Questa sorta di bilancio,
distaccato ma non troppo, dell’esperienza umana e letteraria di Cesare Pavese,
fu scritto da Franco Fortini in francese e pubblicata su “Les Temps Modernes”,
la prestigiosa rivista della intellettualità parigina “impegnata” fondata da
Jean-Paul Sartre, nel gennaio del 1953, due anni (o poco più) dopo il suicidio
dello scrittore e poeta piemontese. Il testo non ebbe circolazione al tempo
forse perché rompeva il velo di ipocrisia, a sinistra, verso una morte cui non
si volevano dare significati pubblici. Sessant’anni dopo, tuttavia, stupisce
l’acume con cui Fortini legge e interpreta le principali opere di Pavese
(S.L.L.)
Il 27 agosto 1950, a Torino, in
una camera d’albergo, lo scrittore Cesare Pavese si suicidava ingerendo una
ventina di pastiglie di sonnifero. La notizia fece un’impressione vivissima. I
motivi del suicidio e la personalità dello scrittore furono oggetto d’una lunga
polemica su giornali e riviste. Accanto al corpo di Pavese venne trovata una
copia dei Dialoghi con Leucò, il libro che aveva suscitato meno
interesse nella critica. Sul risguardo, Pavese aveva scritto queste parole:
“Perdono tutti e chiedo perdono a tutti. Va a finire così? Non fate troppe
storie”.
Pavese era nato nel 1908 in un
piccolo paese del Piemonte e apparteneva a una famiglia modesta. Aveva studiato
a Torino dove, malgrado il fascismo, gli ambienti intellettuali e operai
tenevano vivo il ricordo di Piero Gobetti (direttore di “Rivoluzione Liberale”)
e di Antonio Gramsci, il più importante pensatore marxista italiano,
imprigionato nel 1926 e morto nel 1937. Pavese conseguì la laurea in lettere
con una tesi su Whitman. Per qualche tempo insegnò nelle scuole serali e fece
delle supplenze. Per mancanza d’iscrizione al partito fascista , non fu mai
nominato professore di ruolo. Nel 1930 cominciò a collaborare alla rivista “La
Cultura”, di cui ebbe anche la direzione per un po’di tempo, con saggi sulla
letteratura americana, Lewis, Anderson, Lee Masters, Melville, Dos Passos,
Dreiser, Faulkner.
Contemporaneamente cominciava il
lavoro di traduttore, con le opere di Lewis e Anderson; tra l’altro tradusse
magistralmente Moby Dick di Melville. Era un lavoro che non avrebbe più
abbandonato: tradusse poi due romanzi di Dos Passos, Benito Cereno di
Melville, due libri di Gertrude Stein, Dedalus di Joyce, Moll
Flanders di Defoe, David Copperfield di Dickens, Il Borgo di
Faulkner. Durante questi anni di studi, segnati da rare amicizie, scrisse una
serie di poesie di stile assai diverso dai suoi contemporanei; vi si ritrovano
tutti i temi che sarebbero stati in seguito della sua opera di narratore:
infanzia campestre, rapporto città campagna, scaltrezza e formazione virile,
attrazione e repulsione sacra per il sesso e il sangue, amore rude e simpatia
fraterna per le ragazze del popolo, gli operai, i muratori, i vagabondi, le
prostitute, sentimento profondo del paesaggio agreste e dei miti della
preistoria.
Nel 1935 fu arrestato per
antifascismo; dovette subire dieci mesi di confino in un paese della Calabria.
L’anno seguente pubblicò le sue poesie dal titolo Lavorare stanca. Ma fu
solo col suo primo romanzo, Paesi tuoi, scritto nel 1939 e pubblicato
nel 1941, che la critica s’accorse che era nato un nuovo scrittore. Da quegli
anni in poi, compreso il periodo della guerra, fu uno dei principali animatori
e dirigenti della casa Einaudi, fondata allora a Torino. Fedele a ricerche e
letture coltivate da parecchi anni, ideò e diresse dopo la guerra una collana
di studi religiosi, etnologici e psicologici (edizione di testi di Frazer,
Durkheim, Lévy-Bruhl, Kéreny, Jung, Propp, etc.). L’anno prima della morte aveva
lavorato a lungo a un’edizione dell’Iliade, collaborando col traduttore.
Paesi tuoi è il racconto
breve, scritto in prima persona, d’un operaio torinese che, uscito di prigione,
va a lavorare in campagna, dove assiste a una storia torbida di oscure gelosie e
di morte. Il libro fece grande impressione per l’intensità della ricerca
stilistica – trascrizione, in un linguaggio spezzato e denso, d’un fondo
dialettale – e per l’energia dello scorcio. Vi si sentì la lezione degli
americani ma più ancora quella di Verga. L’anno successivo un altro romanzo,
anch’esso breve, La spiaggia, poi più nulla fino al 1946, quando uscirono
una raccolta di racconti e prose varie, Feria d’Agosto, e un romanzo
apertamente politico, Il compagno (1947), dove l’antitesi città-campagna
è trasposta nei termini Torino-Roma. Lo stesso anno, Pavese pubblicò il suo
libro più segreto e più gelosamente concepito, una serie di dialoghi tra
personaggi mitologici, Dialoghi con Leucò, dove le
sue meditazioni sul mito, la
morte e l’Eros sono tradotte in forma lucida e austera. Vi si sente l’uomo che
indicava come suoi narratori preferiti Erodoto e Gianbattista Vico.
La critica salutò calorosamente
un’altra sua opera, Prima che il gallo canti, pubblicata nel 1949 e
composta di due racconti, l’uno scritto dieci anni prima, Il carcere,
sul ricordo e l’esperienza del “confino”; l’altro, La casa in collina,
steso sotto forma di diario d’un intellettuale durante la Resistenza. L’uno e
l’altro lasciano trasparire il sentimento angoscioso d’impotenza all’azione,
che Pavese condivise con molti intellettuali della sua generazione, e che ebbe
il merito di condurre a una spietata lucidità morale.
Dieci mesi dopo la pubblicazione
dei due racconti di Prima che il gallo canti, Pavese pubblica tre
romanzi brevi, raccolti in volume sotto il titolo La bella estate. Il
primo, che dà il nome all’opera, è un racconto che mette in scena pittori e
modelle; una giovane donna si perde poco a poco e si corrompe profondamente per
aver aspirato solo a una maturità fatta di indifferenza e di disperazione. Il
secondo, che è del 1948, Il diavolo sulle colline, è un racconto
complesso degli incontri e scontri tra un gruppo di giovani studenti di
provincia e un ambiente dell’alta borghesia, che s’infliggono reciprocamente delle
amare esperienze. Il terzo, Tre donne sole (1949) è indubbiamente una
delle migliori opere di Pavese. Si svolge nella società borghese di Torino dopo
la guerra e mette in scena degli intellettuali ambiziosi e mondani, dei pittori
mediocri. Alcune giovani donne dalla vita sessuale ambigua sono in cerca di
realtà e di autenticità, divise tra il cinismo e il bisogno d’amore. È una
donna d’origine popolare che parla. Grazie al suo lavoro è riuscita a penetrare
in quell’ambiente e lo giudica, fuori da ogni moralismo, dall’alto della
fedeltà a se stessa. Il libro si conclude col suicidio d’una ragazza in un
albergo di Torino. Inquietante prefigurazione del suicidio dell’autore.
La critica riservò un’accoglienza
assai favorevole al libro. Il lungo lavoro letterario di Pavese, tenace e
condotto avanti nel riserbo e nella solitudine, cominciava a dare i suoi
frutti. Proprio in quel momento un amore che porta dall’inizio i tragici segni
d’una dura prova, viene a sconvolgere quel lavoro ostinato. Non è un caso che
si tratti d’una giovane americana, attrice di cinema, che sembra essere il
simbolo d’una realtà e d’un clima morale verso il quale l’autore è attratto da
sentimenti intensi e contraddittori. Il Diario permette d’intuire le
alterne vicende di quell’amore, ma ben presto la passione finisce in uno
scacco, che altri scacchi sentimentali avevano già annunciato e prefigurato (Pavese
amava ripetere: “Non c’è una prima volta – la prima è sempre una seconda volta”).
È la rivelazione d’una piaga inguaribile, e l’idea del suicidio, quasi
dimenticata durante gli anni di lavoro più assiduo, ritorna con estrema
violenza. Sono mesi di lavoro intenso e febbrile. Alle preoccupazioni
professionali e letterarie s’aggiungeva un impegno politico molto esigente.
Pavese aveva ricevuto la
formazione liberale dell’antifascismo di Croce, lontana dal marxismo e dalla
tradizione socialista. Era entrato nel partito comunista dopo la guerra (benché
non avesse preso parte alla Resistenza), perché la sua concezione della cultura
come lavoro, della tecnica come moralità, s’incontrava con la lotta comunista
dei marxisti contro la spontaneità anarchica e romantica della cultura borghese.
Ma sebbene assolvesse ai suoi doveri di militante, Pavese aveva sempre
affermato, soprattutto in materia di critica letteraria, un’indipendenza aperta
rispetto alle posizioni più ortodosse della politica sovietica; e l’aveva
espressa a più riprese sulle colonne della stampa di partito. In questo senso i
suoi scritti (raccolti nel volume postumo La letteratura americana e altri
saggi) contengono delle indicazioni precise per lo studio dei doveri che incombono
all’intellettuale e allo scrittore in una società che s’orienta verso il
socialismo.
Pavese non era in nessun modo un
uomo pubblico, ma proprio in virtù di quell’ascesi della volontà che lo faceva
vivere, non aveva partecipato allo sbandamento generale degli intellettuali
comunisti italiani, benchè non facesse mistero dei giudizi severi che dava di certi
aspetti della vita del Partito. Era in contatto con un gruppo d’intellettuali
che erano stati tra i dirigenti del movimento della sinistra cristiana e poi
erano entrati nel Partito comunista, e che seguivano la via tutta particolare
della loro speculazione filosofica, destinata a finire nel 1952 in una abiura
totale del marxismo e in una sottomissione al papa. Nacque una rivista,
“Cultura e realtà”; dopo il lungo periodo di vuoto subentrato alla rivista di
Vittorini “Politecnico”, l’avevamo salutata come una nuova possibilità di
discussione nell’ambito della cultura delle sinistre italiane. Il primo numero
della rivista uscì a Roma, nell’aprile 1950, con articoli di Pavese, e il suo
nome figurava tra quelli del comitato di redazione. Contemporaneamente usciva
un’opera che è forse il suo capolavoro, La luna e i falò. Noi leggemmo
allora (...), col cuore stretto, una prosa trasparente e lacerante, percorsa da
un’indicibile disperazione. È la storia del ritorno simbolico al paese
d’infanzia dell’orfanello emigrato da ragazzo in America, la lenta scoperta degli
avvenimenti della guerra civile che l’hanno sconvolto e quella ancora più
dolorosa della vana ripetizione delle esistenze.
La materia letteraria lungamente
e dolorosamente elaborata da Pavese aveva trovato un’espressione compiuta.
Pavese si sentiva “svuotato”, “come un fucile dopo la partenza del colpo”, e
ancora più atroce era l’assenza della persona amata, per la quale soprattutto
l’opera compiuta avrebbe avuto un senso. Pavese sentiva di aver raggiunto il
culmine della sua esistenza. All’inizio del libro figura una citazione di Re
Lear, “La maturità è tutto”, passata in Melville e poi nell’American
Renaissance di Matthiessen, il critico americano che si era dato la morte
proprio nell’aprile 1950, e sul quale Pavese aveva scritto un saggio.
Da quel momento Pavese si prepara
al suicidio.
In giugno, riceve una
testimonianza mondana e letteraria di successo: gli è attribuito il Premio
Strega proprio dai letterati di quell’ambiente romano che conosceva bene, per
aver vissuto a Roma nel 1943 e nel 1945. Ma la morte lo incalza. Scrive delle
poesie d’amore commoventi, disperate e ingenue, indirizzate alla donna lontana
e pubblicate dopo la morte.
Viene l’estate, l’implacabile
estate italiana che fa il deserto nelle città. Scoppia la guerra di Corea e con
essa il sentimento d’una catastrofe imminente. Verso la fine di luglio, su
“Rinascita”, il mensile del Partito comunista, appare un articolo anonimo, ma
chiaramente ispirato dall’alto, che fulmina una condanna sprezzante di “Cultura
e Realtà”.
Il conflitto con le autorità del
Partito sembra inevitabile (sebbene, negli stessi giorni, i redattori torinesi
della rivista si siano dedicati con zelo alla raccolta delle firme per la pace).
Pavese ha chiuso il suo Diario, vi ha posto le date (1935-1938).
Attraversa le spiagge ancora brulicanti, si reca a Bocca di Magra dove ci sono
alcuni suoi amici, colleghi di lavoro della casa editrice Einaudi, fra cui quel
Vittorini con il quale gli è così difficile stabilire un rapporto umano, ma
che, dagli anni lontani della scoperta comune della letteratura americana,
aveva cominciato il suo lavoro letterario con una passione analoga di novità.
Ma l’allegria distratta di queste vacanze non è fatta per lui. Pavese parte,
vaga per Roma qualche giorno, ritorna a Torino, risponde a un amico che gli
propone di condurlo in montagna: “Quelli che mi vogliono bene non devono far
altro che restare dove sono io”. Lascia la casa della sorella con cui vive,
sale le scale d’un albergo dell’amata città di Torino.
Nel desiderio d’interpretare i
moventi del suicidio, i comunisti hanno privilegiato il motivo sentimentale,
gli anticomunisti quello della crisi politica. Altri hanno visto in lui una
vittima della “terza guerra mondiale”, altri ancora hanno parlato di semplice
nevrastenia. Ora, a due anni di distanza, la lettura del Diario –
quattrocento pagine d’una scrittura lucida dove, mentre monologa
incessantemente con se stesso, Pavese non cita quasi fatti o persone – rivela
il nodo psicologico: è soprattutto l’impossibilità fondamentale di
comunicazione umana che è all’origine del proposito a lungo deliberato della morte
volontaria. Questa volontà di non esistere e di riassumersi in un gesto, non
era forse alla base della personalità di Pavese? Nel 1936, alla stazione di
Torino, quando tornava dal “confino”, era svenuto alla notizia del matrimonio
d’una donna che aveva amato: l’episodio non sembra il suo primo suicidio
simbolico?
Questo diario, accolto di
malavoglia dalla critica italiana, ci impone una revisione della fisionomia di
Pavese. Le formule usate per definirlo, compresa quella che ha voluto fare di
lui uno stoico e un eroe della volontà, appaiono inadeguate dinanzi all’estrema
lucidità critica testimoniata da queste pagine. Se la sua morte è suonata per
molti come l’eco d’un avvertimento e d’un esempio, la sua opera letteraria e la
sua figura sono ora studiate e amate in virtù della ricchezza delle sue
contraddizioni e dell’energia morale impiegata, fino a che gli è stato
possibile, per dominarle.
L'articolo fu pubblicato in
francese per “Les Temps Modernes”, 87, Janvier-Février 1953, p.1089-94. La
traduzione è ripresa da “L’Ospite Ingrato”, Annuario del Centro Studi Franco
Fortini, vol. III, 2000.
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