Bisogna che il nostro secolo si
rassegni: non è così carcerariamente ben organizzato come s'illude. Può, sì,
renderci la vita quasi irrespirabile a forza di scartoffie, fotografie formato
tessera, impronte digitali, fatture Iva, dichiarazioni in triplice copia,
fedine penali, cartelle cliniche, porto d'armi, atti di nascita, certificati di
battesimo, di matrimonio, di vaccinazione, di residenza, di buona condotta, di
servizio militare, di sesso, di gruppo sanguigno e di morte. Può, sì, darci
l'impressione che nemmeno un sospiro, di noi, sfugga alle autorità statali,
regionali, comunali, rionali, civili e religiose, nazionali e multinazionali.
Ma ci sono ancora ampi squarci in questa ragnatela d'acciaio percorsa da
corrente elettrica ad alto voltaggio.
La nube del calamaro
Purtroppo non ne sappiamo
approfittare. Dovremmo prendere esempio da un uomo che è riuscito a mimetizzarsi
alla maniera di un calamaro che si spande intorno una nube color inchiostro:
quello scrittore misterioso che firma i suoi libri B. Traven. Fa quasi rabbia.
E' mai possibile che mentre noi siamo sempre seguiti da mille riflettori in
ogni azione della nostra vita, costui riesca a tenerci ancora oggi in sospetto
su chi sia realmente e, cosa ancor più madornale trattandosi di uno scrittore,
in che lingua abbia composto i suoi romanzi?
Arrivavano in Germania, negli
anni Venti, in lingua tedesca. Poi è stato affermato che l'autore li scriveva
in inglese, anzi in americano, e li faceva tradurre in tedesco per pubblicarli
in Germania, presso una casa editrice socialista, perché la censura tedesca
(allora!) era assai più permissiva di quella statunitense. Ma quest'autore chi
è? Le possibilità sono almeno otto. Due addirittura, fantascientifiche: Jack
London, che nel 1916 avrebbe messo in scena il proprio suicidio per rifugiarsi
in Messico ed evadere il fisco; o — qui cambia addirittura il sesso — una
giornalista messicana. Un'altra ipotesi è di un patetico orroroso da mèlo: Traven è un lebbroso che si
nasconde in qualche villaggio d'indiani, sempre nel Messico, sua indubbia terra
d'arrivo. Una sa di romanzo a fumetti, con risvolti dinastici tenebrosi: Traven
è figlio naturale di Guglielmo II, il Kaiser dai baffi a manubrio. Due sono
altamente politiche, nascono dal ventre infocato della rivoluzione d'ottobre: è
un ex agente di Stalin; no, al contrario, è un trozkista che si nascondeva da
Stalin. Una è meno colorita, ma con note di verosimiglianza: marinaio, marinaio
tedesco, anzi amburghese.
Resta l'ultima, la più probabile,
quella quasi certa. Traven sarebbe un socialista anarchico tedesco, forse di
Monaco, di nome Ret Marut, ma che firmava anche, più distesamente, Richard
Maurhut. Forse è davvero un figlio illegittimo del Kaiser e di una cantante
norvegese. Certo, nonostante le sue idee sovversive, la polizia tedesca lo
tratta coi guanti: gli cambia la nazionalità inglese in americana quando lui ne
fa richiesta, non censura né requisisce mai il giornaletto anarchico e
anticapitalista da lui stampato, gli lascia mettere in salvo i documenti e poi
anche prendere la via della fuga quando, nel 1919, la repubblica dei consigli
bavarese viene stroncata. E poi? Poi l'esilio, il Messico, gli pseudonimi (Torsvan,
Croves nella vita privata; B. Traven come autore), le donne, infine la moglie,
Rosa Falena Lujan, messicana, che nel 1966 racconta finalmente questa storia,
che sembra quella buona.
Ma è poi vero? E' proprio Ret
Marut quel signor Torsvan che muore di cancro a Città del Messico il 26 marzo
1969, ultraottantenne? E si identifica veramente con B. Traven? E come mai,
ammesso che B. Traven sia Ret Marut, di questo Marut non si hanno notizie fino
al 1908, quando doveva avere già ventisei anni? Che ha fatto prima? Dove
l'hanno tenuto? Sembra il mistero di Raspar Hauser: solo che Raspar Hauser non
ha scritto libri, e tanti, e per così lungo tempo. Insomma, prima ancora
dell'autore, si vorrebbe appaludire il re dell'anonimo, il disperditore di
tracce, il fuggiasco, 1'uomo mascherato, che continua a lasciare con un palmo
di naso i nostri investigatori, giornalisti, uffici anagrafici, poliziotti, critici
letterari, computer e ispettori fiscali. E' un po' come la lingua etrusca. Ogni
tanti anni spunta qualcuno che giura di a-verla decifrata. Poi continuiamo a
brancolare tra le ipotesi. Bello, il mistero. Ma anche stancante. E a un certo
punto si vorrebbe stringere qualcosa di più solido.
Per fortuna, nel caso di Traven
qualcosa di solido c'è, e sono le sue opere, chiunque le abbia scritte, e in
qualunque lingua. Leggiamocele anche solo in italiano. La casa editrice Longanesi
se n'è fatta da anni la banditrice. Ora, nella collana «La gaja scienza», si
rimette tra le mani Il tesoro della
Sierra Madre (traduzione di Teresa Pintacuda), noto anche per uno splendido
film di John Huston, con un devastato Humphrey Bogart e — impagabile vecchio —
il padre del regista, Walter Huston.
Quello che mi ha sempre colpito,
in questo romanzo, è la «nobilitazione del pretesto». La storia di tre
cercatori d'oro, la suspense del tesoro da trovare, da portare a casa tra mille
pericoli, le lotte feroci che scoppiano fra i tre. Niente di più western, albo
per la gioventù, fumetto per soldati, Salgari e Karl May in edizione messicana.
E invece personaggi, paesaggio, vicenda, tutto ha in Traven una tensione rozza
ma irresistibile, con un'intensità anche fisica di sensazioni, una tortura
anche morale di scelte che è della buona letteratura.
Quel caldo e quegli insetti
E il «messaggio»? Accidenti se
c'è, e a sentirlo enunciare tra intellettuali si reagisce con un sorrisetto
imbarazzato. State a sentire: la maledizione dell'oro, l'avidità di ricchezza
che corrompe e fa impazzire, che spezza amicizie e genera morte. Non si
vergogna il signor Traven? Per farci accettare una morale così ovvia ci vuole
almeno una macchina mitico-magica come L’Anello
del Nibelungo di quel drittone di Wagner o il balletto straccione e
surreale che sa darci, parodisticamente, Charlie Chaplin nella Febbre dell'oro. E invece Traven non si
vergogna per niente, e fa bene. Serio serio, più vicino alla tragedia greca di
quanto non paia, e comunque lontanissimo sia dai simbolismi wagneriani che
dalle estrosità chaplinesche, ci «predica» il suo messaggio col candore brutale
di un primitivo, come se questa verità da quattro soldi (o da quattro pepite)
l'avesse scoperta lui. E ci azzecca, sì, ci azzecca come una pistolettata in
mezzo agli occhi. Vorremmo sorridere, e siamo presi alla gola; vorremmo fare
gli scettici, e ci sentiamo intimiditi come cuccioli; vorremmo ricordare altre
lezioni più furbe della sua, e per alcuni giorni ricordiamo solo lui, il sudore
dei suoi eroi, quel caldo e quegli insetti, quella paura e quell'odio. Polso da
vero scrittore, si diceva una volta. Mi sento di ripeterlo anche adesso.
"la Repubblica" - nel ritaglio manca la data, probabilmente 1981
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