Il testo che segue è la
prima parte di un articolo dal titolo Un'altra storia pubblicato
su “Il Ponte” di marzo 2015. Il titolo è mio. (S.L.L.)
Delle origini in Iraq e
in Siria dello «Stato islamico», finanziato e armato dagli Stati
Uniti, e sottotraccia da Israele, per disgregare lo stato siriano con
l’obiettivo strategico di attaccare l’Iran ed eliminare due
importanti retrovie di sostegno al popolo palestinese, ormai sappiamo
tutto. È lo stesso Obama, nella recente intervista del 19 marzo, a
riconoscere il ruolo statunitense nella nascita dell’Isis, sia pure
attribuendola alle conseguenze della guerra irachena di Bush e
sottraendosi alle responsabilità della sua presidenza. Sappiamo
anche che l’Isis, strumento del capitalismo senile occidentale e
delle sue strategie geopolitiche, svolge oggi un ruolo di attrazione
di soggettività radicali nei paesi arabi e nei paesi occidentali,
innestando sul disegno eterodiretto dinamiche diverse e più
complesse le cui radici affondano nei processi di esclusione sociale
nei paesi arabi e di islamofobia e razzismo nei paesi occidentali:
contro il neocolonialismo l’odio per l’Occidente, contro lo
«stato ebraico» lo «stato islamico», contro i simboli del
«moderno» integralismo occidentale i simboli di un integralismo
islamico delle origini, contro le tute arancione dei prigionieri di
Guantanamo le tute arancione dei prigionieri dell’Isis, contro le
tecniche e i mezzi della comunicazione occidentale il loro impiego
con contenuti opposti e speculari. Ma l’aspetto principale
dell’Isis, nonostante l’attrazione di giovani guerriglieri in
parte estranei a motivazioni di ordine religioso, resta la sua
funzione di disgregazione terroristica degli assetti geopolitici
nelle sue aree di intervento, al servizio delle strategie occidentali
di creazione del caos che giustifichino gli interventi successivi
delle potenze «democratiche».
Insomma, l’Isis è
stato un ottimo investimento produttivo. Come ha detto lo storico
israeliano Ilan Pappé in una recente intervista al «manifesto» (18
febbraio), «Lo Stato Islamico è la miglior cosa che potesse
capitare a Israele. Con il califfato si risolleva la voce di coloro
per i quali esiste un solo Stato illuminato in Medio Oriente,
Israele, baluardo contro l’avanzata dell’estremismo islamico.
Spero che in occidente la gente non cada nel trucco: non si tratta di
uno scontro di civiltà, ma di giustizia sociale e modelli
democratici di integrazione. Basta guardare a come l’Isis attira
giovani musulmani europei andando a pescare tra i gruppi più
oppressi e marginalizzati. Non stiamo parlando di una questione
culturale e religiosa, ma sociale ed economica: se in Europa si
assistesse ad una trasformazione democratica, se si impedisse a
ideologie razziste e pratiche capitaliste di determinare l’esistenza
della gente, gruppi come l’Isis non troverebbero spazio». In
realtà lo Stato islamico non è «capitato» a Israele, che fin
dall’inizio ne sfrutta le opportunità, e la galassia delle
formazioni «radicali» è notoriamente infiltrata, da sempre, dal
Mossad. Il risultato delle recenti elezioni, con il rafforzamento
della destra oltranzista di Netanyau, accentuerà la politica di
guerra del governo israeliano, contro ogni prospettiva di Stato
palestinese, contro l’Iran, per la destabilizzazione dell’intera
area araba.
Apparentemente l’Isis e
la galassia delle formazioni terroristiche conducono la loro guerra
contro l’Occidente e il sionismo, ma in realtà i bersagli degli
attentati sono tutti all’interno del mondo arabo e musulmano, dalla
Siria allo Yemen, dalla Libia alla Nigeria, in nome di una presunta
ortodossia da difendere dall’Occidente; gli attentati di Parigi e
di Tunisi hanno altre dinamiche, sono conseguenze della propaganda
della «guerra santa» nei settori sociali emarginati delle
«metropoli», nella tradizione della controviolenza anticoloniale,
della guerra da portare in casa al nemico; fu questa la risposta del
Fronte di liberazione nazionale algerino, negli anni sessanta del
Novecento, al terrorismo dell’Oas. Ma anche su questo piano di
violenza e controviolenza (e a questo proposito bisogna rileggere
Frantz Fanon, I dannati della terra) la didattica del terrorismo
dell’Is non ha rivolto le sue campagne militari al principale
fattore di instabilità nell’intero mondo arabo, la fortezza
israeliana. Quando lo farà, se lo farà, sarà per lo «Stato
ebraico» un ottimo pretesto per attaccare i suoi nemici, i
palestinesi e l’Iran.
Ascoltiamo ancora Obama,
nella sua intervista del 19 marzo: «Se l’Isis venisse sconfitto,
il problema di fondo dei sunniti resterebbe. Quando un giovane cresce
senza prospettive per il futuro, l’unico modo che ha per ottenere
potere e rispetto è diventare un combattente. Non possiamo
affrontare tutto ciò con l’antiterrorismo e la sicurezza,
separandoli da diplomazia, sviluppo ed educazione». È una clamorosa
inversione della strategia statunitense, dalla liquidazione del
governo irakeno di Al Maliki (alla vigilia di accordi economici e non
solo con la Cina e con la Russia) in poi, probabilmente da collocare
nel quadro della politica interna in previsione delle elezioni
presidenziali, ma anche dovuta al fallimento dell’intervento contro
la Siria e alla perdita di controllo dell’Isis e di tante altre
formazioni qaediste e jihaidiste, peraltro in difficoltà nel
principale terreno di scontro tra Iraq e Siria grazie soprattutto al
nuovo protagonismo iraniano. La strategia statunitense del caos è
ingovernabile e produce conseguenze sociali e culturali molto più
pericolose delle azioni militari del «califfato» e dei suoi
concorrenti. Commenta Ramzi Baroud, direttore di «Palestine
Chronicle»: «L’Isis va visto non solo come un movimento alieno al
più vasto mondo politico del Medio Oriente, ma anche come un
fenomeno in parte occidentale, il ripugnante riflesso delle avventure
neocolonialiste nella regione, accompagnate dalla demonizzazione
delle comunità musulmane nelle società occidentali». E questo è
il punto.
La strategia del caos,
avviata il 19 marzo 2011 con i bombardamenti aereonavali Usa/Nato
sulla Libia, e con il sostegno (documentato da una nota inchiesta del
«New York Times») ai gruppi armati islamici combattuti dal governo
di Gheddafi, anche in quest’area ha prodotto una situazione fuori
controllo che mette in pericolo gli «interessi» neocoloniali
occidentali. Un intervento militare sul campo, sia pure appoggiato su
uno dei due governi in lotta tra loro, in un proliferare di bande
armate «islamiste» o semplicemente anticolonialiste, non avrebbe
altro risultato che rafforzare il fronte antioccidentale; a poco
servirebbe ancorare l’intervento al «governo di Tobruk» e al suo
Esercito nazionale libico diretto da un agente della Cia, il generale
Khalifa Haftar, inviato in Libia dalla Virginia. Le farneticazioni
militariste del governo italiano, lo schieramento aereonavale al
largo delle coste libiche, le dichiarazioni velleitarie e
irresponsabili di intervento diretto con uomini e mezzi, è soltanto
un corollario del caos, determinato dalla ridicola volontà di
potenza di un sistema politico in crisi di legittimazione che spera
di farla franca anche grazie a un’avventura militare al buio; un
nemico esterno, un fattore di paura, è sempre utile (pensano i
nostri strateghi) sia sul piano internazionale (il «prestigio
dell’Italia») che, soprattutto, interno. E questo è un altro
punto.
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