Da “Repubblica” un altro degli
articoli per il centenario della nascita di Eliot, utilissima sintesi delle più
note formulazioni critiche del grande poeta e acuta interpretazione del suo
modo di leggere e giudicare. (S.L.L.)
Thomas S. Eliot in una caricatura di Pericoli |
Una volta che un poeta è
accettato come tale, è raro che la sua reputazione venga rimessa in
discussione, scriveva T.S. Eliot, che temeva questa prematura ossificazione
della fama; e, scrivendo su un poeta da lui molto amato, Ben Jonson, lamentava
il fatto che la reputazione dell'autore di Volpone
fosse del tipo fatale, quando si è accettati dall'universo mondo e dannati
dalla lode che spegne ogni desiderio di leggere i libri. La letteratura
italiana, ahimé, è ricca di poeti che soffrono della cospirazione dell'assenso:
chi ha mai dissentito circa il valore poetico di Petrarca, di Ariosto o di
Tasso, poeti che nessuno legge più perché distrutti dall'encomiastica dei
critici letterari? Eliot è un poeta che rischia di soffrire, soprattutto nei
paesi di lingua inglese, di questa sorta di reputazione: un grande di cui si sa
già tutto senza nemmeno aprire un suo libro. Mal venga il centenario, che confermerà
l' impressione che non c'è bisogno di leggerlo per sapere chi è.
Ma c'è un'altra celebre frase di
Eliot che ci conforta sull'utilità dei centenari. Nel suo bel saggio Religione e letteratura (sul quale tutta
la cultura laica, me compreso, si trova in ammirato disaccordo), Eliot scrive: “Non
c'è mai stata un'epoca in cui coloro che leggono leggono molti più libri di
autori viventi che libri di autori morti. Non c'è mai stato un tempo così
totalmente parrocchiale, escluso dal suo passato”. Sono parole durissime, e la
situazione è semmai peggiorata nei cinquant'anni intercorsi dalla scrittura di
questo saggio. Si può sperare che un centenario qualsiasi centenario di un
grande scrittore ci porti a rinunciare all'ultima novità da Yale o da Parigi e
a riprendere in mano, per esempio, i saggi critici di quello che è stato, a mio
avviso, il più grande critico letterario del secolo e uno dei più acuti
analisti dei modi di conoscenza della letteratura e della poesia.
Classico in letteratura,
monarchico in politica e anglo-cattolico in religione, il sorgere dell'ombra di
Eliot al banchetto della nostra cultura fa drizzare i capelli ad animi più
forti di quello di Macbeth. Il suo giudizio su singoli autori è ormai
contestatissimo, e pochi accetterebbero oggi l'arroganza eliotiana verso la
poesia di Wordsworth, la stroncatura di Shelley, la descrizione di Amleto come
un fallimento artistico, e così via. Quanto al suo giudizio su Dante, ed al
confronto fra Dante e Shakespeare (Shakespeare coprirebbe l' ampiezza delle
passioni umane, mentre Dante perverrebbe alle massime altitudini ed alle massime
profondità), direi che ha ancora un effetto deleterio sulla comprensione di
Dante nei paesi di lingua inglese.
Ma ci sono alcune formule nel
pensiero critico di Eliot che sono ormai acquisite nella cultura non solo
inglese, ma europea: acquisite non nel senso che dobbiamo accettarle, ma che
dobbiamo accettarle o rifiutarle; non possiamo ignorarle. Sono idee che fanno
parte del nostro bagaglio intellettuale e che abbiamo assimilato direttamente o
indirettamente attraverso gli altri critici che le hanno trasferite sino a noi:
per esempio, il concetto di correlativo oggettivo, che comunica la passione o
l'emozione dell'eroe attraverso avvenimenti esterni al suo intimo; l'idea della
dissociazione della sensibilità nei poeti del Seicento; l'immagine del poeta
impersonale, che deve intensificare il processo artistico e non mettere in
evidenza la sua personalità o le sue emozioni; la fatale necessità del processo
critico (inevitabile come l' atto di respirare); l'utilità del verso nell'azione
drammatica per affrontare quei sentimenti che si colgono solo... con la coda
dell'occhio senza poterli mai mettere a fuoco; il problema del significato di
una poesia che serve soprattutto a tener contento il lettore, mentre il testo
poetico lavora su di lui.
La forza di queste idee è anche
forza di stile, concentrazione del ragionamento, folgorazione delle metafore.
Impersonalità del poeta: il quale “agisce come un catalizzatore, come il
filamento di platino che permette a due gas di combinarsi per formare acido solforico”.
Il significato della poesia per placare l'ansia di comprensione del lettore: “come
la polpetta di carne per il cane da guardia che il ladro da leggenda si porta
sempre in tasca prima di entrare di soppiatto in una villa”. La differenza fra
un conglomerato ed una raccolta di idee: “Henry James aveva una mente così fine
che non poteva essere violata da nessuna idea, mentre il cervello di Chesterton
ronza di nuove idee, ma non riesco a vedere una sola prova che sappia pensare”.
In questo secolo solo Paul Valéry è un artista di uguale sapienza in queste
formulazioni metaforiche.
La più grande, e per me la più
indiscutibile tra le idee critiche di Eliot riguarda il concetto di tradizione.
Il modo migliore di rievocarlo e di rendergli omaggio è citare quel memorabile
paragrafo: “Ciò che avviene quando una nuova opera d'arte viene creata è
qualche cosa che avviene simultaneamente a tutte le opere d'arte che l'hanno
preceduta. I monumenti esistenti formano tra loro un ordine ideale che viene
modificato dall' introduzione di un'opera d'arte nuova (veramente nuova). L'ordine
esistente è completo prima dell'avvento del nuovo lavoro; perché l'ordine
persista dopo l'intervento della novità, tutto l'ordine esistente deve essere
alterato, sia pure in misura minima”. Qui la parola di Eliot mi sembra
definitiva.
Eliot doveva essere un uomo
insopportabile, intollerante, spiacevole, crudele, scostante, asociale (a parte
il suo razzismo ed il suo antisemitismo): tutte le biografie e le memorie di
chi lo ha conosciuto sembrano confermare questa impressione. Per me, quello che
lo salva è il dono dell'understatement,
questo miracolo della lingua e della conversazione inglese che Eliot, cittadino
americano, imparò subito ad adoperare con autorità. Nel saggio intitolato Euripide ed il professor Murray Eliot fa
riferimento a numerosi sociologi, antropologi, etnologi e studiosi di
mitologia; e conclude: “M. Durkheim, con la sua coscienza sociale, e M.
Lévy-Bruhl, con i suoi Indiani Bororo che riescono a convincersi di essere dei
pappagalli, sono degli scrittori
deliziosi” (il corsivo è mio). Dopo trent'anni di permanenza in Inghilterra,
non ho ancora imparato l'arte dell'understatement,
che permette ad Eliot di stroncare un autore con l'aggettivo ‘delizioso’.
“La Repubblica”,18 settembre 1988
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