Nella nostra epoca, se
qualcuno avanza un'idea culturalmente nuova accade che per il grande
rumore dei mass media quell'idea impieghi una ventina d'anni ad
affermarsi; e quando si afferma ormai è anonima. Giusto vent'anni fa
fu edito, postumo, Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, e
vi fu chi avanzò l'idea che l'opera fosse la prima e non l'ultima
dello scrittore, come allora si supponeva. Dieci anni dopo, nel 1978,
uscì presso Einaudi l'edizione critica di tutta l'opera fenogliana,
che confermò filologicamente quell'idea, ma il rumore della stampa
sul rapporto temporale fra le varie opere continuò. Ora, a vent'anni
di distanza, in questo 1988 che segna il venticinquennio della morte
di uno dei narratori più autentici e validi del Novecento italiano
(spentosi a Torino il 18 febbraio 1963), sono usciti dallo stesso
editore, Longo di Ravenna, due libri dedicati a Fenoglio, molto
diversi fra loro per tematica, metodo e luogo di origine, ma che
portano entrambi conferma all'ordine cronologico fissato dall'
edizione critica einaudiana.
Il primo, di una
italianista americana, Maria Grazia Di Paolo, docente al Lehman
College della City University di New York, è uscito nella collana
diretta presso Longo da Aldo Scaglione della New York University e ha
per titolo Beppe Fenoglio fra tema e simbolo (pagg. 132, lire
18.000). Come si sa, se molte sono le incompiute di Fenoglio, segno
della sua inquietudine stilistica, tuttavia la tematica dello
scrittore è abbastanza omogenea: l'attività del narrare prende
avvio con una storia di guerra, quella partigiana, e si chiude con
un'altra storia di guerra, quella mondiale; protagonista lui nella
prima, un familiare nella seconda. Accanto alla forza centripeta
dell'universo bellico ecco prendere spicco l'altro mirabile universo,
il contadino, entrambi drammatici e maturati all'interno dello stesso
spazio geografico e ideale: la minuscola immensità delle Langhe. Il
volume della Di Paolo offre un'analisi sottile delle zone chiave dei
due mondi, partigiano e langhigiano, dove prendono consistenza alcuni
temi che accompagneranno con la loro carica simbolica e potere
incombente tutta l'opera.
Primo fra tutti il tema
della morte, protagonista dei due capitoli centrali del saggio: Il
muro e la morte; Il gorgo e la morte. Le due parole
chiave, muro e gorgo, pur alla stessa distanza dal tema
della morte, riportano a un diverso, quasi opposto modus moriendi:
presso un muro si è fucilati nell'universo bellico, mentre il gorgo
del fiume è segnale o marca di una morte prescelta nella cupa
vertiginosa avventura contadina. Uccisione nel primo caso, suicidio
nel secondo. Di qui l'analisi esemplare del trasformarsi di un
racconto della raccolta I ventitre giorni della città di Alba
e del suo titolo: da Raffica a lato a Un altro muro,
dove il termine muro, concreto elemento presente, assume connotazioni
chiaramente simboliche fino a diventare l'ossessivo personaggio del
racconto. L'autrice non solo segue lo sviluppo tematico, simbolico e
stilistico del binomio morte-muro nelle varie opere di Fenoglio ma,
impostando con intelligenza lo studio dello sviluppo creativo e
stilistico dei motivi di un tema, rinviene una linea di maturazione
progressiva che coincide con l' ordine temporale dell' edizione
critica in cinque volumi.
A questo proposito è
pertinente e ricco di conferme anche l'appello ai personaggi
femminili fenogliani, visti nel loro cammino dal direttamente
registrato dei primi testi, più autobiografici, all'invenzione
deformante degli ultimi. Intendendo la caratterizzazione di un
personaggio come la intese il russo Tomasevskij, cioè un sistema di
motivi legati indissolubilmente a quel personaggio, la Di Paolo
mostra come Fenoglio plasmi a poco a poco da un'opera all'altra i
tratti somatici e psicologici da cui viene fuori la sua donna ideale,
la Fulvia di Una questione privata.
Non ultimo punto d'arrivo
del libro il recupero di testi della letteratura anglosassone, letti
e amati da Fenoglio. E qui per l' ennesima volta dalla stampa
rivolgiamo agli anglisti italiani l' invito a fare finalmente
attenzione alla massa di traduzioni inedite che riempiono le cartelle
18-20 e alcuni quaderni del Fondo fenogliano di Alba: pensare che la
Einaudi negli scorsi anni commissionò una traduzione delle
Confessioni di un oppiomane di Thomas de Quincey, mentre ad
Alba c'era quella di Fenoglio, su cui aveva i diritti!
L'altro libro,
recentemente uscito da Longo, è di Mariarosa Bricchi, Due
partigiani Due primavere (pagg. 109). E' un libro con altro punto
di vista, più storico-filologico, stilistico in senso stretto e
narratologico. Esposti con molta chiarezza i termini della lunga
querelle fenogliana, l'autrice prende posizione, non attraverso
afflati lirici o ispirazioni personali, non con giudizi di valore
passibili a volte di sconcertante rovesciamento, ma con un rigoroso
confronto, che è frutto di ammirevole umiltà intellettuale, fra le
due diverse redazioni del Partigiano Johnny e Primavera di
bellezza, edita nel 1959 sulla base di un'analisi variantistica
di tutti i passi paralleli tra i tre testi fenogliani in questione.
E' chiaro che questo è l'unico modo (non pare che la logica ne
consenta altri) per risolvere il problema dell'ordine di composizione
dei tre testi.
Non è certo un
quotidiano la sede per entrare in dettagli filologici, ma il lettore
di questo bel libretto proverà il piacere che danno le dimostrazioni
lucide, logicamente incontrovertibili anche in ambito artistico, e si
troverà a stupirsi del fatto che la filologia non è solo un
prezioso capitale per l'intelletto, ma può anche essere motivo di
godimento mentale. Successivamente la Bricchi, indagata la tecnica
compositiva di Primavera di bellezza, mette a fuoco le
strategie sintattiche in fieri dai due Partigiani alla
Primavera edita, in concomitanza con un originale contributo
del docente ginevrino Michele Prandi, uscito in Strumenti critici (n.
56, 1988) da cui risulta un dato importantissimo: come la lingua di
Fenoglio nei due Partigiani, per affascinante che sia, offre
esiti formali che non escono da quell'opera, in quanto lo scrittore
si fa poi più maturo e ricorre a strutture stilistiche meno vistose,
ma più raffinate e sottilmente eleganti. Questo il linguista Prandi
non lo afferma a priori, ma lo prova con suggestiva documentazione e
acribia.
Pochi scrittori hanno
saputo come Fenoglio essere così monotematici, cioè parlare sempre
delle stesse cose, emettendo messaggi tanto differenti da un libro
all'altro: accade che il rifiutato, il messo ai margini, il
cancellato, sia prima o poi soggetto a un recupero in funzione di un
nuovo e parallelo messaggio, da realizzarsi in una nuova tastiera
stilistica. Negli ultimi anni di vita (1961-62) egli scrisse racconti
oppure epigrammi, questa volta sui cittadini di Alba, città che un
tempo descritta in guerra ora è vista in un'atmosfera provinciale e
sonnolenta, con le sue maschere umane, le fermentazioni di desideri,
una strana futilità. Ancora nel 1962 qualche testo teatrale di
argomento partigiano, poi la strada di Fenoglio si fa buia. Solo ora,
a un quarto di secolo dalla morte, in un periodo come il nostro di
tante piccole, rumorose, caotiche ambizioni, si intravvede la forza
solitaria che emerge dal gran numero di opere interrotte, di
traduzioni inedite, dal costante esercizio delle lettere che fu
segreta e profonda ragione della vita di questo grande scrittore.
“la Repubblica”,18
novembre 1988
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