Nei primi mesi dell’anno scorso
uscì per l’editore Canongate Books di Edimburgo un curioso repertorio dal
titolo The novel cure, con qualche
approssimazione, che si può rendere “La cura dei romanzi”. Consisteva
nell’indicazione per una lungo elenco alfabetico di malattie e disturbi,
fisici, psichici e ambientali, uno o più romanzi (o racconti), la cui lettura
potrebbe fungere da terapia.
Ne erano autrici Ella Berthoud e Susan Elderkin.
Sul finire dell’anno Sellerio ne ha pubblicato l’edizione italiana dal titolo Curarsi con i libri. Rimedi letterari per
ogni malanno. Non si tratta di una pura e semplice traduzione, ma di un
adattamento. Alle cure consigliate, infatti, se ne sono aggiunte altre, romanzi
e racconti d’autore italiano, a integrazione delle ‘voci’ già presenti o in
nuove voci. La traduzione dall’inglese è di Roberto Serrai, mentre la cura è
stata affidata a Fabio Stassi, autore delle integrazioni e di un introduzione
assai bella. Eccone la conclusione ‘italiana’:
“Nel tentativo di seguire i
frammenti di questo discorso letterario sulla malattia, mi sono ritrovato fra
le dita un filo comune che legava insieme tutti i nostri scrittori più
sensibili all’argomento. Quasi involontariamente, unendo tare, fissazioni e
difetti, si è disegnata da sé la mappa di un paese che soffre da secoli degli
stessi mali e delle stesse idiosincrasie. La peste della burocrazia, il
narcisismo, la deformità del potere, la falsificazione della Storia,
l’indecente e complice ammirazione della furbizia, il culto e l’esibizione
della virilità, l’ipnotico consenso a un capo, l’alfabeto del servilismo, lo
specchio delle dicerie, la fede nelle superstizioni, l’attitudine a restare
adolescenti, il senso di orfanezza, la meschineria infantile, l’ultima
sigaretta sempre rimandata, lo strabico sdoppiamento di personalità, la paura
di invecchiare, la tetra ossessione della lussuria. E’ stato come rinnovare un
breve ma riepilogativo viaggio nel cuore infermo della nazione, mettendo in
fila l’avidità di Mastro don Gesualdo, la vigliaccheria di don Abbondio,
l’impotenza del bell’Antonio…”.
Una conferma vistosa di questa
suggestiva ipotesi è in uno dei due testi indicati come rimedio alle Case di cura (Insofferenza per le). E’
un bozzetto “sanitario” di Dino Buzzati, I
sette piani, un realistico racconto del terrore e dell’orrore; ma a
leggerlo oggi appare una sorta di metafora di quanto collettivamente ci è
accaduto nella cosiddetta “Seconda repubblica”, una impietosa denuncia
dell’ottusità del potere e delle conseguenze nefaste del nostro servile ‘affidarci’.
Trattandosi di un testo abbastanza noto, immagino che ci siano tra i visitatori
di questo blog quelli che l’hanno letto. Invito anche loro a rileggerlo. Per questo
lo “posto” qui come appendice, sollecitando riflessioni. (S.L.L.)
Se l'ospedale o la clinica nella
quale siete ricoverati, vi sembreranno freddi, inospitali e deprimenti, prima
di varcarne la soglia introducete nella vostra valigia, tra il pigiama e il
dentifricio, un breve racconto di Dino Buzzati dal titolo I sette piani. In
una mattina di marzo, Giuseppe Corte giunse nella città dove c'era la famosa
casa di cura che si occupava esclusivamente della sua malattia. L'aveva già
vista in una circolare pubblicitaria e la riconobbe subito. Da fuori sembrava
un albergo, recintato dagli alberi. Mobili «chiari e lindi», poltrone di legno,
cuscini colorati, la lampadina sopra il capezzale e il personale gentile e
ciarliero. Seppe così, da un'infermiera, quanta razionalità e competenza
governava quel sanatorio, e la sua caratteristica: il settimo piano era
destinato alle forme leggerissime, il sesto ai malati meno gravi ma non
trascurabili, il quinto ospitava i casi più seri giù giù fino ai gravissimi del
secondo piano e a quelli per cui ormai era inutile sperare del primo. Questo
sistema era vantaggioso sotto molti punti di vista: creava in tutto l'edificio
un'atmosfera omogenea e salvaguardava gli assistiti dall'involontaria vicinanza
di qualche degente molto più grave. A Giuseppe Corte fu assegnata una camera
piena di luce al settimo piano, dalla cui finestra si poteva ammirare uno dei
quartieri più belli della città. Vi assicuriamo che alla fine della lettura di
questo racconto, accompagnando l'inesorabile discesa di Giuseppe Corte di
piano in piano fino all'oscurità definitiva del primo, la vostra stanza, anche
se con la vernice scrostata sui muri e i letti da caserma, vi apparirà una
eccellente ludoteca per bambini.
Fabio Stassi - In Curarsi con i libri, Sellerio, 2013
Fabio Stassi - In Curarsi con i libri, Sellerio, 2013
Dino Buzzati |
I sette piani
di Dino Buzzati
Dopo un giorno di viaggio in
treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c'era la
famosa casa di cura. Aveva un po' di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi
strada fra la stazione e l'ospedale, portandosi la sua valigetta. Benché avesse
soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato
consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che
quell'unica malattia. Ciò garantiva un'eccezionale competenza nei medici e la
più razionale ed efficace sistemazione d'impianti.
Quando lo scorse da lontano - e
lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria
- , Giuseppe Corte ebbe un'ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani
era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga
d'albergo. Tutt'attorno era una cinta di alti alberi.
Dopo una sommaria visita medica,
in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera
del settimo ed ultimo piano. I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria,
le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe. La vista
spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo,
ospitale e rassicurante.
Giuseppe Corte si mise subito a
letto e, accesa la lampadina sopra il capezzale, cominciò a leggere un libro
che aveva portato con sé... Poco dopo entrò un'infermiera per chiedergli se
desiderasse qualcosa...
Giuseppe Corte non desiderava
nulla ma si mise volentieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni
sulla casa di cura. Seppe così la strana caratteristica di quell'ospedale. I
malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo,
cioè l'ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati
non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e
così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al
primo, quelli per cui era inutile sperare.
Questo singolare sistema, oltre a
sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir
turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano
un'atmosfera omogenea. D'altra parte la cura poteva venir così graduata in modo
perfetto.
Ne derivava che gli ammalati
erano divisi in sette progressive caste.
Ogni piano era come un piccolo
mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E
siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia
pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore
generale avesse impresso all'istituto un unico fondamentale indirizzo.
Quando l'infermiera fu uscita,
Giuseppe Corte, sembrandogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la
finestra e guardò fuori, non per osservare il panorama della città, che pure
era nuovo per lui, ma nella speranza di scorgere, attraverso le finestre, altri
ammalati dei piani inferiori. La struttura dell'edificio, a grandi rientranze,
permetteva tale genere di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la
sua attenzione sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e
che si scorgevano solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. La
maggioranza erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli.
Il Corte si accorse che a una
finestra di fianco alla sua stava affacciato un uomo. I due si guardarono a
lungo con crescente simpatia, ma non sapevano come rompere il silenzio.
Finalmente Giuseppe Corte si fece coraggio e disse: "Anche lei sta qui da
poco?"
"Oh no - fece l'altro - sono
qui già da due mesi..." tacque qualche istante e poi, non sapendo come
continuare la conversazione, aggiunse: "Guardavo giù mio fratello."
"Suo fratello?"
"Sì." spiegò lo
sconosciuto. "Siamo entrati insieme, un caso veramente strano, ma lui è
andato peggiorando, pensi che adesso è già al quarto."
"Al quarto che cosa?"
"Al quarto piano"
spiegò l'individuo e pronunciò le due parole con una tale espressione di
commiserazione e di orrore, che Giuseppe Corte restò quasi spaventato.
"Ma son così gravi al quarto
piano?" domandò cautamente.
"Oh Dio" fece l'altro,
scuotendo lentamente la testa "non sono ancora così disperati, ma comunque
poco da stare allegri."
"Ma allora", chiese
ancora il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose
tragiche che non lo riguardano, "allora, se al quarto sono già così gravi,
al quinto chi mettono allora?"
"0h, al primo sono proprio i
moribondi. Laggiù i medici non hanno più niente da fare. C'è solo il prete che
lavora. E naturalmente..."
"Ma ce n'è pochi al primo
piano" interruppe Giuseppe Corte, come se gli premesse di avere una
conferma "quasi tutte le stanze sono chiuse laggiù."
"Ce n'è pochi, adesso, ma
stamattina ce n'erano parecchi" rispose lo sconosciuto con un sottile
sorriso. "Dove le persiane sono abbassate lì qualcuno è morto da poco. Non
vede, del resto, che negli altri piani tutte le imposte sono aperte? Ma mi
scusi, aggiunse ritraendosi lentamente "mi pare che cominci a far freddo.
Io ritorno in letto.
Auguri, auguri..."
L'uomo scomparve dal davanzale e
la finestra venne chiusa con energia; poi si vide accendersi dentro una luce.
Giuseppe Corte se ne stette ancora immobile alla finestra fissando le persiane
abbassate del primo piano. Le fissava con un'intensità morbosa, cercando di immaginare
i funebri segreti di quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano
confinati a morire; e si sentiva sollevato di sapersene cosi lontano. Sulla
città scendevano intanto le ombre della sera. Ad una ad una le mille finestre
del sanatorio si illuminavano, da lontano si sarebbe potuto pensare a un
palazzo in festa. Solo al primo piano, laggiù in fondo al precipizio, decine e
decine di finestre rimanevano cieche e buie.
Il risultato della visita medica
generale rasserenò Giuseppe Corte. Incline di solito a prevedere il peggio,
egli si era già in cuor suo preparato a un verdetto severo, e non sarebbe
rimasto sorpreso se il medico gli avesse dichiarato di doverlo assegnare al
piano inferiore. La febbre infatti non accennava a scomparire, nonostante le
condizioni generali si mantenessero buone. Invece il sanitario gli rivolse
parole cordiali e incoraggianti. Un principio di male c'era - gli disse - ma
leggerissimo; in due o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato.
"E allora resto al settimo
piano?" aveva domandato ansiosamente Giuseppe Corte a questo punto.
"Ma naturalmente!" gli
aveva risposto il medico battendogli amichevolmente una mano su una spalla. E
dove pensava di dover andare? Al quarto forse? chiese ridendo, come per
alludere alla ipotesi più assurda.
"Meglio così, meglio
così!" fece il Corte. "Sa? Quando si è ammalati si immagina sempre il
peggio".
Giuseppe Corte infatti rimase
nella stanza che gli era stata assegnata originariamente. Imparò a conoscere
alcuni dei suoi compagni di ospedale, nei rari pomeriggi in cui gli veniva
concesso d'alzarsi. Seguì scrupolosamente la cura, mise tutto l'impegno a
guarire rapidamente, ma ciononostante le sue condizioni pareva rimanessero
stazionarie.
Erano passati circa dieci giorni,
quando a Giuseppe Corte si presentò il capo-infermiere del settimo piano. Aveva
da chiedere un favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva
entrare all'ospedale una signora con due bambini; due camere erano, libere,
proprio di fianco alla sua, ma mancava la terza; non avrebbe consentito il
signor Corte a trasferirsi in un'altra camera, altrettanto confortevole?
Giuseppe Corte non fece naturalmente nessuna difficoltà; una camera o un'altra
per lui erano lo stesso; gli sarebbe anzi toccata forse una nuova e più
graziosa infermiera.
"La ringrazio di
cuore", fece allora il capo-infermiere con un leggero inchino; da una
persona come lei le confesso non mi stupisce un così gentile atto di
cavalleria. Fra un'ora, se lei non ha nulla in contrario, procederemo al trasloco.
Guardi che bisogna scendere al piano di sotto" aggiunse con voce attenuata
come se si trattasse di un particolare assolutamente trascurabile.
"Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere libere. Ma è una
sistemazione assolutamente provvisoria, " si affrettò a specificare
vedendo che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto
di protesta, "una sistemazione assolutamente provvisoria. Appena resterà
libera una stanza, e credo che sarà fra due o tre giorni, lei potrà tornare di
sopra."
"Le confesso", disse
Giuseppe Corte sorridendo, per dimostrare di non essere un bambino "le
confesso che un trasloco di questo genere non mi piace affatto."
"Ma non ha alcun motivo
medico questo trasloco; capisco benissimo quello che lei intende dire, si
tratta unicamente di una cortesia a questa signora che preferisce non rimaner
separata dai suoi bambini... Per carità", aggiunse ridendo apertamente
"non le venga neppure in mente che ci siano altre ragioni".
"Sarà", disse Giuseppe
Corte "ma mi sembra di cattivo augurio".
Corte così passò al sesto piano,
e sebbene fosse convinto che questo trasloco non corrispondesse a un
peggioramento del male, si sentiva a disagio al pensiero che tra lui e il mondo
normale, della gente sana, già si frapponesse un netto ostacolo. Al settimo
piano, porto d'arrivo, si era in un certo modo ancora in contatto con il
consorzio degli uomini; esso si poteva anzi considerare quasi un prolungamento
del mondo abituale. Ma al sesto già si entrava nel corpo autentico dell'ospedale;
già la mentalità dei medici, delle infermiere e degli stessi ammalati era
leggermente diversa. Già si ammetteva che a quel piano venivano accolti dei
veri e propri ammalati, sia pure in forma non grave. Dai primi discorsi fatti
con i vicini di stanza, con il personale e con i sanitari, Giuseppe Corte si
accorse come in quel reparto, il settimo piano venisse considerato come uno
scherzo, riservato ad ammalati dilettanti, affetti più che altro da fisime;
solo dal sesto, per così dire, si cominciava davvero.
Comunque Giuseppe Corte capì che
per tornare di sopra, al posto che gli competeva per le caratteristiche del suo
male, avrebbe certamente incontrato qualche difficoltà; per tornare al settimo
piano, egli doveva mettere in moto un complesso organismo, sia pure per un
minuto sforzo; non c'era dubbio che se egli non avesse fiatato, nessuno avrebbe
pensato a trasferirlo di nuovo al piano superiore dei "quasi-sani".
Giuseppe Corte si propose perciò
di non transigere sui suoi diritti e di non cedere alle lusinghe
dell'abitudine. Ai compagni di reparto teneva molto a specificare che trovarsi
con loro, soltanto per pochi giorni, ch'era stato lui a voler scendere d'un
piano per fare un piacere a una signora, e che appena fosse rimasta libera una
stanza sarebbe tornato di sopra. Gli altri lo ascoltavano senza interesse e
annuivano con scarsa convinzione.
II convincimento di Giuseppe
Corte trovò piena conferma nel giudizio del nuovo medico. Anche questi
ammetteva che Giuseppe Corte poteva benissimo essere assegnato al settimo
piano; la sua forma era as-so-lu-ta-men-te leg-ge-ra e scandiva tale
definizione per darle importanza - ma in fondo riteneva che al sesto piano
Giuseppe Corte forse potesse essere meglio curato.
"Non cominciamo con queste
storie", interveniva a questo punto il malato con decisione. "Lei mi
ha detto che il settimo piano è il mio posto e voglio ritornarci".
"Nessuno ha detto il
contrario". ribatteva il dottore "il mio era un puro e semplice
consiglio non da dot-to-re, ma da au-ten-ti-co a-mi-co! La sua forma, le
ripeto, è leggerissima, non sarebbe esagerato dire che lei non è nemmeno
ammalato, ma secondo me si distingue da forme analoghe per una certa maggiore
estensione. Mi spiego: l'intensità del male è minima, ma considerevole
l'ampiezza; il processo distruttivo delle cellule" (era la prima volta che
Giuseppe Corte sentiva là dentro quella sinistra espressione "il processo
distruttivo delle cellule") è assolutamente agli inizi, forse non è
neppure cominciato, ma tende, dico, solo tende, a colpire contemporaneamente
vaste porzioni dell'organismo. Solo per questo, secondo me, lei può essere
curato più efficacemente qui, al sesto, dove i metodi terapeutici sono più
tipici ed intensi. Un giorno gli fu riferito che il direttore generale della
casa di cura, dopo essersi lungamente consultato con i suoi collaboratori,
aveva deciso un mutamento nella suddivisione dei malati. Il grado di ciascuno
di essi - per così dire - veniva ribassato di un mezzo punto. Ammettendosi che
in ogni piano gli ammalati fossero divisi, a seconda della loro gravità, in due
categorie, (questa suddivisione veniva effettivamente fatta dai rispettivi
medici, ma ad uso esclusivamente interno) l'inferiore di queste due metà veniva
d'ufficio traslocata a un piano più basso. Ad esempio, la metà degli ammalati
del sesto piano, quelli con forme leggermente più avanzate, dovevano passare al
quinto; e i meno leggeri del settimo piano passare al sesto. La notizia fece
piacere a Giuseppe Corte, perché in un così complesso quadro di traslochi, il
suo ritorno al settimo piano sarebbe riuscito assai più facile.
Quando accennò a questa sua
speranza con l'infermiera egli ebbe però un'amara sorpresa. Seppe cioè che egli
sarebbe stato traslocato, ma non al settimo, bensì al piano di sotto. Per motivi
che l'infermiera non sapeva spiegargli, egli era stato compreso nella metà più
"grave" degli ospiti del sesto piano e doveva perciò scendere al
quinto.
Passata la prima sorpresa,
Giuseppe Corte andò in furore; gridò che lo truffavano, che non voleva sentir
parlare di altri traslochi in basso, che se ne sarebbe tornato a casa, che i
diritti erano diritti e che l'amministrazione dell'ospedale non poteva
trascurare così sfacciatamente le diagnosi dei sanitari.
Mentre egli ancora gridava arrivò
il medico per tranquillizzarlo. Consigliò al Corte di calmarsi se non avesse
voluto veder salire la febbre, gli spiegò che era successo un malinteso, almeno
parziale. Ammise ancora una volta che Giuseppe Corte sarebbe stato al suo
giusto posto se lo avessero messo al settimo piano, ma aggiunse di avere sul
suo caso un concetto leggermente diverso, se pure personalissimo. In fondo in
fondo la sua malattia poteva, in un certo senso s'intende, essere anche
considerata di sesto grado, data l'ampiezza delle manifestazioni morbose. Lui
stesso però non riusciva a spiegarsi come il Corte fosse stato catalogato nella
metà inferiore del sesto piano. Probabilmente il segretario della direzione,
che proprio quella mattina gli aveva telefonato chiedendo l'esatta posizione
clinica di Giuseppe Corte, si era sbagliato nel trascrivere. o meglio la
direzione aveva di proposito leggermente "peggiorato" il suo
giudizio, essendo egli ritenuto un medico esperto ma troppo indulgente. Il
dottore infine consigliava il Corte a non inquietarsi, a subire senza proteste
il trasferimento; quello che contava era la malattia, non il posto in cui
veniva collocato un malato.
Per quanto si riferiva alla cura
- aggiunse ancora il medico - Giuseppe Corte non avrebbe poi avuto da
rammaricarsi; il medico del piano di sotto aveva certo più esperienza; era
quasi dogmatico che l'abilità dei dottori andasse crescendo, almeno a giudizio
della direzione, man mano che si scendeva. La camera era altrettanto comoda ed
elegante. La vista ugualmente spaziosa: solo dal terzo piano in giù la visuale
era tagliata dagli alberi di cinta.
Giuseppe Corte, in preda alla
febbre serale, ascoltava ascoltava le meticolose giustificazioni con una
progressiva stanchezza. Alla fine si accorse che gli mancavano la forza e
soprattutto la voglia di reagire ulteriormente all'ingiusto trasloco. E senza
altre proteste si lasciò portare al piano di sotto.
L'unica, benché povera,
consolazione di Giuseppe Corte, una volta che si trovò al quinto piano, fu di
sapere che per giudizio concorde di medici, di infermieri e ammalati, egli era
in quel reparto il menu grave di tutti. Nell'ambito di quel piano insomma egli
poteva considerarsi di gran lunga il più fortunato. Ma d'altra parte lo
tormentava il pensiero che oramai ben due barriere si frapponevano fra lui e il
mondo della gente normale.
Procedendo la primavera, l'aria
intanto si faceva più tepida, ma Giuseppe Corte non amava più come nei primi
giorni affacciarsi alla finestra; benché un simile timore fosse una pura
sciocchezza, egli si sentiva rimescolare tutto da uno strano brivido alla vista
delle finestre del primo piano, sempre nella maggioranza chiuse, che si erano
fatte assai più vicine.
Il suo male sembrava stazionario.
Dopo tre giorni di permanenza al quinto piano, si manifestò anzi sulla gamba
destra una specie di eczema che non accennò a riassorbirsi nei giorni
successivi. Era un'affezione - gli disse il medico - assolutamente indipendente
dal male principale; un disturbo che poteva capitare alla persona più sana del
mondo. Ci sarebbe voluta, per eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di
raggi digamma.
"E non si possono avere qui
i raggi digamma?", chiese Giuseppe Corte.
"Certamente" rispose
compiaciuto il medico, "il nostro ospedale dispone di tutto. C'è un solo
inconveniente....
"Che cosa?" fece il
Corte con un vago presentimento.
"Inconveniente per modo di
dire". si corresse il dottore, "volevo dire che l'installazione per i
raggi si trova soltanto al quarto piano e io le sconsiglierei di fare tre volte
al giorno un simile tragitto".
"E allora niente?"
"Allora sarebbe meglio che
fino a che l'espulsione non sia passata lei avesse la compiacenza di scendere
al quarto."
"Basta!" urlò allora
esasperato Giuseppe Corte. Ne ho già abbastanza di scendere! Dovessi crepare,
al quarto non ci vado!"
"Come lei crede" fece
conciliante il medico per non irritarlo "come medico curante, badi che le
proibisco di andar da basso tre volte al giorno".
Il brutto fu che l'eczema, invece
di attenuarsi, andò lentamente ampliandosi. Giuseppe Corte non riusciva a
trovare requie e continuava a rivoltarsi nel letto. Durò così, rabbioso, per
tre giorni, fino a che dovette cedere. Spontaneamente pregò il medico di fargli
praticare la cura dei raggi e di essere trasferito al piano inferiore.
Quaggiù il Corte notò, con
inconfessato piacere, di rappresentare un'eccezione. Gli altri ammalati del
reparto erano decisamente in condizioni molto serie e non potevano lasciare
neppure per un minuto il letto. Egli invece poteva prendersi il lusso di
raggiungere a piedi, dalla sua stanza, la sala dei raggi, fra i complimenti e
la meraviglia delle stesse infermiere.
Al nuovo medico, egli precisò con
insistenza la sua posizione specialissima. Un ammalato che in fondo aveva
diritto al settimo piano veniva a trovarsi al quarto. Appena l'espulsione fosse
passata, egli intendeva ritornare di sopra. Non avrebbe assolutamente ammesso
alcuna nuova scusa. Lui, che sarebbe potuto trovarsi legittimamente ancora al
settimo.
"Al settimo, al
settimo!." esclamò sorridendo il medico, che finiva proprio allora di
visitarlo. Sempre esagerati voi ammalati. Sono il primo io a dire che lei può
essere contento del suo stato; a quanto vede, dalla tabella clinica, grandi
peggioramenti non ci sono stati. Ma da questo a parlare di settime, piano - mi
scusi la brutale sincerità - c'è una certa differenza! Lei è uno dei casi meno
preoccupanti, ne convengo io, ma è pur sempre un ammalato!"
"E allora, allora" fece
Giuseppe Corte accendendosi tutto nel volto, "lei a che piano mi
metterebbe?"
"0h, Dio, non è facile dire,
non le ho fatto che una breve visita, per poter pronunciarmi dovrei seguirla
per almeno una settimana."
"Va bene" insistette
Corte "ma pressapoco lei saprà"
Il medico per tranquillizzarlo,
fece finta di concentrarsi un momento in meditazione e poi, annuendo con il
capo a se stesso, disse lentamente: "Oh Dio, proprio per accontentarla,
ecco, ma potremo in fondo metterla al sesto!"
"Sì sì" aggiunse come
per persuadere se stesso. "Il sesto potrebbe andar bene."
II dottore credeva così di far
lieto il malato. Invece sul volto di Giuseppe Corte si diffuse un'espressione
di sgomento: si accorgeva, il malato, che i medici degli ultimi piani l'avevano
ingannato; ecco, qui questo nuovo dottore, evidentemente più abile e più
onesto, che in cuor suo - era evidente - lo assegnava, non al settimo, ma al
quinto piano, e forse al quinto inferiore! La delusione inaspettata prostrò il
Corte. Quella sera la febbre salì sensibilmente. La permanenza al quarto piano
segnò il periodo più tranquillo passato da Giuseppe Corte dopo l'entrata
all'ospedale.
Il medico era persona
simpaticissima, premurosa e cordiale; si tratteneva spesso anche per delle ore
intere a chiacchierare degli argomenti più svariati. Giuseppe Corte discorreva
pure molto volentieri, cercando argomenti che riguardassero la sua solita vita
d'avvocato e d'uomo di mondo. Egli cercava di persuadersi di appartenere ancora
al consorzio degli uomini sani, di essere ancora legato al mondo degli affari,
di interessarsi veramente dei fatti pubblici. Cercava, senza riuscirvi.
Invariabilmente il discorso finiva sempre per cadere sulla malattia.
Il desiderio di un miglioramento
qualsiasi era divenuto in Giuseppe Corte un'ossessione. Purtroppo i raggi
digamma, se erano riusciti ad arrestare il diffondersi dell'espulsione cutanea,
non erano bastati ad eliminarla. Ogni giorno Giuseppe Corte ne parlava
lungamente col medico e si sforzava in questi colloqui di mostrarsi forte, anzi
ironico, senza mai riuscirvi.
"Mi dica, dottore. disse un
giorno, come va il processo distruttivo delle mie cellule?"
"0h, ma che brutte
parole!" lo rimproverò scherzosamente il dottore. "Dove mai le ha
imparate? Non sta bene, non sta bene, soprattutto per un malato! Mai più voglio
sentire da lei discorsi simili"
"Va bene" obiettò il
Corte "ma così lei non mi ha risposto"
"0h, le rispondo
subito" fece il dottore cortese. "Il processo distruttivo delle
cellule, per ripetere la sua orribile espressione, è, nel suo caso minimo,
assolutamente minimo. Ma sarei tentato di definirlo ostinato"
"Ostinato, cronico vuol
dire?"
"Non mi faccia dire quello
che non ho detto. lo voglio dire soltanto ostinato. Del resto sono così la
maggioranza dei casi. Affezioni anche lievissime spesso hanno bisogno di cure
energiche e lunghe"
"Ma mi dica, dottore, quando
potrò sperare in un miglioramento?"
"Quando? Le predizioni in
questi casi sono piuttosto difficili... Ma senta" aggiunse dopo una pausa
meditativa "vedo che lei ha una vera e propria smania di guarire... se non
temessi di farla arrabbiare, sa che cosa le consiglierei?"
"Ma dica, dica pure,
dottore...."
"Ebbene, le pongo la
questione in termini molto chiari. Se io, colpito da questo male in forma anche
tenuissima, capitassi in questo sanatorio, che è forse il migliore che esista,
mi farei assegnare spontaneamente, e fin dal primo giorno, fin dal prima
giorno, capisce? a uno dei piani più bassi. Mi farei mettere addirittura
al...."
"Al primo?" suggerì con
uno sforzato sorriso il Corte.
"Oh no! al primo no!"
rispose ironico il medico, "questo poi no! Ma al terzo o anche al secondo
di certo. Nei piani inferiori la cura è fatta molto meglio, le garantisco, gli
impianti sono più completi e potenti, il personale è più abile. Lei sa poi chi
è l'anima di questo ospedale?"
"Non è il professor
Dati?"
"Già il professor Dati. E'
lui I'inventore della cura che qui si pratica, lui il progettista dell'intero
impianto. Ebbene, lui, il maestro, sta, per così dire, fra il primo e il
secondo piano. Di là irraggia la sua forza direttiva. Ma, glielo garantisco io,
il suo influsso non arriva oltre al terzo piano; più in là si direbbe che gli
stessi suoi ordini si sminuzzino, perdano di consistenza, deviino; il cuore
dell'ospedale è in basso e in basso bisogna stare per avere le cure
migliori"
"Ma insomma" fece
Giuseppe Corte con voce tremante, "allora lei mi consiglia ..."
"Aggiunga una cosa"
continuò imperterrito il dottore "aggiunga che nel suo caso particolare ci
sarebbe da badare anche all'espulsione. Una cosa di nessuna importanza ne
convengo, ma piuttosto noiosa, che a lungo andare potrebbe deprimere il suo
"morale"; e lei sa quanto è importante per la guarigione la serenità
di spirito. Le applicazioni di raggi che io le ho fatte sono riuscite solo a
metà fruttuose. Il perché può darsi che sia un puro caso, ma può darsi anche
che i raggi non siano abbastanza intensi. Ebbene, al terzo piano le macchine
dei raggi sono molto più potenti. Le probabilità di guarire il suo eczema
sarebbero molto maggiori. Poi vede? una volta avviata la guarigione, il passo
più difficile è fatto. Quando si comincia a risalire, è poi difficile tornare
ancora indietro. Quando lei si sentirà davvero meglio, allora nulla impedirà
che lei risalga qui da noi o anche più in su, secondo i suoi "meriti"
anche al quinto, al sesto, persino al settimo oso dire"
"Ma lei crede che questo
potrà accelerare la cura?"
"Ma non ci può essere
dubbio. Le ho già detto che cosa farei io nei suoi panni"
Discorsi di questo genere il
dottore ne faceva ogni giorno a Giuseppe Corte. Venne infine il momento in cui
il malato, stanco di patire per l'eczema, nonostante l'istintiva riluttanza a
scendere, decise di seguire il consiglio del medico e si trasferì al piano di
sotto.
Notò subito al terzo piano che
nel reparto 'regnava una speciale gaiezza', sia nel medico, sia nelle
infermiere, sebbene laggiù fossero in cura ammalati molto preoccupanti. Si
accorse anzi che di giorno in giorno questa gaiezza andava aumentando:
incuriosito, dopo che ebbe preso un po' di confidenza con l'infermiera, domandò
come mai fossero tutti così allegri.
"Ah, non lo sa?" rispose
l'infermiera "fra tre giorni andiamo in vacanza"
"Come andiamo in
vacanza?"
"Ma sì. Per quindici giorni,
il terzo piano si chiude e il personale se ne va a spasso. Il riposo tocca a
turno ai vari piani"
"E i malati? come
fate?"
"Siccome ce n'è relativamente
pochi, di due piani se ne fa uno solo.."
"Come? riunite gli ammalati
del terzo e del quarto?"
"No, no" corresse
l'infermiera "del terzo e del secondo. Quelli che sono qui dovranno
discendere da basso"
"Discendere al
secondo?" fece Giuseppe Corte, pallido come un morto. "lo dovrei cosi
scendere al secondo?"
"Ma certo. E che cosa c'è di
strano? Quando torniamo, fra quindici giorni, lei ritornerà in questa stanza.
Non mi pare che ci sia da spaventarsi"
Invece Giuseppe Corte - un
misterioso istinto lo avvertiva - fu invaso da una crudele paura. Ma, visto che
non poteva trattenere il personale dall'andare in vacanza, convinto che la
nuova cura coi raggi più intensi gli facesse bene - l'eczema si era quasi
completamente riassorbita - egli non osò muovere formale opposizione al nuovo
trasferimento. Pretese però, incurante dei motteggi delle infermiere, che sulla
porta della sua nuova stanza fosse attaccato un cartello con su scritto
"Giuseppe Corte, del terzo piano, di passaggio". Una cosa simile non
trovava precedenti nella storia del sanatorio, ma i medici non si opposero,
pensando che in un temperamento nervoso quale il Corte anche una piccola
contrarietà potesse provocare una grave scossa. Si trattava in fondo di
aspettare quindici giorni non uno di più, non uno di meno. Giuseppe Corte si
mise a contarli con avidità ostinata, restando per delle ore intere immobile
sul letto, con gli occhi fissi sui mobili, che al secondo piano non erano più
così moderni e gai come nei reparti superiori, ma assumevano dimensioni più
grandi e linee più solenni e severe. E di tanto in tanto aguzzava le orecchie
poiché gli pareva di udire dal piano di sotto, il piano dei moribondi, il
reparto dei "condannati", vaghi rantoli di agonie.
Tutto questo naturalmente
contribuiva a scoraggiarlo. E la minore serenità sembrava aiutare la malattia,
la febbre tendeva a salire, la debolezza generale si faceva più fonda. Dalla
finestra - si era oramai in piena estate e i vetri si tenevano quasi sempre
aperti - non si scorgevano più i tetti e neppure le case della città, ma
soltanto la muraglia verde degli alberi che circondavano l'ospedale.
Dopo sette giorni, un pomeriggio
verso le due, entrarono improvvisamente il capo-infermiere e tre infermieri,
che spingevano un lettuccio a rotelle.
"Siamo pronti per il
trasloco?" domandò in tono di bonaria celia il capo-infermiere.
"Che trasloco?" domandò
con voce stentata Giuseppe Corte "che altri scherzi sono questi? Non
tornano fra sette giorni quelli del terzo piano?"
"Che terzo piano?"
disse il capo-infermiere come se non capisse "io ho avuto l'ordine di
condurla al primo, guardi qua." e fece vedere un modulo stampato per il
passaggio al piano inferiore firmato nientemeno che dallo stesso professore
Dati.
Il terrore, la rabbia infernale
di Giuseppe Corte esplosero allora in lunghe irose grida che si ripercossero
per tutto il reparto. "Adagio, adagio per carità", supplicarono gli
infermieri "ci sono dei malati che non stanno bene". Ma ci voleva
altro per calmarlo. Finalmente accorse il medico che dirigeva il reparto, una
persona gentilissima e molto educata. Si informò, guardò il modulo, si fece
spiegare dal Corte. Poi si rivolse incollerito al capo-infermiere, dichiarando
che c'era stato uno sbaglio, lui non aveva dato alcuna disposizione del genere,
da qualche tempo c'era un'insopportabile confusione, lui veniva tenuto
all'oscuro d tutto... Infine, detto il fatto suo al dipendente, si rivolse, in
tono cortese, al malato, scusandosi profondamente. "Purtroppo però"
aggiunse il medico "purtroppo il professor Dati proprio un'ora fa è
partito, per una breve licenza, non tornerà che fra due giorni. Sono
assolutamente desolato, ma i suoi ordini non possono essere trasgrediti. Sarà
lui il primo a rammaricarsene, glielo garantisco... un errore simile! Non
capisco come possa essere accaduto!"
Ormai un pietoso tremito aveva
preso a scuotere Giuseppe Corte. La capacità di dominarsi gli era completamente
sfuggita. Il terrore l'aveva sopraffatto come un bambino. I suoi singhiozzi
risuonavano lenti e disperati per la stanza.
Giunse così, per quell'esecrabile
errore, all'ultima stazione. Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per
la gravità del male, a giudizio anche dei medici più severi, aveva il diritto
di essere assegnato al sesto, se non al settimo piano! La situazione era
talmente grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia
di sghignazzare senza ritegno.
Disteso nel letto, mentre il
caldo pomeriggio dell'estate passava lentamente sulla grande città, egli
guardava il verde degli alberi attraverso la finestra con l'impressione di
esser giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a piastrelle
sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di
anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di
scorgere attraverso la finestra non fossero veri; finì anzi per convincersene,
notando che le foglie non si muovevano affatto.
Questa idea lo agitò talmente,
che il Corte chiamò col campanello l'infermiera e si fece porgere gli occhiali
da miope, che in letto non adoperava; solo allora riuscì a tranquillizzarsi un
poco: con l'aiuto delle lenti poté assicurarsi che erano proprio alberi veri e
che le foglie, sia pur leggermente, ogni tanto erano mosse dal vento.
Uscita che fu l'infermiera, passò
un quarto d'ora di completo silenzio. Sei piani, sei terribili muraglie, sia
pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile
peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni
egli sarebbe riuscito a risalire fino all'orlo di quel precipizio?
Ma come mai la stanza si faceva
improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo
supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore,
guardò l'orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo.
Voltò il capo dall'altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a
un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.
da Dino Buzzati, La boutique del mistero, Oscar Mondadori
2006
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