere un fucile, un paio di buone scarpe e qualche idea
chiara in testa […]». Non c’è spazio né tempo per la retorica, e i giudizi sono
sintesi di esperienza e di analisi della realtà: «Prete. Quello che sta con noi è l’umile e povero parroco di
campagna. Gli alti prelati, in città, benedicono i gagliardetti delle “Brigate
Nere”».
Ogni sezione tematica di Storie della Resistenza è preceduta da
sintetiche premesse di contestualizzazione dei testi, in cui i curatori si
confrontano con la storiografia della Resistenza invitando comunque a stabilire
un rapporto diretto con i testi antologizzati, e questo è un altro pregio di
metodo di questo volume: «Ma saranno i testi a parlare al lettore meglio di
qualsiasi analisi o spiegazione: calandoci in questi vecchi libri, nei giornali
raccolti nei fondi delle biblioteche, nelle pagine di riviste introvabili, ci
siamo accorti quanto ogni retorica che ha cercato di aggredire e annullare
questo momento della nostra storia, oppure che l’ha interpretata senza alcuna
sfumatura critica, venga inevitabilmente superata dall’onestà intellettuale di
chi, a differenza di altri, ha trovato il coraggio e una voce per raccontare».
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