Epidromo. Il sacrificio del maialino selvatico in unvaso attico a figure rosse. Museo del Louvre, Parigi |
Mentre dipingeva bisonti
e puledri nelle grotte, o li graffiava su pareti rocciose, l'uomo
incominciava a fabbricare le sue prime armi e gli attrezzi;
conficcando pali nella terra, costruiva capanne e le disponeva
attorno a uno spazio circolare. Nella sua mente si profilavano pochi
concetti rudimentali: il possesso, la famiglia, il gruppo; e una
nozione fondamentale, la presa di coscienza della propria identità,
la consapevolezza d'esser diverso non solo dagli animali, ma anche da
quelle potenze inconoscibili che a intervalli regolari accendono il
sole e la luna, scatenano tempeste, scagliano fulmini, ogni sera
fanno calare l'oscurità e ogni mattina rischiarano il ciclo; forze
arcane, temibili, di cui l'umanità sin dai suoi primi passi ha avuto
una nozione reverente e impaurita.
Di questo lavorìo
lentissimo, insondabile, non abbiamo altra registrazione se non
quella del mito. Figure mostruose o leggiadre, dotate di attributi
spesso ambigui, coinvolte in vicende complicate, rappresentano
categorie elementari del pensiero (spazio, tempo), conciliano
antitesi sensoriali (crudo-cotto, caldo-freddo), legittimano un
ordine sociale, compongono conflitti come quello tra l'istinto e la
norma, il contrasto che Lévi-Strauss indica nel binomio
natura-cultura; alla stessa stregua dei sogni, i miti trasformano
simbolicamente fatti rimossi dal ricordo cosciente o perduti nel
tempo.
Il consenso della
vittima
Il mito è un linguaggio
figurato; e dove esprime la consapevolezza di appartenere alla specie
umana implica la necessità di attenersi alla regola fondamentale che
essa ha istituito nelle prime forme di vita associata, vale a dire il
rifiuto della violenza, della sfrenata lussuria, del furto,
dell'assassinio: azioni improntate a quella dismisura che la comunità
condanna, se vuoi sopravvivere. Dai miti greci traspare la segreta
apprensione d'un ritorno all'esistenza sregolata del passato.
Consapevole di ciò che è («Conosci te stesso», è il motto inciso
sul tempio di Apollo a Delfi), l'uomo non dovrà sconfinare né verso
l'alto, e cioè verso la sfera riservata agli dèi, né verso il
basso, degradandosi ad agire come le bestie. Dovrà restare nel
«giusto mezzo». Questo principio basilare viene formulato
specialmente nelle due forme fondamentali del comportamento umano:
l'alimentazione e il sesso.
Per lanciare una sonda e
ispezionare la voragine buia delle età arcaiche, due studiosi
francesi, Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant hanno esaminato il
rito più noto delle religioni antiche, deplorato, perché durava
ancora, dai padri della Chiesa: il sacrificio. Hanno raccolto in un
volume (La cucina del sacrificio in terra greca, Boringhieri)
insieme ai loro, i contributi di altri autori. Si tratta dunque
d'un'opera collettiva ma omogenea, perché i fatti sono osservati
attraverso la stessa filigrana, che è l'antropologia strutturale e
la psicoanalisi.
Filo conduttore
dell'opera è il rapporto tra rito e società; il sacrificio, che
precede il pasto comune, è visto come suggello della parità tra i
membri della comunità, più che come devota offerta agli dèi. Esso
infatti precedeva ogni atto pubblico — dichiarazione di guerra o
trattato di alleanza, insediamento di magistrati, apertura di
assemblee —; un animale domestico (poiché quelli selvaggi
riguardano la caccia, che è antitetica alla cultura civile),
inghirlandato di fiori, veniva condotto all'altare in processione, al
suono di flauti. Il sacrificatore (termine che in greco significa
anche macellaio e cuoco, il che rivela l'aspetto alimentare della
cerimonia) gli gettava addosso dell'acqua fredda, lo colpiva con una
manciata di grano preso dal paniere dov'era nascosto il coltello; la
reazione dell'animale, che rabbrividiva e scoteva la testa, era
interpretata come il suo assenso all'olocausto imminente — è così
recente il tempo in cui l'uomo non si distingueva dalle bestie, che
non ha il coraggio di sopprimere quello che fino a ieri era il suo
simile, senza averne il consenso.
Abbattuto con un colpo
alla testa, mentre le donne ululano, il toro, o giovenca, o agnello
che sia, viene sgozzato; il suo sangue e raccolto in un vaso; il
corpo, sezionato secondo un procedimento rigoroso, viene arrostito e
distribuito ai presenti con relativa imparzialità (è ovvio che il
filetto spetta ai notabili). Le ossa e altre parti immangiabili,
cosparse di aromi, vengono bruciate sull'ara: il fumo che ne
sprigiona è destinato agli dèi, illusoriamente invitati al convito,
ma paghi d'un alimento immateriale perché immuni da fame, e nutriti
di nettare e ambrosia.
Calandosi al fondo
dell'anima primitiva, e quindi di noi stessi, gli autori del volume
hanno esaminato il rito, le sue origini, le modalità, la scelta
degli animali, la procedura del taglio, le armi usate. Il sacrificio
incomincia con Prometeo, che era un immortale, uno dei Titani; non
ribelle, come loro, a Zeus, ma astuto mediatore tra i numi e gli
uomini. In quella favolosa atemporalità in cui si svolgono i miti e
i sogni, Prometeo uccide il bue destinato al banchetto comune degli
dèi e degli uomini; ma a questi ultimi consegna le parti migliori,
agli dèi le ossa nascoste sotto la pelle e il grasso. Zeus si
risente con lui; ma, mentre non aveva esitato a scagliare nel Tartaro
i ribelli e condannare Atlante a sostenere sulle spalle il cielo, con
Prometeo si comporta con una inspiegabile cautela, lo tratta con
ironica deferenza, ma gli gioca, a sua volta, un tiro mancino:
nasconde il fuoco e sotterra il grano. Da allora l'uomo dovrà arare
e vangare la terra per estrarlo, e poi macinarlo e, senza fuoco, non
potrà procedere alla cottura degli alimenti, la pratica che lo
distingue dalle fiere.
Prometeo allora gli ruba
il fuoco; Zeus lo vede brillare sulla terra e ne pensa un'altra.
Ordina ai suoi colleghi dell'Olimpo di foggiare con acqua e fango una
creatura maliosa e infida, la donna; affida alle dèe il compito di
agghindarla e donarle tutti i fascini possibili, soprattutto la
parola suadente; poi manda in dono questa prima donna al fratello di
Prometeo, uno sprovveduto, il quale, benché avvertito da Prometeo di
non accettare mai un dono da Zeus, accoglie quello che Esiodo chiama
il «kalòn kakòn», il soave malanno. Subito dopo, Zeus
invia un altro regalo insidioso, il famoso vaso che la donna. Pandora
(e cioè adorna di tutti i doni) subito apre: ne escono tutti i mali,
guerra, malattie, vecchiaia, morte, tradimento.
Accettando la donna,
l'uomo ha accettato la condizione umana, già suggellata nell'atto
del sacrificio, che a lui riserba la carne — appetitosa ma
putrescibile — e agli dèi l'aroma; avrà in sorte generazione,
vecchiaia e morte. E se rifiuterà di unirsi alla donna, i suoi
ultimi anni saranno desolati, poiché non avrà figli ad assisterlo.
Prometeo dunque — e sarà duramente punito — con l'atto di dare
agli uomini la carne arrostita ha tracciato in modo indelebile il
confine tra uomini e dèi, nonché tra uomini e belve.
Nel vaso di Pandora
Arrostendo le carni
dell'animale domestico ucciso ritualmente, arando i campi e
contraendo nozze, l'uomo si è collocato entro le frontiere della sua
specie, con il che ha rinunciato all'antica convivenza con gli dèi.
Una lacerazione penosa, che lo consegna a una sorte ambigua, nella
quale ogni bene è compensato da un male.
La separazione, lo
statuto della situazione umana, è reso ancor più evidente dai
dinieghi che la contestano: coloro che si oppongono alle regole della
comunità sottraendosi al suo costume osservano, come gli orfici e i
pitagorici, un regime vegetariano, si astengono dall'uccidere
qualsiasi animale vivente e persino dell'indossare vesti di lana. Non
accettano che vi sia una separazione tra il loro essere e quello
divino, presumono di cancellare il peccato originale e di poter
recuperare il loro posto in ciclo a prezzo d'una diuturna ascesi.
Mentre i dionisiaci, abbandonandosi all'ebbrezza e all'estasi,
inseguono nelle foreste l'animale che verrà sbranato e divorato
ancor sanguinante, e, quindi, evadono in un regresso allo stato
ferino, i mistici, assimilandosi agli dèi, sperano di tornare a
raggiungerli. Perché, avevo dimenticato di dirlo, nel vaso
incautamente aperto da Pandora, c'era rimasta una cosa ambigua e
indefinibile: la Speranza.
la Repubblica, ritaglio senza data, ma 1982
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