Femministe a Caracas |
Con la morte di Chávez, il 5
marzo scorso, il reportage di Geraldina Colotti Talpe a Caracas, pubblicato ad agosto 2012 da Jaca Book e dedicato
proprio al Venezuela chavista, avrebbe dovuto perdere di attualità. La lettura
dei tredici capitoli che compongono il libro è, invece, la prova provata del
contrario, perché, innanzitutto, il protagonista dell’opera non è Chávez, che,
anzi, di persona, dopo le primissime pagine a lui consacrate, appare poco e di
sfuggita, sebbene il suo apporto alla storia recente del Venezuela sia
ricostruito minuziosamente e il suo spirito aleggi come quello di un nume
tutelare, ovunque.
Il vero protagonista di Talpe a Caracas è il popolo venezuelano,
o meglio gli attivisti coinvolti in quel proceso bolivariano, con cui, per
impulso dello stesso Chávez ma sull’onda lunga della guerriglia degli anni
Sessanta e Settanta e del Caracazo (la ribellione popolare del 1989 che mise in
crisi il sistema democratico puntofijista, al potere da trent’anni), si è
inteso riprendere e portare a termine quanto iniziato ai primi dell’Ottocento
dal libertador Símon Bolívar, contribuendo in maniera decisiva all’indipendenza
di Bolivia, Colombia, Ecuador, Panama, Perù e Venezuela. Il vero protagonista
di Talpe a Caracas, insomma, è il movimento dal basso che prima ha ispirato,
poi sostenuto e ora alimenta la svolta socialista del Venezuela.
Eroine ed eroi del Venezuela
bolivariano
Le prime eroine, che incontriamo
in questo reportage autenticamente epico sono le femministe del collettivo Ana
Soto, che nel 2011 hanno organizzato la Conferencia Mundial de Mujeres de Base
Revolucionaria, offrendo la prima occasione a Colotti per visitare il paese,
con un viaggio finanziato da «molte strutture, associazioni, centri sociali,
raccogliendo soldi per i biglietti e organizzando iniziative: dal circolo ARCI
di Imperia al Guernica, al 32 di Roma, alla Casa Internazionale delle Donne»
(p. 57). Poi ci sono i combattenti, come Bernardo Borges, guerrigliero negli
anni ’60-’70, quindi console del Venezuela a Napoli; i militanti del Partito
Socialista Unito del Venezuela (PSUV), come Josephina, che, reggendo con una
mano il passeggino e con l’altra la bandiera rossa del partito, dichiara che
Chávez «ha ridato dignità e coscienza» (p. 16) ai poveri e ai senza-potere,
ovvero all’80% dei popolo bolivariano. Appaiono, inoltre, molti attivisti
dell’Associazione nazionale delle reti e delle organizzazioni sociali (Anros),
che agiscono nella società per la formazione politica e culturale dei movimenti
di base venezuelani, nella convinzione che alla “competenza” della politica
professionale si contrapponga «l’esperienza empirica che deriva dal conflitto
sociale e che dà forza alle proprie opinioni», nota Colotti, con accenti
postnovecenteschi, i quali, «riflettono il diverso rapporto con le
rappresentanze politiche, la sfiducia nello schema e nelle sfere separate», in
direzione di quella «democrazia partecipativa e protagonica» che dovrebbe
superare i limiti di quella rappresentativa e su cui si basa la Costituzione
bolivariana» (pp. 136-137).
La Storia della rivoluzione
bolivariana e le storie dei senza-volto
Il libro, in effetti, è pieno
della grande Storia della rivoluzione bolivariana di Chávez, ma anche di piccole
storie dei «senza voce», o meglio dei «senza-volto», come el pescador, un «piccoletto», fondatore della cooperativa di
pescatori e pescivendoli “Maremar per…”, che, durante la visita di Chávez a
Roma del 2005, gli si era accostato mostrandogli il passamontagna dei
disobbedienti zapatisti (p. 13). Nel Venezuela bolivariano questo popolo ha
trovato, non solo una voce, ma anche uno spazio, come, per esempio, nella «Casa
Bicentenaria»: uno stanzone grigio, allietato dai murales e dai poster che
raffigurano grandi padri e grandi madri del socialismo; «una casa occupata, uno
spazio pubblico per tutta la comunità del Petare (barrio di Caracas, ndr)»,
spiega all’autrice Jasmi Jiménez, coordinatrice della Casa.
«A partire dal 1999 – ci ricorda
Colotti – il governo bolivariano ha promesso di risarcire il “debito sociale”
accumulato dallo stato nei confronti degli esclusi dalla ricchezza. In tredici
anni, non solo si è sconfitto l’analfabetismo, ma si sono aperte le porte
all’istruzione superiore gratuita e a quella universitaria. I programmi sociali
– le misiones – sono state le leve
per far crescere la “coscienza delle masse”, come avremmo detto una volta. Una
strategia di self-empowernment
rivolta agli ultimi della catena, oggi soggetti a pieno titolo di questa
società in cammino» (p. 137).
La questione di genere
Colotti sottolinea spesso che la
maggioranza delle persone che si sono impegnate e continuano a impegnarsi in
questa svolta socialista del Venezuela è costituita da donne, anzi, a dar retta
a Jiménez, il Venezuela bolivariano è «donna: una donna che lotta, che ama il
suo compagno e si occupa dei panni, ma si occupa anche del paese» (p. 17). Non
a caso, la questione di genere è uno degli assi portanti su cui ruota Talpe a
Caracas: emblematico, da questo punto di vista, è l’incontro con Viki
Ferrara-Bardile, vicepresidentessa della Comisión de Estilo de la Asamblea
Nacional Constituyente, che ricorda come il lavoro della sua commissione
consista nel declinare gli articoli della magna charta anche al femminile,
fatica non da poco e che ha richiesto fervida inventiva, «perché spesso –
sottolinea Viki – l’accezione di genere costituisce una diminuzione, come nel
caso di poetessa, avvocatessa… La parola uomo, sia quello delle caverne che
quello di oggi, quando viene usata come sinonimo di genere umano, ci rende invisibili.
Il linguaggio, come sappiamo, è uno strumento di potere. Non a caso, se è
corrente dire la segretaria, non lo è altrettanto dire segretaria esecutiva»
(p. 58).
Inizialmente Viki, come molti
altri venezuelani, non erano entusiasti di Chávez, perché era un militare,
poi, però, la realtà si è rivelata «per quella che è: le donne sono le
principali beneficiarie delle politiche messe in campo da questo governo. In
primo luogo nel lavoro» (p. 59).
Gli apostoli della rivoluzione e
il cristianesimo sociale
Molto resta da fare, tuttavia,
visto che in Venezuela la società è ancora fortemente maschilista e manca una
legge sull’aborto. La figura della donna, in questo stato profondamente
cattolico, è ricalcata su quella, remissiva, di Maria. Il cambiamento, anche in
questo caso, dovrà venire dal basso, per opera delle donne stesse che dovranno
liberarsi della doppia morale di cui sono schiave (si condanna l’aborto a
parola ma poi lo si pratica di nascosto) e dall’interno della religione
cristiana, con il recupero della carica rivoluzionaria di Cristo. Perché il
socialismo a cui si richiama il Venezuela è quello di Marx e Rosa Luxemburg,
che richiama il messaggio del Cristo «originario», appunto, il «primo martire
antimperialista» (p. 13). Un cristianesimo sociale che dice: «Non si viene alla
luce quando si nasce, ma quando quella luce la si diffonde agli altri»
(ibidem).
Così, capita a Colotti di
fermarsi davanti alla comune autogestita Panal 2021 di Caracas per ammirare un
«gigantesco murale che rappresenta a suo modo l’Ultima Cena: intorno a Gesù ci
sono gli “apostoli della rivoluzione”. Un pantheon che va da Marx a Marulanda
(il defunto dirigente guerrigliero delle Forze Armate Rivoluzionarie
Colombiane), passando per Bolívar, fino ad arrivare a Chávez» (p. 52). In
effetti, la vera inconciliabilità non è tra cristianesimo e rivoluzione, ma,
come emerge in un colloquio con suor Chiara nel monastero di clausura Nostra
Signora di Coromoto, tra «Chiesa dei poveri» e «Chiesa istituzionale», perché,
fa notare l’autrice alla suora, «il messaggio originario di Cristo, proprio nel
concreto del bisogno sociale, sceglie da che parte stare, raggiungendo quello
del comunismo», sebbene, secondo la religiosa, sia Comunismo che Chiesa «hanno
bisogno di essere purificati, mettendosi continuamente alla prova della realtà»
(pp. 95-96).
Pur di mantenere buoni rapporti
con la Chiesa cattolica locale, Chávez, come ricorda Colotti, ha immolato
«sull’altare del dialogo l’autodeterminazione femminile», escludendo dalla
Costituzione aborto ed eutanasia: ciononostante la Chiesa ha respinto il
progetto costituzionale, approvato nel 1999, attirandosi le ire del Presidente.
Eppure, ci sono vescovi, come monsignor Nelson Torrealba, consigliere
ecclesiastico per il Venezuela presso la Santa Sede nel 2007 e ora tornato
nell’arcidiocesi di Barquisimeto, che «rimangono a fianco dei poveri,
nonostante le minacce della Curia» (p. 97); e ci sono sacerdoti, come padre
Vidal Enrique Atencio dell’arcidiocesi di Maracaibo, che sostengono apertamente
il governo di Chávez, finendo per essere trasferiti in zone residenziali,
abitate dalla classe media, ostile a Chávez.
Infine, c’è un’altra Chiesa,
quella evangelica, che è molto meno titubante nel sostenere il proceso
bolivariano e forse anche per questo è sempre più diffusa in Venezuela.
Formare per trasformare, ovvero:
rovesciare il problema della sicurezza
Un altro elemento critico, nel
paese di Chávez, è rappresentato dalla violenza e dalla corruzione: «Come mai –
si chiede Colotti –, nonostante una evidente politica di giustizia sociale che
ha drasticamente ridotto il livello di povertà estrema, il tasso di omicidi
rimane ancora così elevato? Perché, in un governo che mette in avanti i
valori del socialismo, il tasso di corruzione rimane così alto?» (p. 81). I
segnali di controtendenza, certo, non mancano e l’autrice ce li ricorda: con
l’incremento delle grandi misiones
sociali, rivolte agli strati più umili della società, tra il 2006 e il 2011
sono diminuiti anche i reati contro la proprietà, essendo aumentati i posti di
lavoro e migliorata la qualità della vita. Tuttavia, sottolinea Colotti,
«benché i salari siano stati aumentati per decreto e i prezzi degli alimenti
principali siano stati abbassati per decisione governativa, l’inflazione (che
pure ha subito una evidente riduzione) rimane comunque alta. E, in un paese
abituato a trarre la propria ricchezza dalla rendita, l’invito al consumismo è
altissimo (soprattutto per gli adolescenti), mentre l’idea che si debba
contribuire alla qualità dei servizi con un ritorno retributivo resta molto
distante prima di tutto dai settori sociali che potrebbero farlo» (ibidem).
Inoltre, come ha spiegato bene un reportage di Maurice Lemoine su «Le Monde
Diplomatique» (Caracas brucia?,
settembre 2010), interessi oscuri alimentano il flusso di droga e violenza per
disinnescare un cambiamento che nuoce agli interessi dei poteri forti.
Qualcosa si è mosso, tuttavia.
Visto che la corruzione è alta soprattutto fra i poliziotti, tra il 2006 e il
2008 il governo ha cercato di operare un rovesciamento del problema, disegnando
un nuovo modello di sicurezza: in seguito a un processo di consultazione
popolare, da cui è emerso il quadro di una polizia violenta, corrotta,
razzista, classista e inefficiente, con la conseguente necessità di lavorare
sul rispetto dei diritti e sulla formazione della polizia era ricorrente, si è
fatta largo, sulla scorta della pedagogia degli oppressi del brasiliano Paulo
Freire, la strategia del «formare per trasformare» (p. 74), si è creata la
Universidad Nacional Experimental de la Seguridad (UNES), un’università
sperimentale per la polizia, e si sono riconvertite società illegali parallele,
cresciute nelle carceri abbandonate a se stesse, come, per esempio, la rete di
famigliari e detenuti, cresciuta spontaneamente nel carcere Retén de Catia
trent’anni fa e trasformata nel 2008 nella fondazione Tren del Sur, che i
detenuti hanno legalmente registrato con l’aiuto dei loro avvocati (p. 87).
Parlando di carceri, la storia
personale di Colotti si intreccia con l’esperienza vissuta in Venezuela,
perché, come noto, l’autrice ha passato oltre vent’anni dietro le sbarre, a
causa della sua militanza nelle Brigate Rosse e la prima visita compiuta in un
carcere venezuelano, quello di La Planta, ha coinciso anche con il primo
ingresso, in assoluto, da visitatrice in
un penitenziario, dopo la lunga detenzione: «Mi sembra così strano potervi
accedere con questa facilità, andando a trovare il detenuto “Tal dei Tali”»,
annota l’ex brigatista (p. 83). E la realtà che si trova davanti è quella di
una « città dei bassifondi, cresciuta nell’abbandono per anni», che è in
contraddizione evidente con quanto affermato da Chávez: «Storicamente il
sistema penale e penitenziario nacque con una vocazione meramente punitiva.
Questa è una visione capitalista. Ora si tratta di sostituire questo sistema
punitivo con uno umanista» (p. 85). Il cammino da compiere, anche in questo
caso, è ancora lungo.
Conclusioni
Da Talpe a Caracas, nonostante
l’autrice cerchi, da buona cronista, di far parlare i fatti e i protagonisti,
senza trionfalismi, spira un soffio di speranza nel proceso bolivariano,
alimentato dalla constatazione che nel paese vi è una « straordinaria
partecipazione popolare alla vita politica», che «si percepisce nelle strade e
ha il suo perno nella cultura, nel grande sforzo di alfabetizzazione generale
condotto dal governo. Agili e colorati, i libretti della Biblioteca Basica
Tematica, ognuno affidato alla penna di un esperto, affrontano il tema del
lavoro, della terra, del conflitto di genere, dello stato…» (p. 114). E
l’essenza del Venezuela bolivariano, secondo Colotti, sta proprio qui,
«nell’aver rimesso in moto una straordinaria partecipazione popolare» (p. 10).
Dopo i viaggi del febbraio-marzo
2011 e del gennaio-febbraio 2012, in cui l’autrice ha raccolto i materiali
confluiti in Talpe a Caracas, opera che, peraltro, vale la pena segnalare, ha
riscosso successo anche in Venezuela, grazie alla traduzione in spagnolo della
casa editrice Vadell Hermanos, Colotti è tornata nel paese latinoamericano tra
ottobre e dicembre 2012, per seguire la malattia di Chávez e le elezioni, poi i
funerali del presidente, a marzo di quest’anno: da questi e ulteriori viaggi,
oltre che dalle cronache scritte per «Il manifesto», nascerà un nuovo libro,
dal titolo provvisorio Dopo Chávez, tra la gente, con cui potremo riprendere a
scavare nella rivoluzione bolivariana.
da Carmilla on line, 4 0ttobre
2013
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