Il generale giapponese Kuribayashi,
incaricato della difesa di Iwo Jima
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Negli ultimi e terribili
mesi del secondo conflitto mondiale la radio tedesca trasmetteva i
versi di Tirteo che esaltano il morire in battaglia. «Kampfreden»
li chiamavano, «allocuzioni per la battaglia». E il modello dei
Trecento delle Termopili veniva additato ai Tedeschi dal Führer in
persona con l'argomento che «una lotta disperata serba in eterno il
suo valore di esempio». La fascinazione mortuaria è stata un
ingrediente del fascismo nei suoi momenti peggiori: al suo sorgere e
violento affermarsi ed al tempo della sua lunga e sanguinosa agonia.
Una delle mode confluite
nell'hitlerismo fu il culto della morte spartana anche nell'ottica
della definizione hitleriana di Sparta come «il più luminoso
esempio di Stato a base razziale della storia umana». La temperie
della guerra accende anche la fantasia dei letterati. Nella
straordinaria e a torto dimenticata Storia della letteratura greca
di Gennaro Perrotta (volume II, 1941) l'epitafio, a noi noto da
Erodoto, per i Trecento delle Termopili viene addirittura definito
«la più bella iscrizione funebre del mondo»: «Forestiero,
annuncia agli Spartani che noi giaciamo qui per obbedire ai loro
ordini».
Tirteo non era spartano.
Una tradizione ne faceva un ateniese zoppo mandato per scherno a
Sparta quando Sparta, alla fine del VII secolo a.C., in difficoltà
nella guerra contro gli schiavi ribelli della Messenia, aveva chiesto
ad Atene un generale e ne ebbe invece quell' uomo, all' apparenza,
così malconcio. Ma Tirteo, con il fuoco dei suoi versi esaltanti la
morte e la guerra, portò gli Spartani alla vittoria. Il primo verso
della sua più famosa elegia, che ci è nota perché la recitava,
secoli dopo, un oratore attico nel corso di un processo contro un
disertore, dice addirittura che «è bello morire per la patria
cadendo tra i combattenti della prima fila». La prima fila è la più
pericolosa specie in un combattimento che sfociava immediatamente nel
corpo a corpo. Nell'etica maschile-guerriera del VII a.C., bene
espressa dai versi di Archiloco, la lancia è tutto. E si forma una
sorta di culto del comandante «con le gambe storte, ma ben piantato
sui piedi, e schiumante coraggio».
Nella società arcaica,
di cui Sparta è un idealtipo, il cittadino è il guerriero: le due
nozioni coincidono. L'etica eroico-aristocratica pervade l'intero
corpo civico, in forza di un meccanismo immancabilmente efficace, che
Marx nel Manifesto sintetizzò in una celebre formula («le
idee dominanti di un' epoca sono sempre state quelle della classe
dominante»), parafrasi del Faust (577-579): «Ciò che voi chiamate
spirito dei tempi è in fondo lo spirito dei dominatori». Nella
città arcaica il ruolo militare assume un peso enorme. È accettato
da tutti che al cittadino-guerriero spetti un compito direttivo e
protettivo della comunità. Comunità che, per giunta, è quasi
sempre in guerra in quanto la società stessa vive e prospera dei
frutti della guerra (schiavi e bottino). Il morire in guerra diventa
necessariamente un valore primario.
Ovviamente il tema della
«bella morte», così legato alla piccola comunità che difende se
stessa grazie agli uomini validi schierati in battaglia, diventa - in
società ben più complesse - un topos letterario. Orazio, che si è
trovato a combattere in una guerra civile (quale fu la campagna di
Filippi), e che - come racconta - se la cavò gettando lo scudo e
fuggendo, riprende da letterato - in un'altra ode - quasi di peso i
versi di Tirteo e snocciola il «dulce et decorum est pro patria
mori»: dove «dulce» è davvero un eccesso. Orazio fu
più destro di altri, e dopo essersi liberato dello scudo passò
serenamente tra le file del vincitore. In fondo era sempre patria.
Per non parlare poi di coloro che «patria» propriamente non hanno
perché ne sono stati privati in quanto socialmente oppressi: è
questo il senso del celebre e malvisto aforisma «i lavoratori non
hanno patria» ricalcato su un celebre motto di Tiberio Gracco
(«persino le bestie feroci hanno un giaciglio etc.»). La guerra
degli Spartiati non poteva essere sentita come tale anche dagli Iloti
che li accompagnavano in guerra, ma costretti e disarmati. La guerra
degli Ateniesi per la difesa della città imperiale non era tale per
tutti. Faceva comodo ad alcuni ceti o gruppi, non ad altri. Il
contadino di Acarne messo in scena da Aristofane odia la guerra. E
gli oligarchi sognavano di «aprire le porte al nemico»
approfittando della sconfitta.
Sulla scala dei secoli la
situazione ha potuto solo complicarsi. È da ammirare la sofferenza
di un pensatore come Benedetto Croce portato da una scelta etica a
desiderare la sconfitta della «patria». Quella sofferenza trovò
espressione nel suo discorso al primo convegno dei Cln (Bari, gennaio
44), allorché disse: «A poco a poco la luce si fece in noi e
cominciammo a udire intorno a noi il giudizio che la presente guerra
non era una guerra tra popoli, ma una guerra civile», e, soggiunse,
«una guerra di religione»; «e per la nostra religione, che aveva
il diritto di comandarci, ci rassegnammo al penoso distacco dalla
brama di una vittoria italiana». E però precisa: «pur guardandoci
dal dir parola che potesse scoraggiare i nostri soldati, pur
esortandoli, quando a noi si rivolgevano, a fare unicamente il loro
dovere militare per la propria dignità (...) noi ricercammo ansiosi
la formazione dell'avvenire migliore dell'Italia non già nei
successi militari del cosiddetto asse ma nei progressi lenti e
faticosi dell'Inghilterra, e poi della Russia e dell'America. Le
potenze alleate ci promettevano quello che l'asse ci aveva tolto».
In queste ponderate parole tutto è importante, ma non deve sfuggire
la rivendicazione di aver suggerito ai combattenti di seguitare «a
fare il loro dovere militare».
Non fu certamente «dolce»
e forse neanche «bello», per dirla con Tirteo, morire in battaglia
per chi si trovò allora nella condizione di doverlo fare. Ecco
perché la testimonianza del generale giapponese Kuribayashi,
incaricato dell'ostinata e assurda difesa di Iwo Jima, risplende,
oggi che possiamo conoscerla grazie al volume di Kakehashi Kumiko
(Così triste cadere in battaglia, Einaudi, pp. 212, euro 15),
come un contributo straordinario alla conoscenza della crisi estrema
cui può giungere l' assioma di Tirteo. Kuribayashi è colui che osò
scrivere all'imperatore, pur seguitando la lotta fino all' ultimo, «è
triste cadere in battaglia». Ha osservato Rigoni Stern
nell'introduzione, che il verbo «cadere» (cioè morire) indica,
nell'originale, «cade la foglia (o il fiore)». Coincidenza tra
culture lontanissime, se solo si considera la radicata immagine
omerica, nel VII dell' Odissea, o di Mimnermo, degli uomini «come
foglie».
Corriere della Sera, 15
novembre 2007
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