La forza d’essere
anti intellettuale
Trent’anni fa proposi
a Elvira Sellerio una traduzione del più importante pamphlet
dell’Atene classica, la cosiddetta Costituzione degli Ateniesi,
con un titolo suggeritomi dal compianto e pugnace Lino Micciché: La
democrazia come violenza. Einaudi aveva avuto molteplici
contorsioni di fronte a quel testo essenziale e sferzante. Elvira
Sellerio lo accolse subito nella «Memoria». Molto dopo mi disse:
«Naturalmente è il testo di un autore moderno!». Era solo in
superficie un «errore». L’editrice, così strutturalmente anti
intellettualistica, coglieva la sostanza della questione: che cioè
quel libello del tardo V secolo a.C. dice ancora oggi a noi
l’essenziale sulla «democrazia».
Così nacque la nostra
reciproca stima e, da parte mia, ammirazione. Ricordo la disarmante
domanda: «È importante questa cosa che lei vuole mettere in una
nota?» (Si trattava del lungo lavoro per La sentenza, sulla
uccisione di Gentile: un libro che le deve moltissimo). Risposi di
sì. «E allora perché non lo diciamo nel testo? I suoi antichi non
mi pare che mettessero le note!».
Vestendosi di «socratica»
ignoranza insegnava un po’ di mestiere agli autori. I Greci erano
una sua passione. Perciò volle una traduzione completa di Diodoro di
Sicilia, dopo aver letto le sue pagine grandi e atroci sulla rivolta
degli schiavi in Sicilia. E volle che nascesse una collana, che
tuttora vive, «La città antica», dove accogliere testi non triti,
corredati di sussidi essenziali. Attraverso la sua collana
prediletta, «La memoria», coltivava i legami che non possono
spezzarsi. Penso ai numeri di quella collana, lasciati in bianco in
memoria di Sciascia. E non posso non esserle grato per avervi accolto
il Lessing postumo di mio padre.
Corriere della Sera, 4
agosto 2010
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