Da anni, molti anni, si
attendeva una edizione commentata del Convivio di Dante, che
andasse oltre quella di Busnelli e Vandelli, ormai storicamente
superata nonostante l'Appendice di aggiornamento dal 1935 al 1961
di Quaglio nella seconda edizione (1964). Ora, come dono natalizio
alla cultura italiana, ecco l'ottima edizione a cura di Cesare Vasoli
e Domenico De Robertis, che costituisce il Tomo I, Parte II, delle
Opere minori (Ricciardi, pagg. 1107, lire 100.000).
Descriviamo prima il volume dall'esterno: a Vasoli si deve l'acuta e
aggiornatissima Introduzione (ben 89 pagine), oltre al vasto e
puntuale commento a piè di pagina a tutta quanta l'opera in prosa,
mentre De Robertis ha fatto un commento stilistico alle tre Canzoni
con cui si aprono i Trattati II, III e IV.
Il Convivio è
opera affascinante di un intelletto intrepido, in continuo moto, teso
allo sviluppo delle concezioni più avanzate della cultura del suo
tempo e ad un dialogo con esse, da cui traspaiono anche le personali
crisi di pensiero, responsabili in parte dell'interruzione del
Convivio dopo il Trattato IV, mentre all'inizio dall'autore ne
erano previsti quindici (Dante stesso accenna nell'opera a quelli che
sarebbero stati gli argomenti dei trattati VII, XIV e XV). E si
tratta anche di un'opera che, come giustamente scrive Vasoli, nel
corso degli ultimi cinquant'anni ha suscitato le più accese
discussioni ed è stata al centro dei più diversi tentativi di
fissare le grandi linee dell'itinerario spirituale del Poeta o di
stabilirne le coordinate dottrinali, nel corso di una profonda crisi
culturale, religiosa e politica destinata a generare la suprema
esperienza della Commedia.
Non c'è da illudersi,
Vasoli lo sa benissimo, che un ottimo commento significhi essere
esaurito il commento al Convivio; e non solo per un principio
generale, secondo cui un'opera di un grande artista non si identifica
appieno con le sue decodifiche, ma perché nel caso specifico
l'ultimo ventennio del nostro secolo ci ha offerto e ancora ci sta
offrendo una graduale e continua intromissione, nella nostra cultura,
di opere filosofiche medievali o di traduzioni medievali, passibili o
meno di diretta lettura dantesca, finora sepolte nei manoscritti di
varie biblioteche d'Europa e che ora, finalmente edite, ci vengono
incontro tranquille e piene per noi di sorprese, di segreti in grado
di illuminare punti oscuri dell'opera di quella intelligenza dalla
curiosità vorace che fu la mente dantesca. Penso alle mirabili
collane tedesche, danesi, statunitensi, al recentissimo (di qualche
mese fa) completamento da parte degli editori di Colonia della stampa
del Super Ethica, cioè del commento di Alberto Magno
all'Etica Nicomachea, che fu importantissima fonte dantesca
del Convivio. Questo è il principale motivo per cui oggi non
possiamo più sbrigarcela coi commenti, per quanto illustri, del
passato; e questo è il primo suggerimento e ammaestramento che
proviene dal vasto e molto importante lavoro di Vasoli, il quale è
perfettamente al corrente delle nuove edizioni filosofiche e dei
contributi recenti alla storia del pensiero dantesco.
L'intelligente e
agguerrita Introduzione mette inoltre a fuoco alcuni punti
chiave, che troveranno specifica conferma nel corso delle preziose
Note ai quattro Trattati. Uno di questi punti chiave è la
parziale riduzione degli influssi sul Convivio dell'opera di
San Tommaso a favore di quella di Alberto Magno, il maestro che forse
ha più influito sulla sua formazione filosofica e scientifica. Di
fronte a un'affermazione del genere finalmente si tira il fiato! Sì,
perché, a leggere il commento di Busnelli e Vandelli o le
riflessioni di Gilson, si riceveva l'impressione che Dante non
sapesse scrivere senza la falsariga dei testi di San Tommaso, e che
il Convivio fosse di conseguenza un blocco monolitico. Con la
perdita, quindi, del fascino di un pensiero che invece si muove a suo
agio tra vari modelli ed è estremamente dinamico, tanto da giungere
alla soglia di esiti intellettuali persino drammatici. Alberto Magno,
che non a caso fu maestro tanto di San Tommaso che di Sigieri di
Brabante, ebbe un fecondo incontro con il pensiero di Aristotele e
degli aristotelici e Peripatetici arabi. Probabilmente da lui Dante
assume la nozione del connubio (come mostrai altrove) studium-amor,
che gli farà scrivere in III, XII, 2: “Per Amore intendo lo studio
lo quale io mettea per acquistare l'amore di questa donna”. La
quale donna naturalmente è la filosofia aristotelica.
Al proposito Vasoli
scrive: “Perché a fondamento del discorso del Convivio sta
la profonda persuasione che l'auctoritas della Filosofia (e
del filosofo per eccellenza, Aristotele, il maestro di color che
sanno) deve essere sovrana e libera nel suo dominio, e che il suo
fine è indicare la sola felicità a noi possibile in questa vita.
Postillerei che nel Convivio l'esposizione dell'idea aristotelica di
felicità conseguente alla contemplazione del Vero, per quanto
eloquente, lo è meno della manifestazione dantesca della propria
esperienza di felicità mentale: “Amor che ne la mente mi ragiona”
è uno degli incipit in assoluto più belli della poesia italiana. A
questo punto il poeta ha personificato la filosofia aristotelica come
i pittori di affreschi, frequenti nel Sud d'Italia ma presenti
ovunque, o i miniatori, hanno reso con una bellissima figura di donna
con aureola crucifera la Aghia Sofia o Santa Sapienza dei
Proverbi di Salomone. Un passo più in là fa Dante
trasformando la filosofia in figura o allegoria d'amore. Ma questo
stato di grazia finirà col Trattato III.
Un altro punto chiave del
commento di Vasoli è appunto il riconoscimento di una cesura fra il
Trattato III e il IV: in quest'ultimo, per una crisi di pensiero che
ci è impossibile esporre qui, il poeta malinconicamente abbandonerà
il linguaggio dell'amore perché è l'amore stesso per la filosofia
puramente aristotelica a entrare in crisi. Tutto viene terremotato:
al posto delle virtù etiche aristoteliche prenderanno quota, nel
Trattato IV, le quattro virtù cardinali; all'idea di piena felicità,
compatibile con la vita terrena, data dalla contemplazione
filosofica, si sostituirà l'idea che, non potendo l'uomo sulla terra
contemplare Dio se non per i suoi effetti, non c'è quaggiù alcuna
piena felicità, situazione raggiungibile solo in Cielo. Mutato il
genio regista, muta l'ottica delle cose; prende allora rilievo la
discussione sulla nobiltà nelle sue varie accezioni, mutano le fonti
e il linguaggio. Personalmente credo che la cesura porti anche a un
distacco temporale.
La canzone in apertura
del Trattato IV, Le dolci rime d' amor ch' i' solìa si stacca
essa pure in modo sostanziale dalle precedenti perché non è più
allegorica e, rifiutando le dolci rime a favore di un discorso di
tipo argomentativo, offre segnali del mutamento di prospettiva
dantesca. Un tutto che però non traspare dal commento di De
Robertis, piuttosto asettico in quanto rivolto a illuminare
linguisticamente e stilisticamente le strutture formali delle Canzoni
in rapporto alla tradizione stilnovistica. Per concludere, siamo
particolarmente grati a Vasoli che, avendo apprestato un commento
volto a rendere lo sviluppo diacronico del pensiero di Dante, libera
dall'imbarazzo definitorio che proveniva dal dover affiancare
definizioni dantesche o citazioni fra loro divergenti (per esempio, a
proposito del rapporto filosofia-teologia). E' il cammino stesso del
pensiero dantesco, in special modo dai Trattati II e III al IV, a
giustificare le divergenze: sono cose che succedono nell'universo
della creazione, soprattutto ai Grandi. E un'altra riflessione si
genera alla lettura di questo pertinente commento: l'importanza
dell'interdisciplinarità, nel caso specifico della formazione e
cultura filosofica del commentatore, che può abbondare in felici
accostamenti e cogliere il senso di una lontana cultura, che è
insieme filosofico-simbolica e artistica.
“la Repubblica”, 28
dicembre 1988
Nessun commento:
Posta un commento