In
un “Contemporaneo” (così si chiamavano i supplementi monografici
di “Rinascita”) dedicato al bicentenario della Rivoluzione
francese ho trovato questa intervista allo storico inglese Eric
Hobsbawm siglata b.g., quasi certamente Bruno Gravaguolo, che curò
nello stesso inserto altre interviste e servizi. (S.L.L.)
-
Professor Hobsbawm, discutendo di rivoluzione vengono spesso
comparati e distinti fra di loro i modelli della rivoluzione
americana, inglese e francese. Qual è l'origine e la validità
attuale di questo criterio storiografico e in che senso il «modello
francese» occupa storicamente una posizione del tutto particolare
rispetto ai suoi antecedenti?
«Al
di là delle loro profonde differenze le rivoluzioni inglese
americana e francese, assieme alla lotta degli olandesi per
l'indipendenza contro la Spagna, sono sempre state percepite come una
successione di avvenimenti da cui è emersa la realtà della lotta
rivoluzionaria quale modello principale dei cambiamenti storici
nell'età moderna e come base dello sviluppo nazionale. Ciascuna di
queste rivoluzioni naturalmente si è riferita ai suoi antecedenti.
Ma la prima novità della Rivoluzione francese è stata proprio
quella di aver potuto congiungere le due rivoluzioni precedenti,
quella inglese e quella americana. Dalla prospettiva del 1789 infatti
queste ultime vennero viste non come incidenti interni e specifici
nella storia dei loro paesi, ma come eventi di una serie appartenente
ad un insieme storico in movimento. Tradizionalmente il caso inglese
e il caso francese sono stati sempre contrapposti come modelli
distinti. Per i liberali moderati in particolare la rivoluzione
inglese costituiva il modello preferito perché aveva evitato gli
eccessi del giacobinismo. La rivoluzione francese del 1830 per
esempio si richiamava esplicitamente all'esempio inglese tentando di
plasmarsi su di esso. Quanto ai tratti specifici più vistosi e
durevoli della Rivoluzione del 1789 essi consistono in quel che
segue: 1) le sue ripercussioni straordinarie e immediate (i cui echi
politici erano destinati a influenzare anche la rivoluzione russa nel
nostro secolo) e sottolineate subito dai successi degli eserciti
rivoluzionari francesi i quali hanno conquistato gran parte del
continente europeo trasformandolo direttamente o indirettamente; 2)
il carattere drammatico e spettacolare degli avvenimenti francesi
dagli anni 1789 in poi al punto tale che le personalità e gli
episodi della storia rivoluzionaria francese di quegli anni, da
Mirabeau a Robespierre a Napoleone, dalla Bastiglia al Terrore, al 18
Brumaio, entrarono a far parte della comune educazione europea
dell'800. Thomas Carlyle uno dei grandi pensatori britannici
dell'800, autore di una celebre storia della Rivoluzione francese,
definì in tal senso la Rivoluzione come "il grande poema dei
nostri tempi"; 3) infine la Rivoluzione francese, a differenza
delle rivoluzioni precedenti, indicava il cammino verso altre
rivoluzioni sociali, più radicali, suggerendo modelli per il loro
futuro. Tutti i rivoluzionari dell'800, incluso Marx, cominciavano
sempre con l'analisi delle esperienze che andavano dal 1789 al 1799».
— Ricominciamo
allora anche noi di qui. Quello del carattere borghese del 1789
costituisce un canone consolidato di indagine che ricompare con
insistenza negli studi marxisti. Quanto è ancor efficace tale
paradigma interpretativo?
«La
Rivoluzione francese come rivoluzione borghese non è in prima
istanza una definizione marxista, ma il frutto dell'interpretazione
dei pensatori e dei politici liberali e borghesi francesi dei primi
anni Venti del XIX secolo, i quali riflettevano sulle proprie
esperienze dell'adolescenza e sulla giovinezza. È da costoro che
Marx asserisce di averla ripresa.
I
liberali francesi moderati la videro come rivoluzione borghese perché
rappresentò quel che Tocqueville chiamò classe intermedia la quale
voleva distruggere sia il feudalesimo che l'assolutismo, cercando
nello stesso tempo di tenere le masse lontane dal potere. Difatti le
classi borghesi avrebbero preferito una rivoluzione effettuata sul
modello inglese, e piuttosto simile a quella del 1688, che non a
quella del 1649.
La
loro opinione generale fu che nel 1791 la Rivoluzione raggiunse i
suoi obiettivi, ma a quel punto i moderati incalzati dalla
controrivoluzione per farla sopravvivere dovettero fare appello alle
masse, le quali a loro volta espressero un regime giacobino, sebbene
di breve durata. Dopodiché il problema fu quello relativo alla
modalità con cui ristabilire su durevoli basi la rivoluzione
moderata.
I
moderati pensarono che un tale traguardo fosse stato raggiunto con la
restaurazione di Luigi XVIII quale monarca costituzionale di fatto.
Invece il regime cominciò a muoversi verso destra. A quell'epoca
dunque il modello di rivoluzione borghese era stato consapevolmente
formulato e la rivoluzione del 1830 fu condotta consciamente su
quella base. E dovrei aggiungere che i rivoluzionari borghesi non
dubitarono mai del fatto che la nuova società borghese sarebbe stata
una società capitalistica. Io stesso non mi sento di dissentire da
quel che fu al riguardo il pensiero di Mignet, Guizot e Tocqueville.
Tuttavia,
c'è una versione della teoria della rivoluzione borghese che è
stata puntualmente criticata. È la tesi secondo cui nel 1789 c'era
già una consapevole classe borghese capitalista che aspettava di
rovesciare il feudalesimo, di sostituirsi al re e all'aristocrazia in
quanto classe dominante. Tale versione fu proposta da alcuni storici
marxisti, che indubbiamente ragionavano per analogia, vale a dire sul
modello del rapporto di classe che essi ritenevano sussistente tra
lavoratori e capitalisti nella fase immediatamente precedente
l'inevitabile rivoluzione del proletariato. È chiaro adesso che
quella russa non poteva essere e non era la situazione nel 1789. E
infatti i grandi storici della rivoluzione non hanno mai adottato un
approccio così semplicistico. Ad ogni modo criticare una versione
della definizione di "rivoluzione borghese" non significa
negare che storicamente la francese fu una rivoluzione borghese».
—
C'è
stato comunque nell'ultimo decennio un moltipllcarsi di contributi e
di approfondimenti tesi a relativizzare il carattere di classe, la
centralità assoluta e il «mito» della stagione rivoluzionaria
francese. Un fenomeno questo che riguarda non solo la Francia ma
anche il mondo anglossassone. Come giudica questa discussione?
«Gli
spunti che emergono dal dibattito francese sulla rivoluzione in
occasione del suo bicentenario sono di scarsissimo interesse storico.
Investono sostanzialmente la politica e le ideologie attuali, come
del resto hanno sempre fatto i dibattiti pubblici sulla rivoluzione.
L'attuale dibattito in Francia concerne tanto il 1789 quanto il 1917.
I repubblicani e la sinistra tradizionale, comunisti compresi, stanno
dalla stessa parte, seppure dissentono sulla questione se le
celebrazioni debbano o meno riferirsi anche alla fase radicalizzata
della rivoluzione del 1793-94. Una disagiata miscela di reazionari e
di liberali anticomunisti invece si attesta sul fronte opposto. I
reazionari colgono l'occasione non tanto di commemorare la
rivoluzione quanto di condannarla, introducendo nella discussione un
elemento insensato concettualmente e improprio quale il "genocidio".
I liberali anticomunisti cercano di sconfessare l'idea della
inevitabilità della rivoluzione e della sua così vasta e profonda
portata e insistono nella critica a quelle che essi ritengono teorie
marxiste.
Ma
la maggior parte dei contributi francesi a questo dibattito è
costituito da reinterpretazioni del dato storiografico e
paradossalmente, nell'esaminare il materiale più recente, guardano
più a quello anglosassone che a quello francese. Nondimeno si deve
notare come, mentre la ricerca anglosassone in anni recenti sia stata
critica verso le interpretazioni tradizionali della Rivoluzione
francese, il suo sbocco è molto meno politicamente revisionista
delle tesi di molti scrittori francesi che se ne avvalgono. Prima di
tutto gli storici inglesi e americani riconoscono che la rivoluzione
è un fatto fondamentale nella storia del XIX secolo».
—
Lei
ha evocato di sfuggita gli anni 1793-1794. Una delle questioni più
dibattute, anche in Italia, è quella del giacobinismo e del suo
ruolo. Qual è in sintesi la sua valutazione storica del 'momento
giacobino» della rivoluzione e perché questo problema torna ancora
a riproporsi?
«Il
problema cruciale della Rivoluzione francese come rivoluzione
borghese era ed è quello del come conseguire e conservare propri
obiettivi senza usare metodi non-democratici. Dovette appellarsi ai
giacobini (anche a costo di rischiare una rivoluzione sociale) e a
Napoleone (tanto da farne derivare un regime militare). I liberali
originari del 1820 ed anni seguenti espressero il parere che la
rivoluzione sarebbe stata sconfitta senza la cosiddetta "seconda
rivoluzione" del 1792-94; come è chiaro che la Francia sarebbe
certamente stata sconfitta nelle guerre di quegli stessi anni se non
fosse stato per lo sforzo bellico organizzato dalla Repubblica
giacobina.
Invece
i liberali moderni dissentono profondamente perché ravvisano in
quella giacobina la via maestra che conduce alle rivoluzioni
proletarie e sociali che essa indubbiamente ispirò. I giacobini
senz'altro ispirano i democratici, i socialisti ed i comunisti del
XIX e del XX secolo. La borghesia liberale si è abituata alla
democrazia perché non ebbe mai come sbocco la rivoluzione sociale,
purtuttavia non rinunciò ad osteggiare il giacobinismo proprio
perché era democratico. Comunque sia, i liberali rimangono
antigiacobini perché il giacobinismo continuò ad ispirare le
rivoluzioni sociali, specialmente quelle socialiste e comuniste. Quel
che permane ambiguo in sede di giudizio storico è l'atteggiamento
verso i giacobini. Si sostiene al medesimo tempo che fossero e che
non fossero borghesi. Tale atteggiamento per esempio si può
rinvenire in Gramsci, personalmente credo tuttavia che questo modo di
porre la questione sia anacronistico».
— Il
giacobinismo, Lei sostiene, continuò ad ispirare le rivoluzioni
successive. Dal suo punto di vista quindi, anche la rivoluzione d
Ottobre, fu in certa misura giacobina. Questo richiamo al passato da
parte dei bolscevichi non rivestiva dunque soltanto un carattere
simbolico ma coincideva con i tratti effettivi delle vicende nate
dall'Ottobre, incluso il «ricorso» termidoriano?
«La
rivoluzione di Ottobre fu una rivoluzione giacobina in due sensi.
Innanzitutto perché il potere fu conquistato da un corpo politico
organizzato, un partito di avanguardia, e senz'altro i giacobini
possono essere considerati degli antenati dei partiti di quel genere.
In secondo luogo fu una rivoluzione giacobina nel senso gramsciano,
perché fu spinta oltre il punto in cui i suoi sviluppi spontanei
l'avevano portata, fino a giungere a una posizione più avanzata “di
quanto le condizioni storiche le avrebbero consentito di andare".
Storicamente parlando, si intende che fu una rivoluzione tutt'affatto
diversa dalla francese, anche se i bolscevichi erano costantemente
consapevoli del precedente della Francia, specialmente dei pericoli
del Termidoro e del bonapartismo. E così, dopo il 1917, la
Rivoluzione russa rimpiazzò quella francese come modello
internazionale delle grandi rivoluzioni nel mondo.
Gli
apparenti parallelismi tra gli sviluppi interni in Francia ed in
Russia all'indomani delle rispettive rivoluzioni possono essere
guardate in una visione più generale, come davvero Gramsci fece
quando paragonò i giacobini a Cromwell e alle Teste Rotonde.
Devono
per forza tutte le più grandi rivoluzioni spingersi oltre il punto
al quale le condizioni storiche permetterebbero loro di giungere,
così da dover sviluppare regimi che devono ritrattare le tesi che
nel lungo e nel breve periodo risultarono insostenibili e non
funzionanti? Io non credo che specifici esempi tratti dalla
rivoluzione in Francia siano oggi calzanti, anche se è comprensibile
perché i bolscevichi anche negli anni Venti e Trenta vi si
riferirono.
Il
problema di fondo è che le grandi rivoluzioni come le grandi guerre
non possono né essere pianificate per intero né controllate
completamente. Non possono essere iniziate e finite a comando,
straripano dalle intenzioni dei partecipanti come dei fiumi in piena
e vanno poi reincanalate. Che le grandi rivoluzioni fossero un
fenomeno naturale piuttosto che un fatto umano politico, fu una
scoperta fatta durante la Rivoluzione francese e come risultato delle
esperienze in seno ad essa».
—
Veniamo
infine al presente. A suo avviso l'idea di rivoluzione violenta, così
come ci è stata tramandata dalle rivoluzioni del passato, rimane
ancora una esperienza centrale e massimamente significativa per la
trasformazione storica, oppure essa appartiene ad una costellazione
temporale in via di superamento?
«Gli
ultimi due secoli costituiscono un'era di globali cambiamenti storici
attraverso la rivoluzione. Non c'è motivo di credere che questa era
stia finendo. Le fasi più recenti di tali cambiamenti si registrano
negli anni Settanta e fanno marcare rivoluzioni in varie parti
d'Africa, come l'Etiopia, in Portogallo, in Iran ed in Nicaragua.
D'altro canto in molti paesi nel passato si è riusciti ad ottenere
sostanziali mutamenti sociali con mezzi diversi dalla rivoluzione,
anche se nel loro background
storico si colloca una rivoluzione, come nel caso dell'Inghilterra.
Tuttavia in Inghilterra dal 17° secolo in poi ci sono stati
cambiamenti senza il ricorso alla rivoluzione. Non c'è motivo per
cui ciò non possa accadere in altri paesi. In sostanza, la questione
circa la sopravvivenza dell'epoca delle rivoluzioni non deve
concernere una generalizzazione storica, ma le concrete esperienze
storiche di singoli paesi. Se mi si chiede: ci sarà una nuova
Rivoluzione francese, la risposta è: non ce n'è né una probabilità
né una necessità. Se invece mi si chiede se la rivoluzione è un
fattore di cambiamento storico nel mondo che ha esaurito la sua
funzione, la risposta è: no».
“Rinascita”,
sabato 11 marzo 1989
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