“Mia mamma diceva sempre che ero nato
roverso, che fassevo tuto el contrario de quelo che dovevo far.
Eccomi qua”. Gualtiero Bertelli racconta come canta e come parla:
con naturalezza, con semplicità e con profondità. Il suo libro,
Venezia e una fisarmonica. Storie di un cantastorie (Nuova
Dimensione, 2014, pp. 251, 15 euro) intreccia lingua e dialetto come
le sue canzoni, per raccontarci di un’infanzia e adolescenza dentro
una Venezia operaia di cui oggi resta poco o niente, di una storia
musicale che comincia con una fisarmonica strimpellata e passa per
l’epopea del Nuovo Canzoniere Italiano, di una scuola pubblica dove
un maestro intelligente e creativo può fare tante cose importanti.
La canzone più famosa di Gualtiero Bertelli è Nina,
probabilmente la più bella di tutto il nostro canone della canzone
politica e di protesta, proprio perché la politica non è
sbandierata ma incarnata nei suoi effetti sulle vite, i sentimenti, i
rapporti dei protagonisti. Anche questo è un libro politico, che
racconta senza fare prediche tante stagioni di lotte e stagioni di
crisi, con uno sguardo al tempo stesso partecipe e disincantato, con
l’ironia e il senso dell’umorismo di chi, attraverso cambiamenti
ed evoluzioni, crede ancora alle cose fondamentali che lo hanno
formato. E anche per questo il libro si legge con un piacere non
superficiale. Fra l’altro, non mancano momenti divertenti – per
esempio, l’incontro con un timido e sconosciuto Fabrizio De André
all’esame di compositore per la SIAE; o le irresistibili canzoni
anticlericali scritte con Mario Isnenghi.
Le protagoniste, come dice il titolo,
sono due: la città e la musica. Giustamente, il libro comincia prima
della nascita del protagonista, con la nascita delle case e dei
quartieri: “All’inizio degli anni 30 il governo fascista pensò
di affrontare il problema devastante dei senzatetto con un piano
nazionale di costruzione di case che, per pudore, definì ‘minime’”.
Il ragazzo che ci è vissuto canterà poi: ci vuole un bel coraggio a
chiamarle case, una stanza di quattro metri con un gabinetto alla
turca; “I le ciama case quei disgrassai che ga vissuo per ani da
bestie, che ga ciamà case le sofite, i magaseni, i sotoscala”. Ci
vorrà un sindaco comunista negli anni ’50 per costruire le case
popolari alla Giudecca –
“Campomarte, più o meno cinque
ettari pullulanti di gente, uomini, donne, giovani, anziani e un
numero infinto di bambini riversati da mattina a sera, d’estate
come d’inverno, per le strade”. Da queste strade comincia la
musica di Gualtiero Bertelli, figlio e nipote di operai che qualche
strumento lo suonavano e che alla nascita sentenziano: “Gualtiero
farà il musicista” e lo spediscono a lezione di fisarmonica
all’età di cinque anni: “Metite in testa che la fisarmonica ti
ga da impararla, parché chi che sa un strumento no mor de fame”.
Gualtiero debutterà suonano l’Ave Maria di Schubert con la
fisarmonica alla festa dell’Unità di Campomarte. La storia di
Gualtiero Bertelli musicista, militante politico, autore di canzoni
indimenticabili (“Primo agosto Mestre sessantotto”, “Stucky…”)
è parte della storia della cultura di opposizione da almeno mezzo
secolo;: l’incontro con Luisa Ronchini, la ricerca sulla canzone
popolare a Venezia, l’incontro con Gianni Bosio, i concerti in giro
per l’Italia… Ma Gualtiero non appartiene solo agli anni ’60: a
dieci anni di distanza, darà un seguito a Nina raccontandone
disillusioni e rimpianti; all’inizio del terzo millennio fa squadra
con Gianantonio Stella cantando il racconto dell’emigrazione
italiana anche per ammonirci sulla xenofobia e il razzismo che
prendono piede in Italia e nel suo stesso Nordest; e più tardi
ancora riscopre le figure dei cantastorie antichi e canta ballate
nuove su storie del Novecento veneto e italiano, sconosciute,
marginali e necessarie.
In mezzo, c’è il suo vero mestiere:
quello di maestro elementare, che sceglie, negli anni di fermento
nella scuola, del Movimento di Cooperazione Educativa, di andare a
insegnare nella roccaforte operaia di Mira e scandalizza il
provveditorato presentandosi in jeans e maglietta, e fa i conti con i
doppi turni, con il travaglio della scuola media unica, con la
difficoltà di dare la parola a bambini che non ci sono stati
abituati… “L’altro giorno Luciano non aveva la penna e il
quaderno…” racconta una sua canzone: e lui è il maestro capace
di accorgersi che non è per negligenza ma perché suo padre è
operaio alla Mira, sono in sciopero, non hanno quasi da mangiare.
“Ho sempre amato la storia”, scrive
verso la fine. “Le canzoni l’accompagnano e la documentano, con
continuità e con rappresentatività. Si sono cantati fatti,
speranze, desideri, ma anche contrasti, dolori, inganni… Non c’è
fase della nostra storia che non sia stata accompagnata da canzoni
che ancora oggi la fanno ricordare, amare, rifiutare o temere”. E
conclude: “Non ho mai smesso di dare concerti per raccontare storie
con parole e canti. Storie che avete letto, o che forse leggerete
domani”.
il manifesto 10.2.2015
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