Nel
sito “Doppio zero” c’è un robusto e tosto dossier sugli anni Ottanta del
Novecento nelle arti, che sembra considerare quel decennio il punto di svolta per
l’affermazione di quello che con inevitabile approssimazione chiamiamo
“postmodernismo”. A me è molto piaciuta la ricognizione concettuale e attuale
di Caliandro sul predominio della citazione che – sulla scorta di Maurizio
Ferrari - egli tende a identificare con il postmoderno. Ne riprendo qui un
ampio stralcio. (S.L.L.)
Il centro di Los Angeles nel 2019, in "Bladerunner"/ |
È negli anni ottanta che la
pratica della citazione diventa predominante nella produzione culturale
occidentale. Dall’architettura alla letteratura, dall’arte visiva al design,
dal cinema alla musica - in un percorso che vede i suoi sicuri precursori in
autori come E. L. Doctorow (Ragtime, 1975; Loon Lake, 1979),
Thomas Pynchon (V., 1963; The Crying of Lot 49, 1966; Gravity’s
Rainbow, 1973) e Donald Barthelme (Snow White, 1967; City Life,
1970; The Dead Father, 1974) da una parte, Bernardo Bertolucci (Il
Conformista, 1970), Francis Ford Coppola (The Godfather, 1972; The
Godfather, part II, 1974), Brian De Palma (The Phantom of the Paradise,
1974; Dressed to Kill, 1980; Blow Out, 1981; Scarface,
1983) e George Lucas (American Graffiti, 1972; Star Wars,
1977-83) dall’altra - gli oggetti culturali del decennio si inseriscono in un
sistema molto coerente anche se i rimandi si dirigono nelle direzioni più
disparate.
Così, tra fine anni settanta e
ottanta gruppi musicali si rifanno nel nome e nel look ad esperienze
artistiche ben localizzate (Cabaret Voltaire, Bauhaus); le copertine di molti
album post-punk, new wave e new romantic (per fare qualche
esempio: Wire, 154, 1979; Visage, Visage, 1980; New Order, Movement,
1981) si richiamano all’immaginario costruttivista e modernista, con alcune
spiccate fascinazioni per il ritorno all’ordine e il classicismo (Spandau
Ballet, Journeys to Glory, 1981; Devo, New Traditionalists, 1981;
Ultravox, Quartet, 1982); le stesse modalità di composizione musicale,
con il montaggio-smontaggio e il collage elettronico dei suoni, si
riferiscono esplicitamente all’attitudine dada e in generale allo
spirito delle avanguardie storiche (Art of Noise, Propaganda, Frankie Goes to
Hollywood); Blade Runner (Ridley Scott 1982) rappresenta l’aggiornamento
dichiarato di Metropolis (Fritz Lang 1927), presentandosi come un noir
classico ambientato in un futuro distopico (con una fortissima componente art
déco nella costruzione degli spazi interni); il neoespressionismo pittorico
italiano (Chia, Cucchi, Clemente, Paladino, De Maria) e di volta in volta – e
anche contemporaneamente - il futurismo, Strapaese e l’espressionismo, sia
storico che astratto, così come a livello internazionale (Baselitz, Kiefer,
Salle, Schnabel) saccheggiano gli anni quaranta e cinquanta, ingrandendo al
parossismo la scala dei dipinti; e così via.
Appunti per una definizione
Prima di affrontare qualunque
discorso sulla citazione, è opportuno approntare una minima definizione del
concetto, tentando per quanto possibile di sgombrare il campo dai molti
fraintendimenti che si sono stratificati negli ultimi trent’anni a questo
proposito.
Un buon punto di partenza, per
quanto banale, è indicare che la citazione si qualifica, sempre e comunque,
come una presa di distanza rispetto all’oggetto (altrui) che si cita, ed
all’oggetto (proprio) in cui si inscrive la citazione. È come se si dicesse io
non credo fino in fondo all’autenticità di quello che sto dicendo, dell’opera che
vado componendo, e non credo neanche di fatto alla possibilità stessa
dell’autenticità (verità). Perciò, cito: vale a dire, interpongo tra me stesso,
l’opera e i suoi fruitori, un filtro. Questo filtro funziona, al tempo stesso,
come indicatore di un contesto storico e come barriera per ogni
interpretazione. Inoltre, siccome a quanto pare il mondo è una terrificante
assenza di ordine, l’unico aggancio solido che trovo è quello agli oggetti
culturali, agli stili ed agli autori che mi hanno preceduto (anche se non credo
neanche del tutto alla sequenza storica e aborro ogni idea di ‘progressione’,
quindi che mi abbiano proprio preceduto è tutto da vedere).
La rappresentazione culturale si
riferisce dunque esclusivamente al dominio dello stile, escludendo quasi del
tutto il mondo esterno e la realtà in favore della loro immagine. Si può dire
anzi che, nel corso degli anni Ottanta, e principalmente attraverso la
citazione, la rappresentazione della realtà (representation) diventi
progressivamente la sua “ri-presentazione” (re-presentation): vale a
dire, la presentazione di una realtà di secondo grado, o meglio, il
riconoscimento della realtà solo attraverso la sua rappresentazione. Sembra
infatti che quando una/la realtà ci viene presentata per la seconda volta, solo
allora la conosciamo davvero. Possiamo dunque dire così: la citazione è
il postmoderno.
Del resto, lo stesso Maurizio
Ferraris, nella sua requisitoria
dell’estate 2011 contro il postmodernismo (e a favore del cosiddetto New
Realism contemporaneo), scrive: “Critica […] significa questo.
L’argomento dei postmoderni era che l’irrealismo e il cuore oltre l’ostacolo
sono emancipatori. Ma chiaramente non è così, perché mentre il realismo è
immediatamente critico (“le cose stanno così”, l’accertamento non è
accettazione!), l’irrealismo pone un problema. Se pensi che non ci sono fatti,
solo interpretazioni, come fai a sapere che stai trasformando il mondo e non,
invece, stai semplicemente immaginando di trasformarlo, sognando di
trasformarlo? Nel realismo è incorporata la critica, all’irrealismo è
connaturata l’acquiescenza, la favola che si racconta ai bambini perché
prendano sonno”.
Citazione e appropriazione
Diversa - anche se non poi così
tanto, come potrebbe sembrare a prima vista - dalla citazione, con cui viene
spesso e volentieri confusa, è l’appropriazione. A questo proposito non
è un caso, forse, che all’interno della mostra Postmodernism al Victoria
& Albert Museum, salutata in tutto il mondo occidentale come “l’autopsia”
del postmodernismo, all’interno della stessa saletta uno storico Untitled
Film Still di Cindy Sherman fosse “nascosto” in una pletora di immagini,
tra cui alcune delle copertine dei dischi di cui si diceva prima ed altri
manifesti neo-modernisti (si può vedere in proposito Glenn Adamson, Jane Pavitt
(a cura di), Postmodernism. Style and Subversion, 1970-1990,
catalogo della mostra, Victoria & Albert Museum, London 2011).
L’artista che si appropria di un
frammento culturale, di un’immagine, di un’opera o addirittura di un’intera
epoca immaginaria: esempi storici in questo senso, nella New York di fine anni
settanta-inizio ottanta, sono tra gli altri Sherrie Levine, Richard Prince,
Cindy Sherman, Robert Longo, le cui opere sono state all’epoca riunite sotto la
definizione comune di Pictures.
Le pictures cercano di
“sfondare” la barriera dell’autorialità e dell’originalità, costruendo quelle
che Douglas Crimp ha individuato come ghost fictions - fantasmi di
finzioni (stranamente analoghe alle pasoliniane “descrizioni di descrizioni”),
fantasmi finzionali che richiedono nuovi e aggiornati strumenti interpretativi:
“È oggi divenuto necessario pensare alla descrizione come a un’attività
stratigrafica. Questi processi di citazione, appropriazione, framing e
messa in scena che costituiscono le strategie dell’opera […] necessitano di
rivelare gli strati della rappresentazione. Non c’è bisogno di specificare che
non siano in cerca delle fonti o delle origini, ma delle strutture di
significazione: sotto ogni picture c’è sempre un’altra picture” (Douglas Crimp, Pictures, in
“October”, 8, 1979, p. 83).
Il tentativo era quello di
raggiungere una sintesi impossibile e affascinante di pop e concettualismo,
proiettandola nel presente. Il sogno declinato (elaborato sulla scorta del détournement
di Guy Debord, e dando corpo alla nozione di “postmoderno critico” elaborata
subito dopo da Hal Foster), era in poche parole: se infrangere completamente lo
Spettacolo è di fatto un’opzione ormai letteralmente impensabile e
inconcepibile (almeno al momento, e nelle condizioni attuali), distorcerlo,
deformarlo e fare in modo che rifletta e restituisca la realtà a sua
insaputa, contro la sua stessa volontà, modificandola a sua volta, è un’opzione
invece perfettamente a portata di mano, praticabile.
Ma, appunto, alla lunga anche
questa opzione si è rivelata l’ennesima, ulteriore illusione culturale, dal
momento che questi tentativi sono costantemente in quella “seconda natura” che
è la rappresentazione – mediatica, spettacolare, immaginaria. È sufficiente a
dimostrarlo il malinconico fatto che le fotografie storiche di Cindy Sherman,
all’inizio praticamente invendibili, sono diventate merci così appetibili da
far registrare di recente record assoluti nelle principali aste, configurando
addirittura dei nuovi standard per il mercato globale dell’arte
contemporanea.
In qualità di registrazione dello
Zeitgest, risulta tutto sommato molto più onesto a trent’anni di
distanza qualcosa del genere: “La nuova mentalità dell’arte consiste nella
coscienza della sua centralità, della sua autosufficienza in un mondo che non
cerca più e non trova punti di ancoraggio fissi e riparanti. L’arte è diventata
l’ultima frontiera, il limite territoriale su cui è possibile muoversi. […]
Tale atteggiamento presuppone anche l’esaltazione del recinto dell’arte,
inteso come deposito e riserva di energie che solo l’artista può disoccultare.
[…] Se non esiste coerenza, non esiste nemmeno contraddizione. La nuova
mentalità dell’arte si muove nella libertà espressiva di ogni linguaggio, nel
libertinaggio di azioni che non si lasciano ricattare da alcun interdetto che
spesso ha accompagnato l’operato dell’avanguardia. […] L’arte è un continuo
smottamento di linguaggi che cadono sull’artista, non per caso ma perché
egli dimora stabilmente nei pressi della sua riserva, dove si sono accumulati strati
fisici e mentali di esperienze che non sono mai desuete. Perciò ora ci
troviamo di fronte ad artisti che scelgono di praticare e di battere molte
strade, assecondando non tanto l’imperativo della sperimentazione quanto quello
dell’esperienza…”. (Achille Bonito Oliva, La piccola emozione dell’arte,
in La Transavanguardia Italiana, Milano 1981).
Citazione e nostalgia
Occorre comunque tenere sempre
presente che citazioni e appropriazioni, pratiche citazioniste e
appropriazioniste si riferiscono sempre ad un archivio (all’interno del quale
selezionare e ricapitolare); questo archivio comprende tutto ciò che è
stato fatto fino al momento della formulazione. Dunque, sono operazioni
che guardano sempre indietro, al passato. Nostalgicamente.
Citazione e nostalgia sono i due
aspetti fondamentali - e strettamente interconnessi - della produzione
culturale postmoderna. La citazione è, anzi il corrispettivo
stilistico-espressivo della nostalgia. Il suo riflesso culturale. La nostalgia
- a livello di una società e di una cultura, così come di un individuo -
registra l’incapacità di affrontare e progettare il futuro, unita ad una forma
più o meno latente di depressione, che determina la fuga e l’evasione verso un
passato sempre ricostruito, idealizzato (“i bei tempi andati non sono mai
esistiti”). Dunque una versione del passato inventata, mai effettivamente
esistita. Come variante dell’esotismo, la nostalgia rifiuta completamente il
contatto con la realtà e con la Storia, preferendo una costruzione artificiale.
Fredric Jameson ha definito la
nostalgia come uno dei tratti distintivi del postmoderno, diretta conseguenza
della comparsa all’orizzonte del “presente perpetuo”: “Il termine ‘nostalgia’
non è la parola più soddisfacente per indicare questa fascinazione
(specialmente se si pensa alla sofferenza di una nostalgia propriamente
modernista per un recupero esclusivamente estetico del passato), ciò malgrado
rivolge la nostra attenzione su quella che è la manifestazione culturale di
gran lunga più diffusa dello sviluppo in atto nell’arte e nel gusto
commerciali, ossia il cosiddetto cinema della nostalgia (quella che i francesi
chiamano la mode rétro). Il cinema della nostalgia riconfigura l’intera
questione del pastiche proiettandola su un piano sociale e collettivo,
ove il disperato tentativo di appropriarsi di un passato perduto si rifrange
ora contro la ferrea legge delle trasformazioni della moda e dell’ideologia
emergente della generazione”. (Fredric Jameson, Postmodernismo ovvero la
logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007, p. 36).
Dunque, la nostalgia non è
diventata semplicemente, negli ultimi trenta-quaranta anni, la modalità
privilegiata di relazione con il passato: probabilmente invece ha rappresentato,
l’unica possibilità di contatto con il passato, con la storia. L’unica
negoziazione con il tempo e con la sua percezione. Occorre considerare che
Jameson scriveva proprio negli anni Ottanta, registrando un fenomeno allora
tutto sommato oscuro e difficilmente riconoscibile, se non con strumenti molto
acuti e penetranti.
Ma come agisce esattamente la
nostalgia? Recide i collegamenti e i rapporti di causa-effetto tra gli eventi e
tra le epoche. Il che vuol dire, per esempio, che non ci consente di vedere il
presente come risultato - non inevitabile, tra l’altro - del passato.
Uniformando al presente il passato, da esso preleva solo gli elementi necessari
e superficiali, adattabili al presente, e ne espelle gli elementi più
disturbanti, quelli che non sono coerenti con l’oggi e che non si incastrano
perfettamente con le condizioni attuali - e che quasi sempre sono anche quelli
più interessanti, più fertili; molto spesso, quelli fondamentali.
La nostalgia uniforma tutte le
dimensioni temporali (passato-presente-futuro), in un’unica melassa che è il
nostro tempo, o meglio, la nostra percezione del tempo: il “presente perpetuo”
jamesoniano. La sostanza, il messaggio trasmesso ad ogni livello è sempre lo
stesso: “è stato e sarà sempre tutto uguale ad ora, ed è inutile che vi
affanniate a trovare il modo di cambiare la realtà: è impossibile.”
Questa percezione nostalgica ha
pervaso nell’ultimo trentennio il linguaggio pubblico e privato, le forme e le
espressioni artistiche (e qui lo sappiamo molto bene, altroché… ), il look
e gli show televisivi. E soprattutto, la nostalgia pervade le immagini prodotte
e fruite, individualmente e collettivamente, privatamente e pubblicamente.
Questo processo inizia negli anni Ottanta, e si avvia in questi mesi, se non
alla sua conclusione, di sicuro ad una significativa mutazione.
Non è assolutamente inevitabile,
infatti, affidarsi unicamente alla nostalgia come chiave di lettura dei
fenomeni e dei cambiamenti, storici e culturali (ed è abbastanza intuitivo il
fatto che, proprio a questo scopo, come chiave di lettura la nostalgia è non
solo inservibile ma addirittura dannosa). Non è detto che solo attraverso la
citazione di linguaggi artistici (morti) si possa e si debba dire qualcosa di
importante: anzi, spesso il montaggio delle citazioni è una cortina fumogena
dietro cui nascondere, più o meno abilmente, più o meno consapevolmente,
l’incapacità strutturale di dire qualcosa di importante.
Né la nostalgia né la citazione
sono obbligatorie. Non solo. Come dimostra la storia culturale degli ultimi sei
secoli almeno, non esiste affatto un unico impiego, e una sola interpretazione,
della citazione. La nostalgia, e il suo riflesso pratico-stilistico che è la
citazione, configurano sicuramente un atteggiamento passivo: ma esistono anche
svariate possibilità di riattivarle, e di reinserirle
nell’interpretazione del mondo.
Dossier 80, in “Doppio zero”, http://doppiozero.com/
Nessun commento:
Posta un commento