La casa editrice Sugaco
pubblicò nel 1981 Il fuoco e il sole - Perché Platone condannò
gli artisti di Iris Murdoch. Il quotidiano “la Repubblica”
anticipò le pagine che qui riprendo. (S.L.L.)
Il busto di Platone in Vaticano Collezione pio-clementina |
Sarà bene confrontare la
concezione di Platone, così come viene espressa nel Filebo
con quelle di due altri grandi puritani, Tolstoj e Kant. Come quella
di Platone, la loro paura nei confronti dell'arte è in certa misura
una paura nei confronti del piacere. Secondo Tolstoj l'arte dovrebbe
definirsi non attraverso il piacere che procura, ma attraverso lo
scopo cui serve. La bellezza è connessa al piacere, l'arte è
propriamente connessa alla religione, dato che la sua funzione è
quella di comunicare i più alti sentimenti religiosi del tempo. Il
genere di arte che Tolstoj trovava particolarmente detestabile (e che
criticava apertamente, definendola «roba senza capo né coda»),
l'interiorizzante «arte per l'arte» dei «tardoromantici»
(Baudelaire, Mallarmé, Verlaine), è volutamente oscura e «i
sentimenti che il poeta trasmette sono deteriori». Tolstoj
condannava anche Shakespeare per mancanza di chiarezza i morale.
L'arte elaborata tende a divenire una sorta di menzogna.
Tolstoj concorderebbe con
il Filebo: l'intensità e l'accesso non hanno relazione con la
verità. Le teorie estetiche accademiche sono pericolose perché
presentano l'arte come una qualche sorta di complesso ed elevato
mistero. Ma non c'è alcun mistero. Purezza, semplicità, sincerità,
e assenza di ogni pretesa o presunzione sono i caratteri dell' arte
autentica, e tale arte viene universalmente compresa, proprio come le
leggende popolari e le storie morali. La gente comune sa
istintivamente che l'arte si degrada se non conserva la sua
semplicità.
In base a questi criteri
Tolstoj era dispostissimo a sconfessare quasi tutta la sua opera
(salvava solo Il prigioniero del Caucaso e Dio vede e
provvede). Tolstoj detestava in modo particolare l'opera lirica.
Anche Platone l'avrebbe detestata. L'arte complessa o «grande» ci
colpisce in un modo che non comprendiamo, e anche 1'artista non
comprende la propria attività, come nota Socrate con particolare
interesse nell'Apologia e con tono beffardo nello Ione.
Sia Platone sia Kant,
essendo entrambi ben consapevoli dello spaventoso e subdolo egoismo
dell'anima umana, sono ansiosi di edificare delle barriere
metafisiche che interrompano certi battuti sentieri verso la
depravazione, e di salvaguardare certe idee che sono desiderose di
mescolarvisi. La quasi fanatica insistenza di Kant a riguardo della
più rigorosa sincerità ha in Platone il proprio corrispondente, in
certa misura offuscato dal suo scaltro tono scherzoso. Platone vuole
separare l'arte dalla bellezza, poiché egli considera la bellezza
una cosa troppo seria per lasciare che se ne occupi l'arte.
Come tutti i puritani
Piatone detesta il teatro. Il teatro è la grande dimora della
volgarità: buffonate dozzinali, emozioni istrionesche, battute
calunniose come quelle di Aristofane dirette contro Socrate. Il buon
gusto è scacciato da una spettacolarità alla moda, da orribili
effetti sonori naturalistici, e dalla rauca partecipazione del
pubblico. Ci viene detto nel Filebo che lo spettatore prova
emozioni impure, piaceri avvilenti, e le delizie del ridicolo, che è
una specie di vizio, in opposizione diretta al precetto Delfico, e
tale piacere impuro è caratteristico non solo del teatro ma
«dell'intera tragedia e commedia della vita». Anche nelle Leggi
il nostro spensierato divertimento teatrale è paragonato alla
tolleranza dell'uomo che solo scherzosamente critica i costumi dei
malvagi fra i quali si trova a vivere. Il serio e l'assurdo debbono
essere appresi insieme, ma le ridicole buffonate teatrali sono fatte
solo per gli stranieri e gli schiavi: la virtù non è comica.
Nelle Leggi, un
trattato che descrive una società assolutamente stabile, Platone
rivolge alle arti quell'elogio (ed è un elogio) che esse ricevono
oggi in Europa Orientale. L'impiego didattico dell'arte è analizzato
in dettaglio, anche sui giochi dei bambini occorre esercitare un
controllo. La musica e il canto debbono essere di carattere sacro e
resi immutabili, come in Egitto, dove i dipinti e le sculture di
diecimila anni fa non sono né migliori né peggiori di quelle di
oggi. Il più importante cittadino nello Stato sarebbe il ministro
della Pubblica istruzione. Le Muse e gli dei del gioco e della gara
presterebbero il loro aiuto alla paura, alla legge, e alla retta
ragione, e la cittadinanza verrebbe «costretta a cantare
volentieri». La gente dovrebbe essere educata sin dai primi anni a
gioire solo dei piaceri sani, e i poeti verrebbero costretti a
spiegare che l'uomo giusto è sempre felice. Il miglior paradigma
letterario che lo scrittore possa avere (qui c'è una risonanza
kafkiana) è il libro stesso delle Leggi.
“la Repubblica”,
ritaglio senza data, ma 1981
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