Il 3 ottobre 1849 Edgar
Allan Poe, poco più che quarantenne, viene trovato svenuto in una
strada di Baltimora. Etilista all'ultimo stadio, povero in canna,
sarebbe morto pochi giorni dopo in un anonimo ospedale. Certo gli
ultimi due secoli sono gremiti di vite spericolate e disperate,
nonché leggendarie, di scrittori, filosofi e teatranti, ma solo in
pochi casi la biografia può davvero stare alla pari con il mito: Poe
rientra fra questi. Si capisce perciò come Stephen Marlowe,
prolifico autore di romanzi «misti di storia e invenzione» (come Il
Viceré del nuovo mondo, dedicato a Cristoforo Colombo), abbia
fatto di Edgar Allan Poe della vita di Poe il punto di partenza per
un romanzo, Il faro alla fine del mondo (Tropea,
1998). Il successo editoriale del grande e sfortunato
scrittore di Boston non conosce del resto pausa, cometestimonia anche
una nuova selezione dei Racconti, curata da Maria Rosa
Mancuso.
Il libro di Marlowe è
suggestivo e intelligente, ma un po' compiaciuto nel perseguire con
metodica follia gli assunti di partenza, con sprezzo flagrante del
pericolo di manierismo. Chiave di volta è la scelta di affidare il
racconto alla voce dello stesso Poe. In questo modo Marlowe persegue
contemporaneamente due scopi in linea di principio opposti: da un
lato il narratore autobiografico (costruito a partire da un'attenta
ricostruzione storica) attesta la realtà dei fatti raccontati; al
tempo stesso però, in quanto ubriacone prossimo al collasso, ne
esibisce fin dal primo momento l'inattendibilità. Il gioco però è
ancora più sottile. Molti racconti di Poe sono fatti in prima
persona da narratori pazzi, maniaci, ubriachi, allucinati: Marlowe ne
imita la struttura dilatandola in un impianto romanzesco
pseudo-autobiografico di straordinaria complicazione. Il Faro alla
fine del mondo è poi anche un vero collage di citazioni: c'è un
«Preferirei-di-no» che ripete il leitmotiv del Bartleby di
Melville; l'uso reiterato della formula Lo strano caso dei
fratelli Poe evoca Lo strano caso del dottar Jekyll e di Mr.
Hyde; il tema del doppio
si sovrappone a quello dei due fratelli opposti e complementari, come
in un altro capolavoro di Stevenson, Il signore di Ballantrae.
Conrad fa capolino da molte parti, per esempio nell'ossessiva
ricerca di Henry Poe, fratello di Edgar, sempre evocato e sempre
assente come il Kurtz di Cuore di tenebra: e l'elenco potrebbe
continuare. Frequentissimi sono poi gli spunti esplicitamente
meta-narrativi. Ma la partita più importante Marlowe la gioca
moltiplicando le identità del narratore e i livelli di realtà. Poe
infatti è ubriaco, e non sappiamo se quello che racconra sia vero;
inoltre egli s'identifica con altri personaggi, ognuno dei quali da
luogo a una narrazione, che un po' conferma un po' contraddice le
altre. Il narratore Poe ricorda il proprio passato, ma questo passato
corrisponde solo in parte con quello registrato dagli storici: per il
resto rimanda invece a vite sognate, virtuali, che si mescolano con
quelle degli altri personaggi. Edgar racconta poi del fratello Henry,
ma spesso si confonde con lui. Senza contare che i personaggi reali
si sovrappongono a quelli dei Racconti, come Dupin. Trascinato
in questo vortice, il lettore è affascinato, ma forse anche troppo
sistematicamente spiazzato dalle continue sorprese. Il punto decisivo
è che Marlowe, seguendo passo passo le peripezie mentali del
protagonista e narratore, vuole ricostruire dall'interno
un'esperienza allucinatoria, costringendo il lettore a parteciparvi:
e chi vive la realtà dell'allucinazione sarà colto inevitabilmente
dal sospetto che forse l'allucinazione sia la realtà stessa. Come
suona una celebre domanda di Poe, non a caso posta in epigrafe e poi
più volte ripetuta: «Non è forse tutto ciò che vediamo o crediamo
di vedere nient'altro che un sogno dentro un sogno?».
“Diario della
settimana”, 27 gennaio 1999
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