Riprendo qui il racconto
del periodo tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, fatto dal
comandante partigiano Massimo Rendina, uno dei protagonisti della
Resistenza, raccolto da Sandro Portelli in una intervista (parte di
una lunga narrazione che va dall’infanzia veneziana
all’antifascismo dei nostri giorni) presso la Casa della memoria e
della Storia di Roma, di cui Rendina era stato un fondatore. Il testo
è stato pubblicato sul “manifesto” in febbraio a pochi giorni
dalla morte di Rendina. (S.L.L.)
Il comandante partigiano Max Rendina |
«Ero tornato a Bologna
dalla Russia indignato contro il fascismo perché i miei soldati li
aveva mandati a morire, senza armi, senza niente, e ripresi a
lavorare al Resto del Carlino. L’8 settembre andai a trovare i miei
genitori a Torino, ma quel giorno i tedeschi entrarono a Torino. Li
vidi entrare, erano molto belli negli impermeabili verdi, mi
impressionò la differenza con il nostro esercito scalcinato. E
c’erano delle donne che urlavano, uno di loro sparò e credo che
abbia colpito qualcuno. Non sono sicuro ma fu determinante per me, fu
come una ribellione interiore: gliela faccio pagare. Credo che sia
successo a tanti che furono presi da sentimenti diversi, ricordi
della prima guerra mondiale, i giuramenti alla patria, io avevo
giurato da ufficiale… Per cui non ci fu una base comune ma tante
storie individuali che entrarono nella Resistenza.
«Possiamo farlo
insieme»
Entrai in un bar vicino
alla stazione e c’era gente che diceva bisogna fare qualcosa, basta
coi tedeschi, e c’era Corrado Bonfantini, che disse: chi vuole fare
qualcosa, possiamo farlo insieme. Mi diede appuntamento il giorno
dopo e formammo le squadre, divise fra Partito d’Azione e
socialisti. Il nostro compito era informativo, di sabotaggio e anche
di eliminazione, simile ai Gap. Io non sapevo che esistessero i Gap
se non per sentito dire. Facevamo le stesse cose, ma senza la stessa
capacità organizzativa e senza le azioni gloriose fatte dai Gap di
Torino che erano comandati da Giovanni Pesce e da Ilio Barontini, che
erano stati in Spagna. La prima cosa era procurare le armi per
formare squadre che potessero combattere seriamente, e alimentare la
guerriglia che si veniva formando in montagna. Comunque abbiamo
compiuto varie azioni, abbiamo fatto saltare gli impianti ferroviari,
varie cose che si dovevano fare in quei tempi. Io ero abbastanza
esperto di esplosivi perché avevo fatto il corso guastatori
nell’esercito. Anche eliminazioni: c’era un reparto di polizia
addetto contro i partigiani, e io mi ero fatto amico, fingendo di
esser fascista, con uno di questi agenti che mi diceva come
ricevevano le informazioni – le delazioni sono state moltissime
perché erano ben pagate. E io ho partecipato a queste azioni di
eliminazione. I fascisti scoprirono il comando militare, col quale
ero in contatto tramite i cattolici. Fu preso in una chiesa, dove
avrei dovuto trovarmi anch’io, tutto il comando militare del Cln e
furono fucilati al Martinetto.
Perché non andai a
quell’incontro? Mi aveva mandato Bonfantini; lui disse a me di
andare perché si sentiva seguito; ci vedemmo a distanza in piazza
Carignano e lui mi fece cenno di stare attento; appena fatto questo
cenno gli saltarono addosso due, mi ricordo con impermeabili chiari,
gli saltarono addosso. Bonfantini si divincolava e gli spararono alla
schiena. Io mi allontanai, ero disarmato, non andai a
quell’appuntamento ma capii che la mia vita sarebbe stata in
pericolo. Mi disssero di raggiungere un reparto di Giustizia e
Libertà nel Monferrato. Però avrei dovuto portarmi dietro dei
ragazzi della Barca, una zona vicino a Torino, giovanissimi, avevano
costituito un distaccamento e fatto delle azioni, quindi li conoscevo
bene. Nel frattempo venni a sapere che un ragazzo che si chiamava
Folco Portinari, che poi sarebbe diventato funzionario della Rai e
docente, era stato preso dai tedeschi e gli avevano detto, a lui e
altri, che se si arruolavano nelle SS italiane avrebbero avuto un
trattamento particolare; se no, dovevano andare ai lavori forzati in
Germania.
A punta di pistola
A punta di pistola mi
feci consegnare un camion dell’azienda del gas, e andai
all’appuntamento con questi quaranta in divisa da SS. Salimmo sul
camion e andammo a Superga. Decidemmo di dormire lì nel campo, però
i ragazzi della Barca sospettarono che queste SS erano vere, e
discutevano se uccidermi – poi decisero di aspettare e io ebbi
salva la vita, ma per miracolo. Fatto sta che con questo camion che
tra l’altro non andava, uno sopra l’altro, raggiungemmo la 19^
brigata, e lì mi dissero che avrei dovuto comandare questo reparto,
che era piuttosto consistente, poi però mi nominarono capo di stato
maggiore e passammo nella val di Lanzo. Lì avemmo delle avventure
piuttosto pesanti, dei rastrellamenti feroci. Uno di questi ci portò
a disperderci. La nostra tecnica era di prevedere di doverci
disperdere e di avere dei punti di raccolta. Il mio punto di raccolta
era una conceria, vicino al parco della Mandria, e mentre eravamo lì
che ci stavamo riorganizzando arrivò uno che sembrava un contadino a
dire che c’era un carrarmato che avevano rimesso a posto, proprio
dentro la Mandria, e lui ci avrebbe aperto una certa porticina e
avremmo potuto recuperarlo. Andammo, presi una decina di uomini,
c’era anche Adolfo, il commissario politico. Io per primo mi
presentai davanti a questa porta, e lui ebbe un’intuizione: mi mise
il suo mitra sotto il braccio destro, e io avevo la pistola in mano e
gli uomini dietro. Aprimmo questa porta — e ci spararono. Io non
fui preso dai primi colpi perché quello che mi doveva uccidere fu
colpito da questo mitra di Adolfo, ma cadde per terra e sparò una
raffica e fui ferito, fui ferito gravemente. Quelli che erano dietro
a me mi tirarono indietro e mi salvarono, mentre questo Adolfo rimase
in mano loro e fu preso e lo impiccarono. Mi nascosero nei
sotterranei della conceria dove c’erano delle grandi caldaie,
faceva un caldo terribile. La ferita mi faceva molto male, sbattevo
la testa pensando di ammazzarmi, la pistola non ce l’avevo più, mi
intontivo soltanto, finché mi tirarono fuori e mi salvarono,
proprio. Poi i nostri reparti si riunirono e ritornammo nel
Monferrato, e io mi trovai in una cascina nel Monferrato dove
veramente mi salvarono la vita perché ci furono dei rastrellamenti
feroci e questi contadini, non sapevo neanche chi fossero,
rischiarono la pelle per nascondermi, facevano delle buche col letame
perché i tedeschi avevano dei cani che fiutavano, e mi salvarono.
Continuai fino alla liberazione a zoppicare.
Noi avevamo dei rapporti
straordinari con la gente. Eravamo, se si può dire, molto ricchi,
nel senso che una parte della cassa della quarta armata era stata
redistribuita alle formazioni partigiane, soldi ci arrivavano anche
dalla Fiat, poi anche gli alleati ci mandavano non armi ma soldi. Per
cui il rapporto con contadini era buono perché noi pagavamo, non
davamo i buoni. Molte volte erano generosi, non volevano essere
pagati a volte; noi abbiamo passato un periodo molto buono dal punto
di vista dell’alimentazione. Certo le condizioni erano durissime ma
l’accoglienza da parte della popolazione fu una cosa straordinaria.
Scendemmo dalle montagne Quando scendemmo dalle montagne ci ponemmo
il problema di che tipo di guerriglia fare. In pianura dovevamo
inventare, e io, per carità non pretendo di essere uno stratega, fui
uno dei fautori della guerra delle volanti – cioè prendemmo dei
camion grossi, li facemmo corazzare, il padre di Sergio Pinin Farina
ci fece corazzare dei camion con delle lastre di metallo, e quattro
cinque di quei camion diventavano una volante, si facevano della
azioni molto veloci soprattutto contro i posti di blocco, e ci si
ritirava. Durante i rastrellamenti si nascondevano questi camion, li
avevamo anche interrati con delle fatiche spaventose per fare delle
buche enormi per questi camion. Facemmo delle azioni, prendemmo anche
una piccola città, Chieri, neutralizzando con le volanti i presidi
vicini. Per sbaglio nelle prime luci dell’alba io sparai un colpo
di bazooka contro il campanile. La presa di Chieri, che prelude a
Torino, fu interessante perché queste brigate nere erano gente
feroce per cui trovammo nei sotterranei gente moribonda perché
avevano messo fra le dita dei piedi del cotone imbevuto di qualcosa
che bruciava e gli avevano bruciato i piedi, erano in cancrena… E
decidemmo di fucilarli in piazza, e li fucilammo dopo un processo in
cui il presidente della corte era un ufficiale dei carabinieri che
poi diventò il comandante dei carabinieri a Roma.
I ricordi, anche
dolorosi
I ricordi si
affastellano, sono anche dolorosi perché ci sono tanti morti. Di
quei ragazzi della Barca una metà sono morti. Erano ragazzi di
sedici, diciassette anni, e avevano molta fiducia in me. Il rapporto
di fiducia col comandante era importante, non perché fosse più
valoroso o coraggioso ma perché ti dava un minimo di sicurezza in
una guerra così insicura come quella della guerriglia. Io avevo
l’esperienza della guerra di Russia ma ho avuto delle paure
terribili. Tu non puoi avere paura: devi recitare, di fronte agli
altri, perché se no li fai morire; la paura del comandante è la
morte dei sottoposti. Tu devi recitare di sapere quello che vuoi, non
avere incertezze; se mandi uno in un certo posto è perché sai che
dev’essere così, questo l’avevo imparato in guerra in Russia. E
così arrivammo agli ultimi giorni tormentati della presa di Torino.
Noi ci attestammo sul Po, arrivò l’ordine dal comando di Torino di
entrare in città, però di attestarci prima sul Po per dividere le
zone d’attacco. E mentre eravamo lì ricevemmo l’ordine di non
entrare a Torino. Il colonnello Stevens della radio inglese aveva
avuto informazioni dal comando generale dell’esercito inglese che
c’era un raggruppamento di divisioni tedesche che stava puntando su
Torino. Stevens diceva che se noi entravamo in Torino, Torino sarebbe
stata distrutta, il sangue sarebbe corso in un modo spaventoso. Noi
ci fermammo per qualche ora, meditammo – ma la città era insorta,
già nelle fabbriche si combatteva. Allora Colaianni, che si chiamava
Barbato come nome di battaglia, che era il comandante della zona
attestata sul Po, disse: bisogna entrare. E io fui uno dei primi a
entrare, coi miei della Barca che passarono il Po. Il comandante si
incavolò come una bestia perché lasciai il posto per andare con
loro, però rientrai, e entrammo in Torino, mi ricordo con la moto,
il sidecar. E furono giorni di combattimenti feroci. Torino è
l’unica città dove si è veramente combattuto tanto, e ci sono
degli episodi che non sono stati forse raccontati. La cosa terribile
di Torino è che c’erano i franchi tiratori, i quali non sparavano
contro i partigiani: sparavano contro chiunque, era un’azione
terroristica. E chi li organizzava era questo Solaro che fu poi
impiccato allo stesso albero di Ignazio Vian che era un eroico
partigiano nostro impiccato dai fascisti. Solaro fu preso non so
come, e cominciò a dire che era un uomo di sinistra, che aveva
aderito al partito fascista perché voleva che diventasse comunista…
Il tribunale militare ne ordinò la morte. Mi ordinò di farlo
impiccare. Fu incaricato un gruppo della 19ma, però andai anch’io.
Ed è una cosa spaventosa, questo uomo distrutto che sa di essere
ammazzato; per quanto tu possa essere preso dal livore e dall’amore
di giustizia, ti fa sempre male vedere un uomo morire in quelle
condizioni. Io ero contrario alle impiccagioni, tanto è vero che ho
chiesto se potevamo fucilarlo, mi dissero no; qualcuno tirò fuori il
codice inglese, ma la verità è che volevano restituire alla
popolazione questa visione del colpevole, l’ organizzatore dei
franchi tiratori. E si ruppe la corda, lui cascò, io andai per
salvarlo, mi sembrava che fosse il mio dovere, e a quel punto la
popolazione sopraffece lo schieramento di questi uomini della 19ma,
lo impiccarono e impiccato lo portarono in giro per Torino fin quando
lo buttarono nel fiume»
il manifesto 14.2.2015
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