13.1.14

Sciascia 67. L'autonomia siciliana è un fallimento...e un modello (S.L.L.)

Il 13 gennaio del 1967 il Circolo “Labriola” di Palermo, animato da Mario Mineo, e sostenuto per l'occasione da un comitato di personalità della cultura siciliana (tra di loro Carlo Doglio, Beppe Fazio, Massimo Ganci, Antonio Guccione-Monroy , Giuseppe Montalbano, Leonardo Sciascia e Vincenzo Tusa), organizzò una sorta di “controcelebrazione” dei vent’anni dell’autonomia regionale siciliana, il cui bilancio veniva, senza mezzi termini, definito fallimentare. 
L’obiettivo non era solo di denunciare le pesanti responsabilità dei partiti di governo ma anche quelle, giudicate “altrettanto gravi”, dell’opposizione di sinistra, all’epoca rappresentata dal Pci e dal Psiup. Si voleva sollecitare una azione degli intellettuali più avanzati per “una rinnovata coscienza di che cosa si debba intendere per opposizione di sinistra in una situazione di ambiguità politica come l’attuale”.
Una delle relazioni fu affidata a Leonardo Sciascia e ne fu distribuita una breve sintesi dattiloscritta, poi pubblicata nell'appendice al volume di Scritti sulla Sicilia di Mario Mineo (a cura di Violante e Castiglione, Flaccovio 1995).
La relazione accenna ad alcune ragioni “esterne” del fallimento dell’Autonomia. Per esempio alla difficile integrazione di una Regione autonoma in uno Stato che al tempo restava di fatto e, in gran parte anche di diritto, rigidamente centralista. O il sacrificio delle regioni ad economia agraria arretrata nel mercato comune europeo da poco costituito. Ma la parte più interessante riguarda le cause “interne” del fallimento, interne al modo di intendere e realizzare il principio autonomistico e interne alla natura delle classi dominanti e dei ceti dirigenti nell’isola e nella penisola. Dice Sciascia: 
“Contro ogni intendimento corrente e corretto del concetto di autonomia, quella siciliana è stata intesa non come un decentramento del potere e una più diretta partecipazione di una comunità regionale allo Stato, ma come una moltiplicazione del potere e la creazione di una specie di grado di allontanamento della comunità regionale dallo Stato. In ciò la complicità tra la classe politica nazionale e quella regionale è stata assoluta e indissolubile (non escluse le opposizioni). D'altra parte, bisogna convenire, la storia del nostro paese, la qualità della sua classe dirigente, il costume (malcostume) politico, tutto insomma portava a concepire le autonomie come moltiplicazioni del potere”.
Sciascia non si dichiara, in assoluto, contro l'autonomia, ma non si sente di difendere l’autonomia così com’è, considerandola sostanzialmente irriformabile: 
“Quando dico che non vedo una seria prospettiva di rilancio intendo dire che non la vedo nell'ordine delle cose. O meglio: nel disordine delle cose, che non pare sia destinato a mutare nel giro, che sarà quello climaterico, della prossima legislatura. Più che climaterico, anzi: entro i prossimi cinque anni, l'istituto autonomistico sarà una specie di fossile politico-burocratico (ma si dia al termine politico il senso del politicantismo deteriore); una specie di ministero per l'Africa italiana (la cui esistenza, com'è noto, andò oltre la liquidazione dell'ultimo scampolo d'Africa italiana). Una incongrua sopravvivenza, insomma”. 
La riflessione “congiunturale” di Sciascia si proietta peraltro nel futuro e il giudizio di Sciascia appare profetico: a cinquant’anni di distanza anche le Regioni a Statuto ordinario, dopo tante riforme “federaliste”, più che portare a una più diretta partecipazione delle comunità regionali allo Stato, hanno moltiplicato a dismisura i centri di potere, di spreco e di spesa. La Sicilia ha dunque fatto scuola. Conclude Sciascia: 
“Bisogna però riconoscere che la Regione siciliana è stata, nella vita italiana di questi ultimi vent'anni, un gran banco di prova. E se è fallita nelle esigenze cui doveva rispondere, nei problemi che doveva risolvere; se soprattutto è fallita nel non essere riuscita a mettere i siciliani di fronte alle proprie responsabilità — certo è che invece è riuscita ad una così perfetta esperienza del sottogoverno per cui l'Italia intera è oggi sottogovernata con esemplare sistematicità”. 
E’ ancor oggi così.

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