2.1.14

Eliot critico. Che deliziose stroncature (Guido Almansi)

Da “Repubblica” un altro degli articoli per il centenario della nascita di Eliot, utilissima sintesi delle più note formulazioni critiche del grande poeta e acuta interpretazione del suo modo di leggere e giudicare. (S.L.L.)
Thomas S. Eliot in una caricatura di Pericoli
Una volta che un poeta è accettato come tale, è raro che la sua reputazione venga rimessa in discussione, scriveva T.S. Eliot, che temeva questa prematura ossificazione della fama; e, scrivendo su un poeta da lui molto amato, Ben Jonson, lamentava il fatto che la reputazione dell'autore di Volpone fosse del tipo fatale, quando si è accettati dall'universo mondo e dannati dalla lode che spegne ogni desiderio di leggere i libri. La letteratura italiana, ahimé, è ricca di poeti che soffrono della cospirazione dell'assenso: chi ha mai dissentito circa il valore poetico di Petrarca, di Ariosto o di Tasso, poeti che nessuno legge più perché distrutti dall'encomiastica dei critici letterari? Eliot è un poeta che rischia di soffrire, soprattutto nei paesi di lingua inglese, di questa sorta di reputazione: un grande di cui si sa già tutto senza nemmeno aprire un suo libro. Mal venga il centenario, che confermerà l' impressione che non c'è bisogno di leggerlo per sapere chi è.
Ma c'è un'altra celebre frase di Eliot che ci conforta sull'utilità dei centenari. Nel suo bel saggio Religione e letteratura (sul quale tutta la cultura laica, me compreso, si trova in ammirato disaccordo), Eliot scrive: “Non c'è mai stata un'epoca in cui coloro che leggono leggono molti più libri di autori viventi che libri di autori morti. Non c'è mai stato un tempo così totalmente parrocchiale, escluso dal suo passato”. Sono parole durissime, e la situazione è semmai peggiorata nei cinquant'anni intercorsi dalla scrittura di questo saggio. Si può sperare che un centenario qualsiasi centenario di un grande scrittore ci porti a rinunciare all'ultima novità da Yale o da Parigi e a riprendere in mano, per esempio, i saggi critici di quello che è stato, a mio avviso, il più grande critico letterario del secolo e uno dei più acuti analisti dei modi di conoscenza della letteratura e della poesia.
Classico in letteratura, monarchico in politica e anglo-cattolico in religione, il sorgere dell'ombra di Eliot al banchetto della nostra cultura fa drizzare i capelli ad animi più forti di quello di Macbeth. Il suo giudizio su singoli autori è ormai contestatissimo, e pochi accetterebbero oggi l'arroganza eliotiana verso la poesia di Wordsworth, la stroncatura di Shelley, la descrizione di Amleto come un fallimento artistico, e così via. Quanto al suo giudizio su Dante, ed al confronto fra Dante e Shakespeare (Shakespeare coprirebbe l' ampiezza delle passioni umane, mentre Dante perverrebbe alle massime altitudini ed alle massime profondità), direi che ha ancora un effetto deleterio sulla comprensione di Dante nei paesi di lingua inglese.
Ma ci sono alcune formule nel pensiero critico di Eliot che sono ormai acquisite nella cultura non solo inglese, ma europea: acquisite non nel senso che dobbiamo accettarle, ma che dobbiamo accettarle o rifiutarle; non possiamo ignorarle. Sono idee che fanno parte del nostro bagaglio intellettuale e che abbiamo assimilato direttamente o indirettamente attraverso gli altri critici che le hanno trasferite sino a noi: per esempio, il concetto di correlativo oggettivo, che comunica la passione o l'emozione dell'eroe attraverso avvenimenti esterni al suo intimo; l'idea della dissociazione della sensibilità nei poeti del Seicento; l'immagine del poeta impersonale, che deve intensificare il processo artistico e non mettere in evidenza la sua personalità o le sue emozioni; la fatale necessità del processo critico (inevitabile come l' atto di respirare); l'utilità del verso nell'azione drammatica per affrontare quei sentimenti che si colgono solo... con la coda dell'occhio senza poterli mai mettere a fuoco; il problema del significato di una poesia che serve soprattutto a tener contento il lettore, mentre il testo poetico lavora su di lui.
La forza di queste idee è anche forza di stile, concentrazione del ragionamento, folgorazione delle metafore. Impersonalità del poeta: il quale “agisce come un catalizzatore, come il filamento di platino che permette a due gas di combinarsi per formare acido solforico”. Il significato della poesia per placare l'ansia di comprensione del lettore: “come la polpetta di carne per il cane da guardia che il ladro da leggenda si porta sempre in tasca prima di entrare di soppiatto in una villa”. La differenza fra un conglomerato ed una raccolta di idee: “Henry James aveva una mente così fine che non poteva essere violata da nessuna idea, mentre il cervello di Chesterton ronza di nuove idee, ma non riesco a vedere una sola prova che sappia pensare”. In questo secolo solo Paul Valéry è un artista di uguale sapienza in queste formulazioni metaforiche.
La più grande, e per me la più indiscutibile tra le idee critiche di Eliot riguarda il concetto di tradizione. Il modo migliore di rievocarlo e di rendergli omaggio è citare quel memorabile paragrafo: “Ciò che avviene quando una nuova opera d'arte viene creata è qualche cosa che avviene simultaneamente a tutte le opere d'arte che l'hanno preceduta. I monumenti esistenti formano tra loro un ordine ideale che viene modificato dall' introduzione di un'opera d'arte nuova (veramente nuova). L'ordine esistente è completo prima dell'avvento del nuovo lavoro; perché l'ordine persista dopo l'intervento della novità, tutto l'ordine esistente deve essere alterato, sia pure in misura minima”. Qui la parola di Eliot mi sembra definitiva.
Eliot doveva essere un uomo insopportabile, intollerante, spiacevole, crudele, scostante, asociale (a parte il suo razzismo ed il suo antisemitismo): tutte le biografie e le memorie di chi lo ha conosciuto sembrano confermare questa impressione. Per me, quello che lo salva è il dono dell'understatement, questo miracolo della lingua e della conversazione inglese che Eliot, cittadino americano, imparò subito ad adoperare con autorità. Nel saggio intitolato Euripide ed il professor Murray Eliot fa riferimento a numerosi sociologi, antropologi, etnologi e studiosi di mitologia; e conclude: “M. Durkheim, con la sua coscienza sociale, e M. Lévy-Bruhl, con i suoi Indiani Bororo che riescono a convincersi di essere dei pappagalli, sono degli scrittori deliziosi” (il corsivo è mio). Dopo trent'anni di permanenza in Inghilterra, non ho ancora imparato l'arte dell'understatement, che permette ad Eliot di stroncare un autore con l'aggettivo ‘delizioso’.


“La Repubblica”,18 settembre 1988

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