Bambino etiope |
Che strana età, la
nostra. Ricordate quando i cantori neoconservatori della
globalizzazione tecnica ed economico-finanziaria ci promettevano
maggior benessere e prosperità per tutti? Ebbene, nessuna di quelle
promesse si è, manco a dirlo, realizzata. Anzi, nel giro di un
ventennio, le condizioni generali delle popolazioni del pianeta –
anche nel nostro opulento Occidente capitalistico – sono di gran
lunga peggiorate. Meno lavoro. Più disoccupazione. Generalizzata
precarietà e sfruttamento. Aumento delle povertà, vecchie e nuove.
Crescita delle disuguaglianze. E, come se non bastasse, un pianeta
ridotto a una pattumiera globale: aria irrespirabile, acqua potabile
che tende a scarseggiare, il suolo intriso di veleni, destinato,
prima o poi, alla sterilità se la tendenza dell’odierno sviluppo
capitalistico procederà ancora verso questa dissennata e
catastrofica direzione.
Circa un miliardo di
individui oggi vive con meno di un dollaro al giorno. Solo in America
Latina ci sono duecento milioni di poveri. Mentre negli anni Sessanta
l’insieme dei paesi più sviluppati era trenta volte più ricco dei
pesi più poveri, oggi lo è di settanta, ottanta volte. Tanto per
capirci: un bambino americano oggi consuma quello che consumano 422
suoi coetanei etiopi. Con buona pace dei guru neoliberali
dell’economia finanziaria. E della dispotica tecnocrazia. I quali,
non soddisfatti di aver contribuito – con i loro scientifici
«saperi taumaturgici» – a determinare tutti questi drammatici
problemi, continuano indifferentemente, come se niente fosse, a
fornirci ricette per risolverli. Continuano a predisporre «strategie
terapeutiche», diciamo così, per «malattie» da essi indotte.
Strategie terapeutiche che non fanno altro che indurre altre
«malattie». Che i loro saperi «scientifici» si apprestano di
nuovo a «guarire». Un circolo vizioso infernale, come si vede –
un circolo che dovrebbe essere al più presto inceppato, spezzato,
interrotto. O quantomeno, demistificato.
È a questa sfida che
sono chiamati oggi i saperi umanistici, come scrive Piero Bevilacqua
nel libro da lui curato – A che serve la storia? I saperi
umanistici alla prova della modernità, Donzelli, pp. 172, euro
22 – che contiene scritti di Vandana Shiva, Serge Latouche, Pietro
Barcellona, Franco Cassano, Mario Alcaro, Raffaele Perrelli, Laura
Marchetti, Edoardo Salzano.
Davvero strana, la nostra
età. L’età della tecnica. E del dominio scientifico dell’economia
finanziaria. Idolatriche divinità della nostra età secolarizzata.
Che globalizza flussi finanziari e carte di credito, ma non sa – o
non vuole – globalizzare i diritti, perfino quello più elementare
alla vita. Altro che quell’epoca della biopolitica, che avrebbe
dovuto farsi carico e prendersi cura della vita di ciascun individuo.
Nel nostro mondo che, nell’assordante chiacchiericcio retorico,
sostiene di aver globalizzato i diritti umani, ogni cinque secondi un
bambino muore. Per fame e per malattie. Nell’epoca del dominio
incontrastato della scienza, della tecnica e dell’economia –
quella finanziaria soprattutto. Aveva ragione Lord Keynes: quando
l’economia si converte interamente nella finanza – diceva – lo
sviluppo di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un
casinò. E oggi il «casinò» è diventato globale. È la delirante
e tracotante egemonia di questa globalizzazione – dispensatrice di
disuguaglianze, iniquità e nuove solitudini – che i saperi
umanistici sono chiamati a demolire. Quei saperi – storia,
letteratura, arte, filosofia e via dicendo – sempre più emarginati
dalle strutture formative. In quanto ritenuti irrilevanti e inutili
al potenziamento del funzionalismo tecno-economico.
Nessuna ingenua e puerile
rinuncia ai saperi scientifici, evidentemente. Che, del resto,
sarebbe impossibile. E, francamente, nemmeno auspicabile. Si tratta,
invece, più realisticamente, di trarre fuori dai loro angusti
specialismi le tecnoscienze. Soprattutto quelle
economico-finanziarie. Le quali, interamente asservite al mito
capitalistico dello sviluppo e della crescita illimitata, hanno perso
di vista non solo lo sguardo d’insieme sulla società e sul mondo.
Ma sono diventate servizievoli strumenti al servizio dei «famelici
appetiti di breve periodo» – come osserva Piero Bevilacqua nella
sua introduzione – delle classi dominanti.
Insomma, i saperi
umanistici – proprio in virtù della loro odierna marginalità e
tendenziale insignificanza nel dispositivo bellico delle tecnologie
utilitaristiche della crescita – devono «chiedere conto», diciamo
così. E lo devono chiedere a coloro che, nel delirio del loro
dominio tecno-scientifico, non si sono accorti che la loro idea di
sviluppo «ha cancellato – come scrive ancora Piero Bevilacqua –
il ruolo della natura nel processo di produzione della ricchezza,
trascinando il nostro pianeta sull’orlo del collasso». Cancellando
le relazioni sociali. E consegnando ciascun individuo a una
solitudine globale.
il manifesto 24 Novembre
2011
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