11.4.15

Lu Hsun. Lo spettro cinese (Franco Fortini)

La statua di Lu Hsun all'Università di Pechino
I saggi di Lu Hsun sono utili e attuali. Ci provano che fra la prima e la seconda guerra mondiale i temi di fondo della coscienza intellettuale sono stati, nonostante le apparenze, identici in Occidente e in Cina. E castigano tanti oggi, e fra i più giovani e generosi, indotti a credere che qualsiasi tentativo di sintesi fra «trasformazione del mondo» (rivoluzione) e «mutamento della vita» (salvezza personale) sia possibile senza una iniziale sconfitta dell'individuo. Non voglio dir nulla, qui, della bellezza formale dei saggi, peggio per chi non se n'avvede; del gusto della ricchezza ironica, della sapiente futilità, della scherma stilistica, tutti se ne possono accorgere da soli, da noi nessuno è cosi sprovveduto da non capire certe cose e magari solo quelle. Comunque, dalla introduzione e dalle sedici fitte pagine di brevi biografie corrispondenti ai nomi cinesi del testo, Lu Hsun — uno di quegli autori che come Pil'niàk o Vallejo hanno avuto bisogno di un intero giro di boa dalla cultura per venire o tornarci innanzi - è situato, per la prima volta, in termini storici e culturali cosi chiari da non perdonar più nessuna pigrizia. Lu Hsun razionalista, uomo della «luce », educatore, combattente, politico, narratore, traduttore; ma anche uomo delle «tenebre», che sa bene come il suo lavoro, se pure assunto come mestiere e servizio, «consista intrinsecamente nella continua ricerca di una soluzione formale» e quindi non «serva» alla rivoluzione; e che, pur lottando contro la tradizione, testimonia come nei livelli anche infimi della vita arcaica e contadina, nella «morte che vive» dei villaggi e della propria stessa memoria è contenuta una verità irrinunciabile che può e deve esser restaurata man mano che ci si venga liberando dall'oppressione, pietà filiale insomma che si deve esprimere simultaneamente alla distruzione della casa paterna. Chi avesse difficoltà a capire questo discorso, rammenti che nella poesia occidentale la più tragica figurazione di questa verità è nel dialogo del viandante con Filemone e Bauci, al quinto atto del II Faust.
Ricordo la casa di Lu Hsun a Shanghai e come le foglie di una pianta, dal cortile, movessero le loro ombre sul piccolo tavolo di lavoro. «In questi trent'anni, sotto i miei occhi il sangue di tanti giovani strato a strato si è ammucchiato fino a seppellirmi cosi da non poter respirare; posso solo scrivere qualcosa con questa penna e l'inchiostro, come scavassi tra il fango una piccola fessura e vi sporgessi la bocca per un ultimo respiro — che mondo è questo ».
Il male e la negatività sono rifiutati, con ogni energia; eppure quel che è accaduto e accade è irrecuperabile e insanabile. Lu Hsun detestava Dostoevskij ma era spinto al tavolo di lavoro da un orrore che il russo aveva ben conosciuto; solo che nel cinese subentrava la certezza della irrilevanza dell'individuo e l'ironia disperdeva ogni resto di retorica. Ma prudenza, nella lettura; si rischia di mancarne il meglio se ci si lascia ingannare dalla leggerezza apparente.
Sulla linea di un pensiero di Mao («Mettete al primo posto la distruzione e nel corso del processo avrete l'edificazione») scrive nella sua introduzione E. Masi: « ... il recupero della tradizione, possibile solo a misura che se ne distrugge il dominio... ». Questo significa che, per poter essere efficacemente combattuta la tradizione (in quanto autorità, passato) dev'essere quella dominante. Quella particolare forma di potere che è il potere ideologico è tanto più forte quanto più è impietrito, quanto più è cosificato, prossimo a farsi struttura, ad esserlo. Di qui l'ordine rivoluzionario di colpite alla radice; ma essa è, lo sappiamo, «l'uomo stesso». Dove credevi trovare un modo, una forma, una struttura, trovi uomini ossia qualcosa che dev'essere risolto sempre e di nuovo in modi, forme e strutture. Le menti scientifiche qui si impazientiscono, dicono che quella dello uomo « microcosmo » è un'idea da letterati. Eppure basta voltare il capo ed ecco che quanto avevi astratto è tornato a quagliare, a riconfondersi. Vieni — nella ricerca della tradizione, ossia della tua determinazione dominante — a non poter più distinguere la coazione «materiale» della tua struttura biologica e dei modi di produzione in cui sei immerso, dal peso dei criteri ideologici (etici, ad esempio, o estetici). «L'ultima analisi» della famosa frase di Engels continua ad essere rimandata. Di qui la tendenza inevitabile a falsi scopi, ad oggetti interlocutorii; a battaglie contro tradizioni parziali.
Gramsci, più di trent'anni fa, non aveva opposta una ad un'altra tradizione, per la cultura italiana? Nei suoi medesimi anni, Lukacs non aveva fatto lo stesso nei confronti della filosofia classica tedesca e del marxismo, a livello «occidentale»? Oggi l'Occidente rivoluzionario, ove esista, sa che se vuole rivelare fino in fondo i caratteri di classe della propria tradizione culturale e sormontarli — quella che di solito connota per feudal-cristiana, illuministico-borghese, socialdemocratica — può farlo solo commisurandola con la sua impresa maggiore: l'assoggettamento coloniale o semicoloniale del resto del mondo (e delle proprie medesime classi oppresse). Naturalmente, una tale descrizione è già stata compiuta, dalla storiografia, dalla antropologia; per quanto su fronti opposti, un Lévi-Strauss e un Fanon, per dire i primi nomi che vengono alla mente, escono certo dai fianchi dell'Occidente. Ma anche Tacito scriveva sui Germani molto tempo innanzi che i vescovi imprendessero a considerare le invasioni come nemesi allo smisurato potere imperiale. La «distruzione del dominio», ossia della «tradizione» dell'Occidente continua ad essere un fatto della coscienza culturale, ossia in realtà un caso di falsa coscienza finché non si dia rivoluzione politica nell'Occidente.
E chiediamoci se questo tema si è mai posto, in questi termini, prima d'ora, all'Occidente. Nemmeno la Rivoluzione di Ottobre aveva potuto farlo. Oggi è possibile, invece. Perché la «negazione della negazione» è quella nuova forma di «proletario» che si chiama in verità vecchio e nuovo colonizzato, il «colonizzato nazionale» dell'industria (culturale e no) e quello «internazionale», lontano o vicino, negro, USA, brasiliano, indiano o come si voglia.
La condizione del continente cinese (fa osservare E. Masi) è, in questo processo, paradossale: come quella di una cultura di altissima tradizione che vuol negarsi e superarsi in presenza di due elementi contradditori, quelli che appunto si affrontano nella Cina moderna la cultura-scienza occidentale — già usata come strumento distintivo dalla generazione del 4 maggio — che presiede oggi, in parte recepita e in parte combattuta, alla costruzione socialista; e la forma che, «linguaggio degli schiavi», quella cultura-scienza ha assumo nell'universo coloniale. Di qui, tra parentesi, l'ambiguità dell'esperienza cinese per l'Occidente, le violente reazioni che suscita in Unione Sovietica. Per l'Occidente è più facile affrontare — al limite, integrare — l'«uomo con la roncola» cubano o congolese, di cui ci parlò Fanon, che non l'inafferabile (più «avanti»? più «indietro»?) Rivoluzione cinese.
Il problema della distruzione rivoluzionaria si è posto alla coscienza di un Lu Hsun, nella Cina 1915-35, con una evidenza che non aveva avuto nella Rivoluzione sovietica. Mezzo secolo di lotta ideologica e politica nella Russia zarista aveva dibattuto a fondo il tema dei rapporti vuoi con il passato storico nazionale, vuoi con l'Europa occidentale. E il risultato era stato nulla meno che Lenin. In Cina, tutto s'era svolto invece nell'imputridimento coloniale di un intero universo unitario. Ecco perché mi sembra che, in un Lu Hsun, la violenza delie dilacerazioni — che solo per via d'ironia potevano trovare espressione —, l'estrema frantumazione dell'opera scritta — e pare quasi di aver a che fare con i frammenti d'una esplosione; i frammenti di una complicatissima tradizione... — tutto quel che insomma con un linguaggio ancora metaforico e rozzo chiamavo, tanti anni fa e proprio parlando di Lu Hsun, «rapporto fra decadentismo e rivoluzione», non è altro che la voce di quella verità di cui prima parlavo, della unione di necessità biologico-economica e di necessità ideologica che si rivela, abbagliante, nei momenti di rivoluzione-conversione, quando una scelta formale (di linguaggio, di scrittura, di criteri, etici) diventa, per chi vuol compierla, indistinguibile dai macigni storici, dalle sterminate campagne alluvionali che sono state il regime della proprietà nella Cina postimperiale, dal fiume di conflitti che le travolgono e dalle scariche di piombo del Kuomintang.
Come lo sapeva — letteralmente morendo della contraddizione — lo scrittore Lu Hsun quando, lui che nel 1927 aveva detto agli ufficiali dell'Accademia Militare di Whampoa «la migliore cosa è che non abbiate rispetto per la letteratura... il meglio è ancora comporre un canto di guerra che, se ben scritto, letto durante il riposo dopo la battaglia può essere piacevole», nove anni più tardi, poco prima della morte, scriverà: «la vita quotidiana di un combattente non è tutta canti e pianti; ma quando tutto è legato a canti e pianti, allora si ha un vero combattente»! L'autodistruzione dell'intellettuale non è più, forse, quella dei poeti suicidi della Rivoluzione d'Ottobre, di cui pure Lu Hsun ci parla; e nemmeno la prospettiva storica d'una scomparsa della divisione del lavoro; mai e poi mai, naturalmente, l'« impegno » del mandarino rivoluzionario e funzionario. È semmai in una non compiaciuta né voluttuosa ma ironica «contemplazione della morte», nella coscienza di essere veramente l'unione di un morto e di un vivo. Ma che cos'è l'unione di un morto e di un vivo? È uno spettro. Questa può essere la letteratura in una età di rivoluzione.
Lu Hsun da ragazzo, nel suo villaggio, recitava le parti di spettro nelle notti del teatro tradizionale, all'aperto, davanti ai contadini. Il tema dello spettro torna frequentemente nelle sue pagine. E l'uomo che in punto di morte detta le sue magnifiche e implacabili disposizioni testamentarie che guardano verso la vita è quello stesso che ha sempre guardato anche verso le creature che dal passato, dalla tradizione, si nutrono del nostro sangue: Se a mezzanotte mi comparisse una donna dal viso incipriato e le labbra rosse come la Dea Impiccata, vecchio come sono correrei ancora verso di lei...
Per questo l'opera di Lu Hsun è un episodio della rivoluzione mondiale. Distrugge i tumuli degli antenati, ne sparge i resti, vi semina i cereali di cui i sopravvissuti si nutriranno. Esercita atterrita la necessaria empietà filiale.


Da Verifica dei poteri, Il Saggiatore, 1965

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