Bambini che giocano. Mosaico del gran palazzo a Costantinopoli (V secolo) |
La casa editrice Beck di
Monaco di Baviera, quando non si lascia prendere da furori lato sensu
ideologici, pubblica ottimi libri di erudizione specie nel campo
dell’antichità e della storia bizantina. Basti pensare alla
encomiabile tenacia con cui ha mantenuto in vita la «Byzantinische
Zeitschrift», organo della bizantinistica mondiale, nonché il
grande e insostituibile Handbuch der Altertumswissenschaft in
cui apparve, alla fine del secolo XIX, la tuttora preziosa Storia
della letteratura bizantina di Karl Krumbacher, padre fondatore
della disciplina.
Fu nel campo del diritto
che la Casa, negli anni Trenta, commise qualche sproposito di cui
dovette poi dar conto al tempo della amministrazione statunitense
della Baviera (1945-47). Ma presto tornò sulla strada maestra, solo
temporaneamente abbandonata. Anche i grandi editori scientifici
debbono però adeguarsi alle esigenze del mercato (come, un tempo,
alle esigenze della politica): per esempio alla richiesta proveniente
dalle università (che sono sempre meno «universitarie») di poter
disporre di agili sintesi su grandi temi o su intere epoche storiche.
E Beck lo ha fatto al meglio, affidando a grandi specialisti il non
facile compito. Così sono apparse sintesi essenzialissime sui Celti
o sugli antichi Germani, sull’antica Atene, e addirittura Alexander
Demandt, lo storico della Freie Universität, specialista e cultore
di Oswald Spengler, si è cimentato per tali collane con una sintesi
dell’intera storia universale, come aveva fatto a suo tempo, in
Italia, Gianni Rodari in un bellissimo libro per ragazzi. Al maggiore
bizantinista tedesco, Peter Schreiner, Beck ha affidato un piccolo,
ma denso e aggiornato libro su Costantinopoli: Costantinopoli,
storia e archeologia (2007), che ora esce in italiano, nei
«Piccoli Saggi» della Salerno Editrice (Roma) col titolo
Costantinopoli. Metropoli dai mille volti e la presentazione -
che è ben più che una presentazione - di Silvia Ronchey.
Non era un compito
facile, già perché il tema stesso è considerato (a torto)
settoriale e unicamente «specialistico». E invece dovrebbe essere
ormai chiaro che il «millennio» bizantino è uno dei passaggi
decisivi della storia: unico caso, nella storia d’ Europa, di
trapasso graduale dall’antichità al mondo moderno. Non era un
compito affatto agevole perché si trattava di andare due volte
contro corrente: non solo contro il pregiudizio della marginalità di
quella storia, ma anche contro l’idea vulgata di Bisanzio come
impero immobile, impegnato unicamente nella millenaria attesa di
poter defungere. Era poi necessario tener conto delle molte novità
che la ricerca ha prodotto e presentare le nuove acquisizioni in
forma pianamente espositiva. E lo sforzo è riuscito. L’autore
chiarisce sin dalle prime pagine quanto poco sia sopravvissuto della
città bizantina ed in quali limiti ristretti si possa parlare di
«archeologia» in una città così radicalmente trasformata dalla
sua successiva storia.
Ma quando passa ai temi
più controversi, per esempio quello riguardante le istituzioni
culturali che forgiarono i gruppi dirigenti dell’ impero, è molto
efficace nel rendere accessibile una tematica controversa e sottile.
E chiarisce in che misura si possa parlare di istituzioni di tipo
«universitario», quanto diverse esse fossero dalle università che
sorsero poi a Occidente, quanto (poco) di «statale» e quanto
(molto) di privato ci fosse in tali istituzioni. Né viene trascurato
il contenuto dell’insegnamento che lì veniva impartito. Ed in pari
tempo è lo stesso ruolo della capitale che viene storicizzato, alla
luce, tra l’altro, di ricerche recenti e meno recenti sulla
importanza culturale delle province orientali dell’ impero, perse
per sempre alla metà del secolo VII a seguito della conquista araba
e, di conseguenza, sulla nuova centralità, anche culturale, in cui
Costantinopoli venne a trovarsi proprio a seguito di tali perdite.
«Tuttavia - commenta Schreiner - proprio quel momento non era il più
adatto perché le Muse esiliate recuperassero nella capitale l’
importanza che avevano avuto nelle antiche roccaforti della cultura».
L’altra faccia di
questo problema - che forse esula da una trattazione incentrata su
Bisanzio e nondimeno la completa - è la durata o meglio la
permanenza del greco nelle province orientali (Siria, Palestina,
Egitto) pur dopo la conquista araba. Su questo punto ci sono indizi
contrastanti. Certo, un grande storico arabo vissuto all’incirca al
tempo del Boccaccio, Ibn-Khaldun, scrive nella sua Muqaddina
(«Prolegomeni storici») che il califfo Omar aveva imposto che in
tutti i territori conquistati si parlasse e si scrivesse unicamente
l’arabo del Corano e che gli altri idiomi venissero banditi.
Ma questa direttiva non si realizzò mai in modo granitico. Nella
fattispecie le tracce scritte, attestanti l’uso del greco durano
ancora ben oltre la conquista: si possono vedere, a riprova, le
ultime tavole dell’album storico paleografico edito da Medea Norsa
a Pisa nel 1939 (La scrittura letteraria greca). Ed è ben
noto che Hunain Ibn-Ishaq, nel suo commento a Galeno, descrive la
collaborazione con altri dotti operanti ad Alessandria intorno al
testo del grande scienziato di Pergamo.
Insomma il greco si
conservò anche fuori dell’impero e il contatto con l’impero
rivale ebbe, nei secoli IX-X e oltre, reciproci, benefici, effetti
culturali. Schreiner conclude la sua ricostruzione ricordando l’ombra
delle profezie escatologiche che prevedevano la fine della «città
delle meraviglie», la fine della Costantinopoli imperiale. Il monaco
Filofej profetava, secoli più tardi, che dopo la fine della seconda
Roma sarebbe subentrata la terza Roma (Mosca) «e una quarta Roma non
ci sarà». Formulazione efficace nel significare quanto la storia
dell’impero apparentemente immobile di Bisanzio si prolunghi in
realtà sin nel nostro presente.
Corriere della Sera, 22
giugno 2009
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