Il 2 settembre 1839,
mentre il pubblico «beveva, faceva a pugni, (…) sputava per ogni
dove tabacco masticato» e «le prostitute proponevano i loro servigi
nel loggione», il Bowery Theatre, il più grande teatro popolare di
New York, metteva in scena uno dei tanti melodrammi marinareschi
allora in voga: The Black Schooner, or The Pirate Slaver
Armistead, che raccontava il «recente e incredibile episodio di
pirateria e ammutinamento» verificatosi a bordo della goletta
negriera spagnola «La Amistad».
Qui, il 1 luglio dello
stesso anno, un gruppo di africani della Sierra Leone destinati a
lavorare nelle piantagioni cubane di Puerto Principe era riuscito a
liberarsi dei ceppi che li immobilizzavano sottocoperta. Armati di
machete, avevano ucciso il capitano della nave e preso possesso
dell’imbarcazione con l’obiettivo di fare ritorno a casa in
Africa, prima che una nave da pattuglia della marina militare
statunitense li abbordasse a largo di Long Island e li consegnasse
nelle prigioni di New Haven (Connecticut) con l’accusa di
pirateria. Di lì a poco avrebbe avuto inizio uno dei più
celebricasi giudiziari della storia degli Stati Uniti, che alcuni
ricordano nella versione cinematografica di Steven Spielberg (1997).
La tournée degli
insorti
Curiosa scelta quella dei
gestori del Bowery Theatre, il cui pubblico era stato protagonista
qualche anno prima di una violenta sommossa antiabolizionista.
Curiosa ma azzeccata: l’opera fu un vero e proprio successo al
botteghino, vista da oltre quindicimila persone, circa un newyorkese
su venti. Era l’inizio di un poderoso processo di
spettacolarizzazione del caso, che vide folle oceaniche di curiosi
pagare «uno scellino di York» (12,5 centesimi di dollaro) per
entrare in carcere e osservare dal vivo i «pirati neri»
dell’Amistad. I quali, dopo la loro scarcerazione, furono anch’essi
impegnati in una tournée per gli Stati Uniti in cui misero in scena
la loro storia per raccogliere i fondi necessari a sostenere la
spedizione che avrebbe dovuto riportarli in Africa da uomini liberi.
Anche la versione di
questa vicenda data recentemente alle stampe da Marcus Rediker (La
ribellione dell’Amistad, Feltrinelli) non sfugge a questa
dinamica di drammatizzazione. Diversamente dalla versione
hollywoodiana di Spielberg, che celebra il sistema giudiziario
americano e la sua capacità «liberale» di resistere alle pressioni
altolocate dei sostenitori dell’«istituzione peculiare» della
schiavitù, in questo caso però il racconto recupera la sua
originaria dimensione atlantica ed è riconsegnato al protagonismo
dal basso dei rivoltosi, capaci di «decidere autonomamente del
proprio destino» e di sovvertire il «microcosmo galleggiante della
nave negriera» in una vera e propria «epopea della libertà».
In linea con una ricerca
storiografica più che ventennale, nota al pubblico italiano
soprattutto per I ribelli dell’Atlantico (Feltrinelli,
2004), scritto a quattro mani con Peter Linebaugh, e per alcuni
volumi sulla pirateria (Sulle tracce dei pirati, Piemme 1996;
Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria,
Elèuthera, 2005), lo sfondo su cui Rediker colloca questo dramma è
il mare. Vi si respira la stessa atmosfera cosmopolita
dell’Incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus Vassa,
detto l’africano (Epoché, 2008) e di altri simili racconti
autobiografici dell’Atlantico ribelle. Qui tutto è mare, spazio
aperto alla circolazione e al movimento; anche i fiumi che, visti da
questa prospettiva, diventano prolungamenti entroterra delle acque
oceaniche, come se il mondo fosse una grande laguna navigabile nella
quale città, porti e insediamenti costieri operano da nodi logistici
di un viaggio senza fine nel quale l’uomo di mare inventa e
reinventa di volta in volta la propria soggettività. Da
quest’angolatura, la storia dei ribelli dell’Amistad perde molti
dei tratti «americani» che Spielberg le ha voluto assegnare. Al
pari della fortezza schiavista di Lomboko sulla costa africana di
Gallinas nella quale gli schiavi vengono portati prima di essere
imbarcati per il Nuovo Mondo sulla «Teçora», o delle baracche di
L’Avana nelle quali sono temporaneamente detenuti prima di
imbarcarsi sull’Amistad, gli Stati Uniti sono infatti solo uno
degli snodi territoriali in cui si scandisce la circolazione
marittima del desiderio di libertà e autonomia che anima questo
gruppo di donne e di uomini.
Per Rediker la nave è un
vero e proprio spazio politico, una floating factory nella
quale si condensano tanto le istanze ordinative e disciplinanti del
capitalismo moderno, quanto i processi di soggettivazione e di
solidarietà proletaria che a quelle istanze resistono. Ciò vale in
modo particolare per la nave negriera, di cui già Paul Gilroy aveva
messo in luce la centralità per la definizione dell’identità nera
(The Black Atlantic, Meltemi, 2003) e alla quale Rediker ha
dedicato nel 2007 un volume importante ora in corso di traduzione
italiana presso Il Mulino (The Slave Ship. A Human History,
Viking). Così, se nel film di Spielberg le vicende a bordo
dell’Amistad costituiscono solo l’antefatto di una storia che si
svolge a terra, nelle aule giudiziarie statunitensi, nella versione
di Rediker centrale è invece proprio l’esperienza a bordo delle
due navi negriere. E lì infatti che un gruppo di uomini e donne
catturati nei loro villaggi d’origine in Africa e inseriti
forzatamente nei circuiti atlantici del commercio coloniale si
reinventano «africani» e, più precisamente, «popolo Mendi» (dal
nome del gruppo etnico maggioritario sull’Amistad).
Il volume di Rediker
racconta il «farsi» di questo movimento, delle modalità che
durante l’attraversamento della «grande acqua» hanno portato un
gruppo di africani di estrazione etnica e linguistica differente a
dare vita a un soggetto politico radicale. Tra queste particolarmente
significative sono le palaver (dal portoghese palavra,
parola), una pratica a quel tempo molto diffusa in Africa
Occidentale, che prevedeva sedute assembleari nel bari (casa
comune) per risolvere le controversie sorte tra i membri della
comunità, nel corso delle quali i partecipanti erano chiamati a
combinare il rigore intellettuale con l’arguzia e i toni patetici
per costruire consenso diffuso attorno alle proprie posizioni. Nel
contesto «occidentale» della tratta negriera le palaver
divennero un efficace strumento per trasformare la «fratellanza»
costruita nell’oppressione in azione
politica condivisa, pur
senza annullare le differenze culturali e le diverse opinioni sul da
farsi esistenti tra i ribelli.
È all’interno di
questo particolare modello di democrazia dal basso che è emersa la
leadership di Joseph Cinqué, la figura con cui ancora oggi si
identifica la ribellione dell’Amistad, che nel racconto di Rediker
emerge più per le sue capacità «discorsive» di interprete delle
comuni aspirazioni dei «fratelli» africani, che per le sue indubbie
doti di guerriero, condivise del resto anche da altri protagonisti
della rivolta. Curiosamente, mentre l’immaginario popolare del
periodo provava già a integrare Cinqué nel pantheon degli eroi
«americani», quest’ultimo e gli altri ribelli dell’Amistad
riuscivano a imporre il modello «africano» delle palaver
anche come base per un dialogo tra pari con i militanti
abolizionisti. Nelle intenzioni degli africani questi dovevano
infatti limitarsi a tradurre nel linguaggio giuridico occidentale le
proprie richieste. Così, ad esempio, il giovane undicenne Kale
poteva scrivere senza alcun imbarazzo all’ex presidente degli Stati
Uniti John Quincy Adams, incaricato di difendere i ribelli africani
di fronte alla Corte Suprema: «Vorremmo che lei domandasse al
tribunale che cosa abbiamo fatto di male. Perché gli americani ci
tengono in prigione?»
Un’alleanza
contigente
Rediker descrive i
rapporti tra i ribelli africani e i loro amici abolizionisti nei
termini di una «alleanza» tra movimenti portatori di interessi
affini ma non coincidenti. Per il movimento abolizionista, la vicenda
dell’Amistad era un’occasione per portare avanti la «riforma
morale» della nazione (e dei «selvaggi» africani). Per i ribelli
dell’Amistad i progetti civilizzatori degli abolizionisti erano
invece subordinati all’obiettivo primario del ritorno a casa. Nello
stesso modo in cui abbracciarono con curiosità gli usi e i costumi
cristiani nel corso del processo e delle fasi preparatorie della
spedizione che li avrebbe portati a casa, convinti dagli
abolizionisti che questo avrebbe favorito il consenso popolare verso
la loro causa, non esitarono a riprendere i loro abiti e le loro
abitudini africane non appena rientrati in Africa, quando capirono
che di quella missione civilizzatrice essi sarebbero stati più il
tramite che non i protagonisti.
In realtà, i processi di
ibridazione tra i due movimenti furono molto più ampi di quanto gli
stessi attori non fossero disposti ad ammettere. La stessa
definizione di «popolo Mendi» è inconcepibile al di fuori di
questa relazione: come spiega Rediker, la sua «condensazione» è
stata infatti «un diretto correlato dell’apprendimento
dell’inglese e della dottrina cristiana» e al tempo stesso un
«fenomeno di resistenza» di fronte «alle insistenze degli
abolizionisti» di «fare degli africani dell’Amistad uomini
nuovi». Similmente, il mito dell’Amistad è stato decisivo per la
radicalizzazione del movimento abolizionista statunitense.
Quella vicenda dava
infatti un nuovo significato alla «filosofia della riforma»
abolizionista: «chi professa di sostenere la libertà e tuttavia
depreca le agitazioni – avrebbe spiegato qualche anno più tardi
Frederick Douglass – vuole l’oceano senza il terribile scrosciare
delle sue tante acque», perché «il potere non concede nulla senza
un’insistita richiesta». Di lì a poco il capitano John Brown
avrebbe preso in parola questo suggerimento dando fuoco alle polveri
a Harper Ferry. Era il preludio alla guerra civile.
“il manifesto”, 6
luglio 2013
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