Nel 2013, a un anno dalla
scomparsa Guy Scarpetta propose un bilancio dell'opera di Carlos
Fuentes in grado di andare al di là dell’immagine ingentilita che
talora si dà dello scrittore messicano. Non è male rileggerlo.
(S.L.L.)
Carlos Fuentes |
La questione è nota: ciò
che qualifica i grandi romanzi è la capacità di produrre effetti di
verità che sfuggono a tutti gli altri sistemi di rappresentazione e
di interpretazione; di rivelare una parte dell’esperienza umana a
cui solo l’arte del romanzo permette di accedere. Questa era la
tesi di Hermann Broch, sviluppata oggi da Milan Kundera, e che Carlos
Fuentes, dal canto suo, non ha cessato di riprendere e di
amplificare.
E infatti, se si vuole
comprendere, per esempio, qualcosa del Messico (dei suoi paradossi,
delle sue ambiguità, della sua violenza fondatrice nascosta e sempre
presente, della sua memoria plurale e ingarbugliata), più dei
discorsi storici, filosofici, politici e sociologici, vale la pena
leggere romanzi come L’ombelico della luna, La morte di
Artemio Cruz, Cristóbal Nonato e La frontera de
cristal...
Quando Fuentes ha
cominciato a scrivere, i giovani scrittori dell’America latina
erano per così dire obbligati a scegliere il proprio campo: ci si
doveva schierare per il realismo o per l’immaginario e il
fantastico: per l’ancoraggio alla realtà nazionale o per
l’apertura cosmopolita; per la letteratura impegnata o per le pure
ricerche formali. Alcuni intorno a lui (il colombiano Gabriel García
Márquez, l’argentino Julio Cortázar, il peruviano Mario Vargas
Llosa, il cubano José Lezama Lima) decisero di non scegliere, di
iniziare a superare queste antinomie immobilizzate, e di riconciliare
ciò che la doxa si ostinava a contrapporre, Questo è stato
definito il boom del romanzo latinoamericano – in realtà,
probabilmente il più prodigioso rinnovamento dell’arte del romanzo
che si sia sviluppato nella seconda metà del XX secolo.
Di questo movimento,
Fuentes fu in qualche modo il federatore, e in larga parte il
teorico. Tuttavia, non si trattava di una scuola: ciascuno di questi
romanzieri, aldilà di ciò che li riuniva, resta irriducibilmente
unico. Quanto a Fuentes, ciò che lo distingue è il fatto di essere
indubbiamente il più balzachiano di tutti, non perché egli si
sottoponesse a un codice di rappresentazione convenzionale, ereditato
dal secolo precedente (egli avrebbe piuttosto teso a fare andare in
frantumi tale codice), ma nel senso che ha avuto l’ambizione
incessante, nel cuore stesso della più sfrenata immaginazione, di
dipingere l’implacabile ritratto di una società.
Qualche capolavoro da
eleggere, nel mezzo di una produzione sovrabbondante? L’ombelico
della luna e La morte di Artemio Cruz, due romanzi
magistrali, capaci di abbracciare, attraverso la pluralità di voci e
di visioni, l’intera genesi contradditoria e violenta del Messico
contemporaneo, o ancora Cristóbal Nonato, parossistica
antiutopia in cui lo stesso Messico è proiettato in un’Apocalisse
carnevalesca, un «turbine di ilarità e orrore» (per riprendere la
formula di Stéphane Mallarmé) capace di farne emergere la parte
oscura molto meglio di tutti i racconti realisti.
L’apice della sua
opera? Certamente Terra Nostra, il «mostro» di un migliaio
di pagine in cui un messicano del XX secolo sogna la Spagna di un
tempo così come la Spagna stessa aveva sognato il Nuovo mondo; e in
cui la Spagna, di colpo, nel 1975, sul punto di risvegliarsi
dall’incubo franchista, riceve in pieno viso il romanzo sulla sua
verità, ovvero sia sul suo mito originario che sulla dislocazione di
questo. Siamo contemporaneamente in numerosi luoghi e in numerose
epoche, i personaggi si trasformano e si reincarnano, la storia è
fantasticata, trasfigurata; le figure storiche reali si mescolano a
quelle del romanzo e del mito (la Celestina, Don Juan), gli
incantesimi e i malefici proliferano; il fanatico desiderio di
ortodossia del personaggio centrale, il Monarca, la sua ansia di
purezza, lo trascinano verso una sorta di religione della morte,
mentre attorno a lui turbinano le eresie, i sogni di emancipazione
propri dei tempi moderni, e la scoperta del nuovo mondo genera
un’autentica commozione, uno strano intreccio di temporalità.
L’incrocio che ne risulta resuscita misteriosamente la pluralità
rimossa e disconosciuta dello stesso mondo ispanico (la sua triplice
origine musulmana, ebrea e cristiana). Nell’insieme, un romanzo
sbalorditivo, barocco, sovversivo, in grado di
suscitare, grazie ai suoi stessi straripamenti, effetti di lucidità
e profondità che nessuno storico toccherà mai.
Aggiungiamo a ciò alcuni
saggi fondamentali: El espejo enterrado, summa senza
precedenti consacrata alla civiltà latinoamericana, esplorata in
tutte le sue dimensioni; Valiente mundo nuevo e Geografia
del romanzo in cui Fuentes, attraverso una meditazione critica su
alcuni grandi scrittori contemporanei, ci svela in filigrana la sua
arte del romanzo. Fuentes nota che il mondo indio (quello di
Montezuma, «l’uomo dalla grande voce») e del mondo ispanico
(quello, cattolico, dei conquistatori) condividevano in fondo la
stessa rigidità dogmatica, generando la medesima tirannia di una
verità unica. A ciò, egli oppone l’universo creato dal romanzo,
in cui i punti di vista si confrontano e si contraddicono, capace di
fare emergere il non detto e il rimosso delle verità ufficiali: un
universo nel quale «nessuna voce e nessuna persona detiene il
monopolio della verità»; «il romanzo, non soltanto come luogo di
incontri di personaggi, ma come spazio di incontro di linguaggi, di
tempi storici differenti e di civiltà che non avrebbero senza di
esso alcuna chance di entrare in relazione».
La conquista ispanica del
Nuovo mondo fu sanguinosa e distruttrice? Si, ma ne è nata una
civiltà meticcia, vivace, ricca della sua diversità. Le società
precolombiane sono state annientate? Si, ma l’immaginario indio è
passato nella lingua dei vincitori, come quelle chiese messicane in
cui il paradiso degli indigeni si muove nell’iconografia cattolica
imposta. Gli abbondanti romanzi di Fuentes, in fondo, non hanno
cessato di incarnare tutto questo.
Era sufficiente
frequentare Fuentes per un po’ di tempo per riuscirne talvolta a
percepire, al di là dell’immagine ufficiale che egli poteva dare
di se stesso (quella di uno scrittore controllato, educato,
«diplomatico», lucido, ipercolto, cosmopolita, dalla logica
intellettuale abbagliante), il sorgere fugace, quasi a sua insaputa,
di qualcosa di molto più enigmatico, oscuro, selvaggio e
irrazionale. Si poteva pensare che fosse esattamente il suo
immaginario indio a trasparire così, in qualche istante di
abbandono.
Gli intellettuali più
radicali, in America latina, gli hanno talvolta potuto rimproverare
le sue posizioni troppo saggiamente socialdemocratiche, la sua
ammirazione eccessiva per dirigenti come Felipe González, François
Mitterrand e William Clinton, per non parlare dell’antipatia più
recentemente dimostrata verso Hugo Chávez… Tali rimproveri possono
essere giustificati; resta il fatto che sarebbe comunque assurdo
ridurlo a questo. Chi penserebbe di ridurre Gustave Flaubert alla sua
allergia per il suffragio universale? O Victor Hugo alla sua
incomprensione della Comune di Parigi? Ricordiamo che Fuentes,
tuttavia, non ha mai cessato di denunciare l’imperialismo degli
Stati Uniti e la dominazione imposta all’America latina. Non fu tra
coloro, numerosi, che sono scivolati dalla legittima critica
antitotalitaria all’accettazione dell’ordine mondiale esistente;
questo è stato anche il senso profondo della sua rottura con Vargas
Llosa e della sua leggendaria polemica con Octavio Paz.
Ma l’elemento
essenziale dell’apporto politico di Fuentes è evidentemente
altrove: nei suoi stessi romanzi. Non perché essi sarebbero
sottomessi a una tesi, ma perché la visione che danno della società
permette di rendere chiare esperienze umane misconosciute, ignorate
dalle concezioni strettamente politiche del mondo; cosa che faceva
supporre uno sguardo critico senza concessioni sulle ingiustizie,
sugli abusi di potere, sulle disuguaglianze, una costante attenzione
verso gli esclusi e i paria della sua nazione, a cominciare dalle
popolazioni indigene.
Fuentes scriveva che «la
letteratura è necessaria alla politica quando dà voce a chi non ne
ha.» Una delle grandi funzioni del romanzo consiste nel «dare la
parola ai muti e un nome agli anonimi.» La maggior parte dei
messicani, osservava, figli degli spagnoli e degli indios, si
identifica spontaneamente, nella mitologia, con i secondi; cosa che
non impedisce loro di essere indifferenti alle sorti degli indigeni
reali che vivono tra loro… Uno dei documenti politici più
appassionanti di questo tempo potrebbe essere, tutto sommato, la sua
conversazione epistolare, sul tema, con il subcomandante Marcos. Per
il resto, ancora una volta, è sufficiente leggere i suoi romanzi:
non vi è stato nessun altro scrittore, nel XX secolo, così vicino
al suo popolo.
Ma soprattutto è
necessario vedere in Fuentes un vero militante del romanzo. Come se
il romanzo, per lui, fosse una causa da difendere. Un’arte la cui
visione è così eterodossa, nel nostro mondo sottomesso alla
dittatura combinata dello spettacolo e del mercato, che merita che ci
si batta per essa. Da qui la sorprendente rete di solidarietà che
Fuentes ha saputo tessere intorno a sé, le sue relazioni con la
maggior parte dei veri romanzieri contemporanei in tutti i paesi. Una
sorta di connivenza a distanza, che ignora le frontiere,
l’internazionale segreta di tutti coloro che sanno che il romanzo è
molto più di un genere letterario tra gli altri: piuttosto
un’indispensabile istanza di resistenza alle visioni dominanti. È
indubbiamente qui che Fuentes ha potuto dispiegare una qualità poco
diffusa, in generale, negli ambienti letterari convenzionali: quella
di essere eccezionalmente fraterno.
“Le Monde diplomatique
– il manifesto” Luglio 2013 - Traduzione di Al. Ma.
1 commento:
ineccepibile ed esauriente questo studio sul grande autore messicano di Guy Scarpetta in chiave della sovversione barocca, un remember dell'opera e della personalità di Carlos Fuentes, utile tanto agli studenti che agli studiosi della generazione d'oro di prosatori offerta dall'America Latina a partire dall'impareggiabil Ernesto Sabato a Gabriel Garcia Marquez fino alla ancora giovane Laura Restrepo
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