Ottaviano, il giovane principe |
È il 19 agosto dell’
anno 43 avanti Cristo. «Attraversato il Rubicone, il fiume che segna
il confine tra Gallia Cisalpina e Italia, proprio quel fiume che suo
padre aveva attraversato allo stesso modo quando ebbe inizio la
guerra civile, Ottaviano divise l’esercito in due parti. All’una
ordinò di procedere con calma; con l’altra, migliore, mosse
rapidamente verso Roma». Così lo storico Appiano di Alessandria
narra il secondo passaggio del Rubicone.
Ottaviano, figlio
adottivo di Cesare, nonché unico superstite dei capi che, per conto
del Senato, hanno affrontato Antonio - l’erede politico di Cesare!
-, nella campagna ferocissima sotto Modena, per impedirgli il
controllo della Gallia Cisalpina, marcia, appena diciannovenne,
contro Roma. Vuole imporre al Senato la propria elezione al
consolato, massimo potere statale, in violazione di tutte le leggi
della Repubblica. Due legioni chiamate dall’Africa, incaricate di
presidiare il Gianicolo per sbarrare la strada all’usurpatore,
passano dall’altra parte. Il Senato manda a dire all’usurpatore
che si potrebbero indire regolari elezioni cui lui potrebbe
partecipare.
Ma è troppo tardi. Un
manipolo di uomini armati, capeggiati dal centurione Cornelio - è
Svetonio che lo racconta - è ormai davanti al Senato. Entrato, getta
indietro il mantello e mostrando l’elsa della spada quasi del tutto
sfoderata «non esita a dire in piena Curia: «Questa lo farà
console se non lo farete voi!».
Ottaviano era un precoce.
Poco più che adolescente era già un politico consumato, capace in
ogni istante di misurare i risultati delle sue azioni ed i rapporti
di forza. Usava dire che «coloro che corrono dietro un piccolo
vantaggio con un grande rischio sono come quelli che vanno a pesca
con un amo d’ oro». Mentre marciava su Roma aveva fatto rifugiare
le sue donne - la madre Azia e la sorella - nel tempio di Vesta,
sotto la protezione delle vestali. Entrato in Roma volle che esse gli
venissero incontro sulla soglia del tempio. Sapeva, come già il suo
padre adottivo - che era uno scettico, ma anche pontefice massimo -
che la religione ha un ruolo fondamentale nella politica.
Al suo ingresso in
Senato, dopo il liquefarsi degli eserciti regolari che avrebbero
dovuto fermarlo, incontrò con fare condiscendente i senatori che
fecero la fila per stringergli la mano. In coda alla fila c’era
Cicerone, il quale ebbe la debolezza e il cattivo gusto di vantarsi
con lui di essere stato il primo a proporre in Senato che gli fosse
aperta la strada al consolato. Ottaviano rispose con sarcasmo
definendolo «l’ultimo dei suoi amici»: gioco di parole sul doppio
valore di «ultimo».
Il vecchio statista che
si umilia davanti al giovane avventuriero ha suggerito a Ronald Syme
in quel capolavoro della storiografia del Novecento che è La
rivoluzione romana, il confronto con il vecchio Giolitti che
avalla la presa del potere, previa «marcia su Roma», da parte di
Mussolini. Come ha scritto efficacemente Arnaldo Momigliano, che
lesse quel capolavoro nella Oxford ormai oscurata per timore delle
bombe tedesche nel settembre 1939, «il libro afferrava il lettore,
stabiliva un rapporto immediato tra l’antica marcia su Roma e la
nuova, tra la conquista del potere di Augusto e il colpo di Stato di
Mussolini, e forse quello di Hitler». (Momigliano scriveva queste
parole nel 1962 quando non era obbligatorio, per essere
«politicamente corretti», affermare che Hitler aveva preso il
potere con regolari elezioni). Un pregio grande del libro di Syme era
che l’analogia scaturisse dalle cose, mai i nomi della vicenda
politica contemporanea sono pronunciati. Le analogie più incisive
sono che quelle che non hanno bisogno di cartelli segnalatori.
Il fulcro era proprio sul
ruolo di Cicerone, statista di consumata esperienza che si illude di
pilotare il giovane avventuriero il quale a sua volta si presenta
come il difensore della legge e dell’ordine contro l’«eversivo»
Marco Antonio. Il «ragazzo» - così Cicerone lo chiamava scrivendo
ad amici fidati lettere che tuttora si conservano - sarebbe stato
messo da parte una volta assolto il suo compito. Cicerone lo fece
colmare di onori prematuri e comandi straordinari, lo fece affiancare
ai consoli che combattevano Antonio intorno alla città di Modena.
Diceva «bisogna sollevarlo»: tollendus, che in latino
significa tanto «portarlo in alto» quanto «toglierlo di mezzo».
Credeva di avere a che fare con una pedina. Ottaviano stette al
gioco, perseguendo il suo gioco. Riuscì a rimanere unico comandante
sul campo delle truppe «regolari» della Repubblica, e qualcuno con
buona ragione pensò che avesse liquidato o fatto liquidare lui i due
consoli, incredibilmente morti entrambi nella campagna contro Antonio
(«pari fato» diceva Ovidio, con un allusivo «per uguale
fatalità»). Dopo di che, sventato il rischio di vedersi dare il
benservito - ma non era facile coi consoli morti tutti e due sul
campo -, fece una conversione netta degli eserciti piovutigli tra
mano e marciò contro il Senato, attonito e frastornato, invano messo
in guardia da Marco Bruto, lontano e pronto ad una nuova guerra
civile.
Syme aveva scritto il suo
grande libro nel 1938, e lo licenziò per la stampa nel giugno 39. La
situazione politica europea tra la vigliaccheria anglo-francese a
Monaco e la caduta di Madrid (marzo 39), mentre montava la crisi per
Danzica, era radicalmente cambiata. Perciò stonano le parole di
comprensione per il regime augusteo che Syme pone al centro della sua
prefazione: «Alla fine non resta che accettare il principato poiché
esso se da un lato abolisce la libertà politica, dall’altro vale a
scongiurare la guerra civile». Illusione rovinosa.
Postilla
Anticipazione di una conferenza tenuta all'Auditorium di Roma qualche giorno dopo, questa sintesi fu pubblicata sul “Corriere della Sera” l'11 novembre 2006.
Anticipazione di una conferenza tenuta all'Auditorium di Roma qualche giorno dopo, questa sintesi fu pubblicata sul “Corriere della Sera” l'11 novembre 2006.
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