La statua di Lu Hsun all'Università di Pechino |
I saggi di Lu Hsun sono
utili e attuali. Ci provano che fra la prima e la seconda guerra
mondiale i temi di fondo della coscienza intellettuale sono stati,
nonostante le apparenze, identici in Occidente e in Cina. E castigano
tanti oggi, e fra i più giovani e generosi, indotti a credere che
qualsiasi tentativo di sintesi fra «trasformazione del mondo»
(rivoluzione) e «mutamento della vita» (salvezza personale) sia
possibile senza una iniziale sconfitta dell'individuo. Non voglio dir
nulla, qui, della bellezza formale dei saggi, peggio per chi non se
n'avvede; del gusto della ricchezza ironica, della sapiente futilità,
della scherma stilistica, tutti se ne possono accorgere da soli, da
noi nessuno è cosi sprovveduto da non capire certe cose e magari
solo quelle. Comunque, dalla introduzione e dalle sedici fitte pagine
di brevi biografie corrispondenti ai nomi cinesi del testo, Lu Hsun —
uno di quegli autori che come Pil'niàk o Vallejo hanno avuto bisogno
di un intero giro di boa dalla cultura per venire o tornarci innanzi
- è situato, per la prima volta, in termini storici e culturali cosi
chiari da non perdonar più nessuna pigrizia. Lu Hsun razionalista,
uomo della «luce », educatore, combattente, politico, narratore,
traduttore; ma anche uomo delle «tenebre», che sa bene come il suo
lavoro, se pure assunto come mestiere e servizio, «consista
intrinsecamente nella continua ricerca di una soluzione formale» e
quindi non «serva» alla rivoluzione; e che, pur lottando contro la
tradizione, testimonia come nei livelli anche infimi della vita
arcaica e contadina, nella «morte che vive» dei villaggi e della
propria stessa memoria è contenuta una verità irrinunciabile che
può e deve esser restaurata man mano che ci si venga liberando
dall'oppressione, pietà filiale insomma che si deve esprimere
simultaneamente alla distruzione della casa paterna. Chi avesse
difficoltà a capire questo discorso, rammenti che nella poesia
occidentale la più tragica figurazione di questa verità è nel
dialogo del viandante con Filemone e Bauci, al quinto atto del II
Faust.
Ricordo la casa di Lu
Hsun a Shanghai e come le foglie di una pianta, dal cortile,
movessero le loro ombre sul piccolo tavolo di lavoro. «In questi
trent'anni, sotto i miei occhi il sangue di tanti giovani strato a
strato si è ammucchiato fino a seppellirmi cosi da non poter
respirare; posso solo scrivere qualcosa con questa penna e
l'inchiostro, come scavassi tra il fango una piccola fessura e vi
sporgessi la bocca per un ultimo respiro — che mondo è questo ».
Il male e la negatività
sono rifiutati, con ogni energia; eppure quel che è accaduto e
accade è irrecuperabile e insanabile. Lu Hsun detestava Dostoevskij
ma era spinto al tavolo di lavoro da un orrore che il russo aveva ben
conosciuto; solo che nel cinese subentrava la certezza della
irrilevanza dell'individuo e l'ironia disperdeva ogni resto di
retorica. Ma prudenza, nella lettura; si rischia di mancarne il
meglio se ci si lascia ingannare dalla leggerezza apparente.
Sulla linea di un
pensiero di Mao («Mettete al primo posto la distruzione e nel corso
del processo avrete l'edificazione») scrive nella sua introduzione
E. Masi: « ... il recupero della tradizione, possibile solo a misura
che se ne distrugge il dominio... ». Questo significa che, per poter
essere efficacemente combattuta la tradizione (in quanto autorità,
passato) dev'essere quella dominante. Quella particolare forma
di potere che è il potere ideologico è tanto più forte quanto più
è impietrito, quanto più è cosificato, prossimo a farsi struttura,
ad esserlo. Di qui l'ordine rivoluzionario di colpite alla radice; ma
essa è, lo sappiamo, «l'uomo stesso». Dove credevi trovare un
modo, una forma, una struttura, trovi uomini ossia qualcosa che
dev'essere risolto sempre e di nuovo in modi, forme e strutture. Le
menti scientifiche qui si impazientiscono, dicono che quella dello
uomo « microcosmo » è un'idea da letterati. Eppure basta voltare
il capo ed ecco che quanto avevi astratto è tornato a quagliare, a
riconfondersi. Vieni — nella ricerca della tradizione, ossia della
tua determinazione dominante — a non poter più distinguere la
coazione «materiale» della tua struttura biologica e dei modi di
produzione in cui sei immerso, dal peso dei criteri ideologici
(etici, ad esempio, o estetici). «L'ultima analisi» della famosa
frase di Engels continua ad essere rimandata. Di qui la tendenza
inevitabile a falsi scopi, ad oggetti interlocutorii; a battaglie
contro tradizioni parziali.
Gramsci, più di
trent'anni fa, non aveva opposta una ad un'altra tradizione, per la
cultura italiana? Nei suoi medesimi anni, Lukacs non aveva fatto lo
stesso nei confronti della filosofia classica tedesca e del marxismo,
a livello «occidentale»? Oggi l'Occidente rivoluzionario, ove
esista, sa che se vuole rivelare fino in fondo i caratteri di classe
della propria tradizione culturale e sormontarli — quella che di
solito connota per feudal-cristiana, illuministico-borghese,
socialdemocratica — può farlo solo commisurandola con la sua
impresa maggiore: l'assoggettamento coloniale o semicoloniale del
resto del mondo (e delle proprie medesime classi oppresse).
Naturalmente, una tale descrizione è già stata compiuta, dalla
storiografia, dalla antropologia; per quanto su fronti opposti, un
Lévi-Strauss e un Fanon, per dire i primi nomi che vengono alla
mente, escono certo dai fianchi dell'Occidente. Ma anche Tacito
scriveva sui Germani molto tempo innanzi che i vescovi imprendessero
a considerare le invasioni come nemesi allo smisurato potere
imperiale. La «distruzione del dominio», ossia della «tradizione»
dell'Occidente continua ad essere un fatto della coscienza culturale,
ossia in realtà un caso di falsa coscienza finché non si dia
rivoluzione politica nell'Occidente.
E chiediamoci se questo
tema si è mai posto, in questi termini, prima d'ora, all'Occidente.
Nemmeno la Rivoluzione di Ottobre aveva potuto farlo. Oggi è
possibile, invece. Perché la «negazione della negazione» è quella
nuova forma di «proletario» che si chiama in verità vecchio e
nuovo colonizzato, il «colonizzato nazionale» dell'industria
(culturale e no) e quello «internazionale», lontano o vicino,
negro, USA, brasiliano, indiano o come si voglia.
La condizione del
continente cinese (fa osservare E. Masi) è, in questo processo,
paradossale: come quella di una cultura di altissima tradizione che
vuol negarsi e superarsi in presenza di due elementi contradditori,
quelli che appunto si affrontano nella Cina moderna la
cultura-scienza occidentale — già usata come strumento distintivo
dalla generazione del 4 maggio — che presiede oggi, in parte
recepita e in parte combattuta, alla costruzione socialista; e la
forma che, «linguaggio degli schiavi», quella cultura-scienza ha
assumo nell'universo coloniale. Di qui, tra parentesi, l'ambiguità
dell'esperienza cinese per l'Occidente, le violente reazioni che
suscita in Unione Sovietica. Per l'Occidente è più facile
affrontare — al limite, integrare — l'«uomo con la roncola»
cubano o congolese, di cui ci parlò Fanon, che non l'inafferabile
(più «avanti»? più «indietro»?) Rivoluzione cinese.
Il problema della
distruzione rivoluzionaria si è posto alla coscienza di un Lu Hsun,
nella Cina 1915-35, con una evidenza che non aveva avuto nella
Rivoluzione sovietica. Mezzo secolo di lotta ideologica e politica
nella Russia zarista aveva dibattuto a fondo il tema dei rapporti
vuoi con il passato storico nazionale, vuoi con l'Europa occidentale.
E il risultato era stato nulla meno che Lenin. In Cina, tutto s'era
svolto invece nell'imputridimento coloniale di un intero universo
unitario. Ecco perché mi sembra che, in un Lu Hsun, la violenza
delie dilacerazioni — che solo per via d'ironia potevano trovare
espressione —, l'estrema frantumazione dell'opera scritta — e
pare quasi di aver a che fare con i frammenti d'una esplosione; i
frammenti di una complicatissima tradizione... — tutto quel che
insomma con un linguaggio ancora metaforico e rozzo chiamavo, tanti
anni fa e proprio parlando di Lu Hsun, «rapporto fra decadentismo e
rivoluzione», non è altro che la voce di quella verità di cui
prima parlavo, della unione di necessità biologico-economica e di
necessità ideologica che si rivela, abbagliante, nei momenti di
rivoluzione-conversione, quando una scelta formale (di linguaggio, di
scrittura, di criteri, etici) diventa, per chi vuol compierla,
indistinguibile dai macigni storici, dalle sterminate campagne
alluvionali che sono state il regime della proprietà nella Cina
postimperiale, dal fiume di conflitti che le travolgono e dalle
scariche di piombo del Kuomintang.
Come lo sapeva —
letteralmente morendo della contraddizione — lo scrittore Lu Hsun
quando, lui che nel 1927 aveva detto agli ufficiali dell'Accademia
Militare di Whampoa «la migliore cosa è che non abbiate rispetto
per la letteratura... il meglio è ancora comporre un canto di guerra
che, se ben scritto, letto durante il riposo dopo la battaglia può
essere piacevole», nove anni più tardi, poco prima della morte,
scriverà: «la vita quotidiana di un combattente non è tutta canti
e pianti; ma quando tutto è legato a canti e pianti, allora si ha un
vero combattente»! L'autodistruzione dell'intellettuale non è più,
forse, quella dei poeti suicidi della Rivoluzione d'Ottobre, di cui
pure Lu Hsun ci parla; e nemmeno la prospettiva storica d'una
scomparsa della divisione del lavoro; mai e poi mai, naturalmente,
l'« impegno » del mandarino rivoluzionario e funzionario. È semmai
in una non compiaciuta né voluttuosa ma ironica «contemplazione
della morte», nella coscienza di essere veramente l'unione di un
morto e di un vivo. Ma che cos'è l'unione di un morto e di un
vivo? È uno spettro. Questa può essere la letteratura in una età
di rivoluzione.
Lu Hsun da ragazzo, nel
suo villaggio, recitava le parti di spettro nelle notti del teatro
tradizionale, all'aperto, davanti ai contadini. Il tema dello spettro
torna frequentemente nelle sue pagine. E l'uomo che in punto di morte
detta le sue magnifiche e implacabili disposizioni testamentarie che
guardano verso la vita è quello stesso che ha sempre guardato anche
verso le creature che dal passato, dalla tradizione, si nutrono del
nostro sangue: Se a mezzanotte mi comparisse una donna dal viso
incipriato e le labbra rosse come la Dea Impiccata, vecchio come sono
correrei ancora verso di lei...
Per questo l'opera di Lu
Hsun è un episodio della rivoluzione mondiale. Distrugge i tumuli
degli antenati, ne sparge i resti, vi semina i cereali di cui i
sopravvissuti si nutriranno. Esercita atterrita la necessaria empietà
filiale.
Da Verifica dei
poteri, Il Saggiatore, 1965
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