17.4.15

Sul sentiero di Fenoglio (Maria Corti)

Nella nostra epoca, se qualcuno avanza un'idea culturalmente nuova accade che per il grande rumore dei mass media quell'idea impieghi una ventina d'anni ad affermarsi; e quando si afferma ormai è anonima. Giusto vent'anni fa fu edito, postumo, Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, e vi fu chi avanzò l'idea che l'opera fosse la prima e non l'ultima dello scrittore, come allora si supponeva. Dieci anni dopo, nel 1978, uscì presso Einaudi l'edizione critica di tutta l'opera fenogliana, che confermò filologicamente quell'idea, ma il rumore della stampa sul rapporto temporale fra le varie opere continuò. Ora, a vent'anni di distanza, in questo 1988 che segna il venticinquennio della morte di uno dei narratori più autentici e validi del Novecento italiano (spentosi a Torino il 18 febbraio 1963), sono usciti dallo stesso editore, Longo di Ravenna, due libri dedicati a Fenoglio, molto diversi fra loro per tematica, metodo e luogo di origine, ma che portano entrambi conferma all'ordine cronologico fissato dall' edizione critica einaudiana.
Il primo, di una italianista americana, Maria Grazia Di Paolo, docente al Lehman College della City University di New York, è uscito nella collana diretta presso Longo da Aldo Scaglione della New York University e ha per titolo Beppe Fenoglio fra tema e simbolo (pagg. 132, lire 18.000). Come si sa, se molte sono le incompiute di Fenoglio, segno della sua inquietudine stilistica, tuttavia la tematica dello scrittore è abbastanza omogenea: l'attività del narrare prende avvio con una storia di guerra, quella partigiana, e si chiude con un'altra storia di guerra, quella mondiale; protagonista lui nella prima, un familiare nella seconda. Accanto alla forza centripeta dell'universo bellico ecco prendere spicco l'altro mirabile universo, il contadino, entrambi drammatici e maturati all'interno dello stesso spazio geografico e ideale: la minuscola immensità delle Langhe. Il volume della Di Paolo offre un'analisi sottile delle zone chiave dei due mondi, partigiano e langhigiano, dove prendono consistenza alcuni temi che accompagneranno con la loro carica simbolica e potere incombente tutta l'opera.
Primo fra tutti il tema della morte, protagonista dei due capitoli centrali del saggio: Il muro e la morte; Il gorgo e la morte. Le due parole chiave, muro e gorgo, pur alla stessa distanza dal tema della morte, riportano a un diverso, quasi opposto modus moriendi: presso un muro si è fucilati nell'universo bellico, mentre il gorgo del fiume è segnale o marca di una morte prescelta nella cupa vertiginosa avventura contadina. Uccisione nel primo caso, suicidio nel secondo. Di qui l'analisi esemplare del trasformarsi di un racconto della raccolta I ventitre giorni della città di Alba e del suo titolo: da Raffica a lato a Un altro muro, dove il termine muro, concreto elemento presente, assume connotazioni chiaramente simboliche fino a diventare l'ossessivo personaggio del racconto. L'autrice non solo segue lo sviluppo tematico, simbolico e stilistico del binomio morte-muro nelle varie opere di Fenoglio ma, impostando con intelligenza lo studio dello sviluppo creativo e stilistico dei motivi di un tema, rinviene una linea di maturazione progressiva che coincide con l' ordine temporale dell' edizione critica in cinque volumi.
A questo proposito è pertinente e ricco di conferme anche l'appello ai personaggi femminili fenogliani, visti nel loro cammino dal direttamente registrato dei primi testi, più autobiografici, all'invenzione deformante degli ultimi. Intendendo la caratterizzazione di un personaggio come la intese il russo Tomasevskij, cioè un sistema di motivi legati indissolubilmente a quel personaggio, la Di Paolo mostra come Fenoglio plasmi a poco a poco da un'opera all'altra i tratti somatici e psicologici da cui viene fuori la sua donna ideale, la Fulvia di Una questione privata.
Non ultimo punto d'arrivo del libro il recupero di testi della letteratura anglosassone, letti e amati da Fenoglio. E qui per l' ennesima volta dalla stampa rivolgiamo agli anglisti italiani l' invito a fare finalmente attenzione alla massa di traduzioni inedite che riempiono le cartelle 18-20 e alcuni quaderni del Fondo fenogliano di Alba: pensare che la Einaudi negli scorsi anni commissionò una traduzione delle Confessioni di un oppiomane di Thomas de Quincey, mentre ad Alba c'era quella di Fenoglio, su cui aveva i diritti!
L'altro libro, recentemente uscito da Longo, è di Mariarosa Bricchi, Due partigiani Due primavere (pagg. 109). E' un libro con altro punto di vista, più storico-filologico, stilistico in senso stretto e narratologico. Esposti con molta chiarezza i termini della lunga querelle fenogliana, l'autrice prende posizione, non attraverso afflati lirici o ispirazioni personali, non con giudizi di valore passibili a volte di sconcertante rovesciamento, ma con un rigoroso confronto, che è frutto di ammirevole umiltà intellettuale, fra le due diverse redazioni del Partigiano Johnny e Primavera di bellezza, edita nel 1959 sulla base di un'analisi variantistica di tutti i passi paralleli tra i tre testi fenogliani in questione. E' chiaro che questo è l'unico modo (non pare che la logica ne consenta altri) per risolvere il problema dell'ordine di composizione dei tre testi.
Non è certo un quotidiano la sede per entrare in dettagli filologici, ma il lettore di questo bel libretto proverà il piacere che danno le dimostrazioni lucide, logicamente incontrovertibili anche in ambito artistico, e si troverà a stupirsi del fatto che la filologia non è solo un prezioso capitale per l'intelletto, ma può anche essere motivo di godimento mentale. Successivamente la Bricchi, indagata la tecnica compositiva di Primavera di bellezza, mette a fuoco le strategie sintattiche in fieri dai due Partigiani alla Primavera edita, in concomitanza con un originale contributo del docente ginevrino Michele Prandi, uscito in Strumenti critici (n. 56, 1988) da cui risulta un dato importantissimo: come la lingua di Fenoglio nei due Partigiani, per affascinante che sia, offre esiti formali che non escono da quell'opera, in quanto lo scrittore si fa poi più maturo e ricorre a strutture stilistiche meno vistose, ma più raffinate e sottilmente eleganti. Questo il linguista Prandi non lo afferma a priori, ma lo prova con suggestiva documentazione e acribia.
Pochi scrittori hanno saputo come Fenoglio essere così monotematici, cioè parlare sempre delle stesse cose, emettendo messaggi tanto differenti da un libro all'altro: accade che il rifiutato, il messo ai margini, il cancellato, sia prima o poi soggetto a un recupero in funzione di un nuovo e parallelo messaggio, da realizzarsi in una nuova tastiera stilistica. Negli ultimi anni di vita (1961-62) egli scrisse racconti oppure epigrammi, questa volta sui cittadini di Alba, città che un tempo descritta in guerra ora è vista in un'atmosfera provinciale e sonnolenta, con le sue maschere umane, le fermentazioni di desideri, una strana futilità. Ancora nel 1962 qualche testo teatrale di argomento partigiano, poi la strada di Fenoglio si fa buia. Solo ora, a un quarto di secolo dalla morte, in un periodo come il nostro di tante piccole, rumorose, caotiche ambizioni, si intravvede la forza solitaria che emerge dal gran numero di opere interrotte, di traduzioni inedite, dal costante esercizio delle lettere che fu segreta e profonda ragione della vita di questo grande scrittore.


“la Repubblica”,18 novembre 1988  

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