Il Dioniso di Cerveteri, con corno e tirso |
«Su una cosa insisto
però: il signor Nietzsche mantenga la parola: brandisca il tirso,
viaggi dall'India alla Grecia, ma scenda giù dalla cattedra, sulla
quale egli deve insegnare la scienza! Ai suoi piedi raduni tigri e
pantere, ma non la gioventù filologica della Germania, che nella
ascesi e nella abnegazione del lavoro deve imparare a cercare la
verità prima di tutto».
Sono le parole conclusive
del pamphlet scagliato nel 1872 dal Wilamowitz ventiquattrenne contro
La nascita della tragedia di Nietzsche. Il pamphlet era
sarcasticamente intitolato Filologia futurale
(Zukunftphilologie), conformemente ad un uso stranamente
dozzinale del concetto di «pertinente al futuro» (o, se si vuole,
di «volto al futuro») nel senso e come equivalente di «pessimo».
Alla superficie si trattava di una rissa accademica. Il giovane
dottor Wilamowitz, bravissimo, attaccava, con l'agguerrito libello,
l'opera geniale, e vulnerabile tecnicamente, del di poco meno giovane
Nietzsche, imposto, per una congiuntura accademica, sulla cattedra di
filologia classica di Basilea prima ancora del conseguimento del
dottorato. Nella sostanza vi era la insofferenza del
razionale-storicista Wilamowitz contro la propensione
irrazionalistica che era dato intravedere dietro la scoperta
nietzscheana del dionisiaco come valore profondamente annidato nel
cuore stesso della grecità.
La malcelata propensione
per il dionisiaco da parte dell'autore della Nascita della
tragedia era apertamente denunciata dal Wilamowitz nel finale del
libello, là dove invitava il bersagliato rivale a travestirsi da
Dioniso, e lo scongiurava, al tempo stesso, di lasciare la cattedra
universitaria. La caricatura di Nietzsche era, insieme, la caricatura
di Dioniso, l'ambiguo domatore di tigri e pantere. Fino a che punto
un tale atteggiamento denotava incomprensione? Non condivido
l'atteggiamento di chi vede, in modo manicheo, nel Wilamowitz
l'ottuso negatore di una grande scoperta ed in Nietzsche il genio
misconosciuto. Nell'ultimo, e forse più importante libro del
«princeps philologorum», La fede dei Greci (terminato dal
Wilamowitz in punto di morte), vi sono pagine di grande rilievo ed
efficacia sulla religione dionisiaca. Vi era, piuttosto, un allarme
etico in quello sfrenato attacco giovanile: per così dire un appello
a non lasciarsi prendere da Dioniso.
Una tradizione, che si
potrebbe brachilogicamente definire dionisiaca, si è nondimeno
sviluppata negli studi sul mondo greco: soprattutto negli studi sulla
religione greca (penso a Zagreus di Macchioro), ma anche, e
soprattutto, sotto l'impulso dell'antropologia comparativistica, e da
ultimo nella storia del pensiero filosofico. Non è senza una certa
impressione che si incontra, nel I volume dei Presocratici a
cura di Giorgio Colli (coeditore, non a caso di Nietzsche col
Montinari), Dioniso come primo dei pensatori presocratici, seguito
immediatamente da Apollo. «Perché faccio cominciare da Dioniso il
discorso sulla sapienza?», così esordiva Colli nella prefazione,
«Con Dioniso, invero, la vita appare come sapienza, pur restando
vita fremente: ecco l'arcano». Davvero non si vede perché manchi
Zeus, col quale - secondo Esiodo - si instaurava il regno della
giustizia.
Studioso di religione
greca, Marcel Detienne, ben noto al pubblico italiano per i suoi
studi sui Maestri di verità (Laterza 1977) e su Metis
(Laterza 1974), su quella cioè che qualche hanno fa, in un
saggio di successo, venne definita l'intelligenza «bassa», quella
«dei marinai e delle donne», Marcel Detienne, dicevo, si è via via
fatto, in questi ultimi anni, secondo un coerente sviluppo, biografo
di Dioniso. Nulla di strano, dal momento che Colli aveva già
provveduto a classificarne in «testimonianze e frammenti» (secondo
il modello dei Vorsokratiker di Hermann Diels) il pensiero.
Dopo Dioniso messo a morte (1977, in italiano Dioniso e la
pantera profumata), ecco ora
Dioniso a cielo aperto
(1986, Laterza 1987). È, quello di Detienne, uno sguardo
costantemente rivolto a scrutare l'Es del mondo greco attraverso quel
grande rivelatore che è appunto la religione dionisiaca. Il filo
conduttore è, in particolare in quest'ultimo saggio, il nesso tra
religione dionisiaca, follia e liberazione (attraverso le trance,
la follia, il separatismo) delle donne: sulle quali, com'è chiaro
dalle testimonianze, il dio esercita una straordinaria attrazione.
Detienne riespone dati annegati nelle fonti e li valorizza anche come
rutilante narratore. Rievoca ad esempio la straordinaria e crudele
esistenza delle donne raccoltesi su di un'isola alla foce della Loira
(Nan-tes?), le cosiddette «mogli dei Namneti», le quali raggiungono
a nuoto i loro mariti solo quando desiderano avere un rapporto
sessuale, ed una volta l'anno debbono rifare in poche ore, prima del
tramonto, il tetto del santuario di Dioniso, ed ogni volta massacrano
e smembrano quella di loro che farà cascare (accade ogni volta) il
suo carico nel corso del lavoro. La fonte è il geografo Strabene, di
età augustea; la fonte di Strabene sarà Posidonio. Dioniso in
Gallia è davvero una straordinaria presenza.
Ma l'estasi può assumere
altre forme, anche contagiose: è il cosiddetto «dionisismo», che
colpì le figlie di Preto, re di Argo, e, via via, si estese a tutte
le spose. Segno della follia — lo racconta lo pseudo-Apollodoro —
era che le donne «uscivano di casa», uccidevano i figli, sparivano
nei boschi.
La liberazione non è
però solo omicida. Un episodio noto a Plutarco (Sulla loquacità),
che Detienne non cita, illumina la figura di una etera ateniese dal
tipico nome di Leonessa. Amante di Armodio e Aristogitone e degli
altri congiurati, Leonessa fu catturata dopo il fallimento
dell'attentato contro il tiranno di Atene; torchiata perché
parlasse, rimase muta, patendo le conseguenze del suo coraggio.
Ammirati, gli Ateniesi le dedicheranno un monumento, all'ingresso
dell'acropoli, raffigurante una leonessa senza lingua. Plutarco
precisa che Leonessa era iniziata ai misteri di Bacco, «danzava
ebbra attorno al bel cratere dell'amore ed era stata iniziata alle
orge segrete del dio». E' notevole che fosse appunto questa la
ragione per cui a lei, pur donna, era stato aperto l'occulto e
mortale patto della congiura.
“latalpagiovedì – il
manifesto”, ritaglio senza data, ma 1987
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