Alle magistrali di Perugia (il
Pieralli) ci finii di malavoglia, un anno che, fresco di
trasferimento, persi il posto al classico di Perugia (il Mariotti), giacché a quel tempo in casi del genere veniva tenuta in gran conto la continuità
didattica.
Sarei potuto tornare dopo un solo anno
al liceo di piazza San Paolo, vicinissimo a casa mia,
e senza difficoltà visto che un paio di colleghi di Italiano e
Latino andavano in pensione proprio quell'anno. Ma non lo feci, al Pieralli rimasi ben cinque anni, e per più di una ragione.
Alle magistrali nel triennio il Latino
s'accoppiava con la Storia e per me insegnare storia era una novità
stimolante, tanto più in un tipo di scuola ove era giusto
rivolgere una speciale attenzione all'interrogazione critica del documento e alla costruzione storiografica. In quegli anni amavo definirmi insegnante di storia e scrissi un articolo per un giornaletto di insegnanti comunisti in cui reclamavo una formazione specifica (la laurea in Storia) e un ruolo autonomo per l'insegnante di storia, onde sottrarre la disciplina alle astrazioni generalizzanti della filosofia e alle retoriche della letteratura. Nelle scuole, scrivevo, l'unico insegnamento che conviene accoppiare alla storia è la geografia. Chissà che non avessi ragione.
Le ragazze delle magistrali, poi, erano state per me una grande e piacevole sorpresa. In maggioranza, d'origine mezzadrile, venivano dal contado (della città o di centri vicini): in molti casi appartenevano alla prima generazione la cui scolarizzazione andasse oltre lo stretto obbligo. Vivevano perciò la scuola come una conquista e le riconoscevano importanza; ad essa chiedevano e davano molto
più che nei licei. Non è che fossero tutte bravissime: con il latino, lingua
morta, non mancavano problemi (e così con la matematica e le sue
astrazioni); ma si capiva che venivano con piacere.
Il fatto che io fossi comunista all'istituto magistrale non mi creava problemi tra gli studenti e le loro famiglie.
Le ragazze avevano in gran numero genitori che erano elettori
comunisti o addirittura tesserati; e anche quelle con genitori
anticomunisti (di chiesa, per esempio, o bottegai) venivano da ceti popolari e non mi guardavano come una bestia rara
o come un corruttore. Tanto più che io ci tenevo a rispettare rigorosamente le
regole non scritte del mestiere per cui cercavo di educare lo spirito
critico degli alunni anche contro le mie idee e convinzioni, cosa che
si notava e veniva riferita anche in famiglia.
Accadde mentre insegnavo in quella
scuola che Occhetto lanciasse la svolta della Bolognina, col progetto
di cambiare nome e fisionomia ideale al partito di cui era
segretario. Io fui tra quelli che si opponevano alla trasformazione
del Pci in Pds e, poiché queste posizioni presenti ampiamente tra
gli iscritti erano sottorappresentate tra dirigenti e funzionari, mi
trovai ad essere in Umbria uno dei capi della "mozione due" e, dopo lo
scioglimento del Pci nel gennaio 1991, del movimento per la
rifondazione comunista non ancora strutturato in partito. Succedeva
così che mi chiamassero nelle Tv locali ad esporre le ragioni della
fedeltà alla falce e martello.
Una mattina, a lezione finita, mentre infilavo in borsa libri e registro, una ragazza si
avvicinò alla cattedra. Succedeva, il più delle volte per un
chiarimento, una informazione o un consiglio di lettura. Invece questa
mi disse: “L'ho vista ieri in televisione, a parlare per i
comunisti”. Sembrava contenta della cosa. Un'altra intanto s'era
avvicinata alla cattedra e aveva sentito. Perciò mi chiese: “Pds?”.
L'altra replicò: "No, comunista comunista”.
Dopo tanti anni questa
caratterizzazione della mia identità politica mi piace sempre di
più.
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