A partire dal
Quattrocento sino ai primi decenni del Novecento gli scrittori
italiani hanno spedito per le vie della penisola lettere in tal
numero che si è parlato addirittura di una civiltà epistolare
italiana, oggi purtroppo minacciata di morte dal telefono. Eppure
questo tipo di comunicazione e conversazione, avviata nella
tranquillità e nell'agio del proprio tavolo di lavoro, apparteneva
alle virtù di una civiltà compiuta: si pensi agli epistolari
rinascimentali. La riflessione viene a proposito per il nuovo
stimolantissimo volume della «Raccolta foscoliana Acchiappati», dal
titolo Lettere autografe e manoscritti di contemporanei
(Cordani, pagg. 188,s.p.).
Sulla “Repubblica”
del 15 maggio di quest'anno si è parlato del primo volume di questa
Raccolta del collezionista Acchiappati e della figura così
meritevole del Direttore Sanitario dell'Istituto Ortopedico Gaetano
Pini di Milano, che ha trascorso buona parte della sua vita a
collezionare tutto ciò che in qualche modo potesse riguardare il
Foscolo e a postillarlo accuratamente. Se il primo volume è di
particolare pregio in quanto raccoglie ben cinquantasette testi
foscoliani (di cui quindici seno lettere inedite in assoluto), questo
secondo non è da meno: contiene infatti settantotto lettere
autografe di vari illustri contemporanei del Foscolo: da Ippolito
Pindemonte a Melchiorre Gioia, a Gian Giacomo Trivulzio, a Giovanni
Battista Niccolini, Silvio Pellico, Carlo Porta, e poi Monti,
Giordani, Tommaseo, Bettoni, Rosini, la contessa Luisa Stolberg
d'Albany, Isabella Teotochi Albrizzi e via di seguito, per non dire
di Napoleone, Mazzini, Garibaldi e vari stranieri amici del Foscolo.
Come nell'altro volume,
Gianfranco Acchiappati in veste di curatore fornisce per ogni lettera
spiegazioni contestuali e notizie preziose: se ne può dedurre che
questo epistolario ottocentesco è stato raccolto ai fini di portare
luce al grande protagonista assente, il Foscolo. Non vi sono infatti
in esso missive indirizzate a Ugo Foscolo, salvo una di Francesco
Chiarenti del 1801 di argomento militare, con l'intestazione: «Al
cittadino Foscolo Capitano aggiunto al G. Pino» (cioè al generale
di divisione Domenico Pino, giacobino amico del Foscolo). Vi sono
bensì lettere che hanno per oggetto il Foscolo, oppure che
illuminano il contesto storico in cui si mosse il poeta, le sue
amicizie e inimicizie.
Eccone qualcuna del primo
gruppo. Nel 1810 Niccolini, scrivendo al Valeriani, giurista e
letterato veneziano, che gli ha trasmesso i saluti del Foscolo,
chiede notizie del poeta rammaricandosi del suo silenzio. La lettera
tuttavia maggiormente interessa per la condanna della traduzione
omerica del Cesarotti, cui è contrapposta quella lodata, del Monti.
Mazzini da Londra invia nel 1837 uno scritto in inglese a Thomas
Dixon, che ci sollecita per due ragioni: perché Mazzini ringrazia di
aver ricevuto gli Essays on Petrarch del Foscolo, esemplare
dell'edizione londinese del 1823. e perché dichiara di non voler più
vedere Silvio Pellico, reo di troppa remissività verso gli
austriaci. E giacché siamo coi grandi nomi della storia d'Italia, si
può ricordare Garibaldi: da Caprera nel 1864 egli risponde alla
duchessa di Sutherland che gli ha scritto (la lettera è utilmente
riprodotta nei punti essenziali dell'Acchiappati) di essere andata a
visitare la tomba del Foscolo, di averne ammirato la «grande
semplicità» e inoltre di aver ricevuto una missiva del signor
Gurney, un ottantenne che conobbe il Foscolo e lo considerò «la
persona più eloquente che mai abbia conosciuto». Orbene Garibaldi,
al suo solito piuttosto enfatico, domanda alla duchessa: «Non
ricordò nella sua visita a Foscolo — quei bei versi "Celeste,
è questa corrispondenza d'amorosi sensi?" Celeste dote di un
cuor ben fatto veramente — il porger omaggio ai grandi che furono».
Quanto alla tomba del
Foscolo a Chiswick e al successivo trasporto delle sue ceneri a
Firenze in Santa Croce nel 1871, vi è qualche lettera
sull'argomento: dell'Aleardi al sindaco di Firenze Ubaldino Peruzzi,
del Boccardo al principe Corsini, presidente del Comitato
appositamente istituito.
Interessante anche una
lettera di Giulio Foscolo, fratello minore di Ugo, dalla Moravia,
scritta nel 1827 tre mesi dopo la morte del poeta e diretta al nipote
Pasquale Rocco Molena, figlio della sorella Rubina. Sulla sorte
tragica di vari membri della famiglia Foscolo il postillatore
Acchiappati giustamente insiste con dati puntuali, quindi proficui:
questo Giulio, mittente della lettera, finirà suicida da tenente
colonnello dell'esercito austriaco nel 1838, come era finito l'altro
fratello Giovanni Dionigi, tenente ventenne nel 1801; il primo con un
colpo di pistola, il secondo con autopugnalata al cuore: segrete
avventure di un destino familiare alquanto sconvolgente.
Nella lettera qui edita,
Giulio Foscolo dice di accludere al plico notizie su Ugo che devono
essere «inserite nel foglio di Venezia tali e quali le spedisco»;
da una sorta di poscritto si apprende che le notizie riguardano le
origini nobiliari della famiglia, l'ascendenza greca per parte di
madre, mentre «da parte di Padre siamo Italianissimi, cosa di cui
anche le altre famiglie Foscolo sono con noi d'accordo»; si accenna
infine al povero zio paterno Marco Foscolo, medico in Dalmazia, che
possedeva l'albero genealogico della famiglia. Anche in questa
lettera di Giulio, come in altre dei membri della famiglia, si
riscontra un tono qua e là eccitato, fra l'offeso e l'iracondo, che
doveva essere un po' una marca familiare.
C'è poi una curiosa
lettera in francese di Silvio Pellico all'abate L. Dagatte del 1842,
da cui si apprende che al povero Pellico è successo come a Monica
Vitti, è stato dato per morto in Francia; egli ringranzia del De
Profundis e dei Memento e informa di essere ancora vivo,
anche se così sofferente da considerarsi prossimo alla fine. Il
lungo carcere lo ha profondamente segnato e ormai nulla rimane Hel
Pellico a cui era indirizzata la festosa lettera del Foscolo
pubblicata nel numero citato della “Repubblica”.
Forse la lettera
autografa in sé più bella dell'epistolario è quella del poeta
milanese Carlo Porta all'amico Tommaso Grossi, datata 19 luglio 1817,
spiritosa, vivacissima e ricca di motivi. Essa è stata edita da
Dante Isella (in Le lettere di Carlo Porta e degli amici della
Cameretta, Ricciardi 1967, n. 154) non sull'autografo allora
irragiungibile, ma sulla trascrizione del Salvioni. L'autografo offre
qualche significativa lezione diversa, ma non è questa la sede per
segnalarla.
Come si sa, il Porta era
cassiere generale presso l'Imperial Regio Monte Lombardo-Veneto;
vediamolo al lavoro: «Anche oggi scrivo nel mio modo solito, nel
tiretto cioè del mio bancone di Ufficio, e tratto tratto conviene
che lasci la penna per servire i bravi, e buoni reverendoni della
campagna, che vengono a truppe a riscuotere le loro congrue, ed i
redditi de lor benefici». Poi descrive una salita sul Duomo fino
all'ultima loggia, da dove guarda verso Treviglio, dove l'amico
Grossi è in villeggiatura. Ma il dato più curioso, e non si sa fino
a che punto ludico, è il seguente: «Io non mi sono mai accorto di
essere poeta morale, e ciò sarà forse uno di que' doni d'Iddio che
ci entrano in corpo per afflato, e di cui si si trova al possesso
senza avvedersene. Per dir meglio io sono il Bue che non conosce la
propria forza». Non si può chiudere questa panoramica senza
ricordare almeno le lettere di due particolari ambienti. Uno è
quello dell'editoria, così viva nel Nord allora. Lettere dell'Arici
all'editore Stella, del prestigioso stampatore Nicolo Bettoni a
Giovanni Gherardini perché collabori al giornale “L'Ape”, dello
stampatore parmigiano Luigi Mussi all'editore Stella (lettera da cui
si rileva che il problema del numero di copie di stampare e delle
vendite era già di attualità). Agli storici invece interesserà in
particolare un insieme di documenti quali sono le lettere del
generale Pietro Teulié a Carlo Innocenzo Porro dal 1803 al 1807.
Un ultimo cenno a tre
lettere del Cesarotti a Tommaso Ulivi sulla tragedia Tieste
del Foscolo, data a Venezia e stampata nel 1797. Le tre lettere sono
datate al secolo XVIII: risultano cioè fra le più antiche
dell'epistolario, insieme a una di Pietro Moscati, una del Pindemonte
e un'altra della Teotochi Albrizzi. Nel chiudere il volume si ha la
sensazione di aver percorso le strade di un'epoca lontana, quando le
più tenui circostanze o i drammi delle varie vite avevano un valore
ormai oggi incongetturabile, dimenticato.
“la Repubblica”, 28
luglio 1988
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