Questi scritti
occasionali di Umberto Eco (Costruire il nemico, Bompiani, pp.
334, € 18,50) raccolgono interventi e testi pubblicati negli ultimi
dieci anni. Le occasioni sono le più diverse e così pure gli
argomenti: la costruzione immaginaria del nemico; la contrapposizione
di assoluto e relativo; i diversi significati del fuoco dall’arte
al misticismo all’alchimia; la misteriosa archeologia bibliografica
di Piero Camporesi; la nascita del Gruppo 63; le astronomie
immaginarie; le riflessioni in margine alla vicenda di WikiLeaks,
eccetera.
Scritti minori? Eco ha,
fra i suoi numerosi meriti, quello di avere dimostrato i limiti delle
assiologie tradizionali, soprattutto quelle critico-letterarie. Ci ha
dimostrato che il «minore» può essere, da certi punti di vista «il
maggiore», e viceversa. I testi qui raccolti, a prescindere dal
tema, rivelano una qualità specifica, per altro ben nota, del loro
autore: la curiositas teorica, che Hans Blumenberg ascrive
alla Modernità delle origini e che in Eco si manifesta come
esercizio di irriverenza intellettuale. Da questa prospettiva
l’occasione è un fattore costitutivo della sua ricerca,
strettamente legato alla disponibilità
a lasciarsi sorprendere, a provare il sentimento della meraviglia, lo
stupore della scoperta – sia essa intellettuale, archivistica o
storica.
Fra le pagine più belle
c’è il ricordo di Camporesi, amico e collega bolognese,
infaticabile ricercatore di elaborazioni mitopoietiche della cultura
materiale: cibo, corpo, sensi, sangue, escrementi. Camporesi,
scopritore di testi ignorati dalla cultura ufficiale, è per Eco
soprattutto un «gourmet d’elenchi» da cui si sprigiona «la
spudorata ghiottoneria con cui descrive deliziato la mensa miserabile
e miseranda di santi penitenti». La conferenza tenuta a Bologna per
il quarantennale del Gruppo 63 è una rievocazione per nulla
nostalgica (la nostalgia non sembra appartenere a Eco) che si
concentra al contrario sulle origini del movimento – in principio
era «il Verri» di Anceschi – e sulle motivazioni profonde dei
suoi animatori: «le persone convenute a Palermo erano accomunate sia
da una volontà di sperimentazione che da un’esigenza di dialogo
rissoso, senza pietà e senza infingimenti». Eco non lo dice, per
undestatement o forse perché l’occasione non lo consentiva,
ma è difficile non vedere la distanza siderale di quelle battaglie
con l’apatico silenzio della critica attuale.
Infine, vera perla
l’inedito su Hugo, che dà veste unitaria a precedenti interventi
scritti e orali. Hugo pratica l’eccesso, è
animato da un furore dionisiaco, la sua scrittura raggiunge il
sublime perché amplifica i contorni del reale, la rappresentazione
del brutto: «Il deforme non è soltanto una forma di male che si
oppone al bello e al bene, è esso stesso strategia di una atroce e
non voluta modestia...». Se la bruttezza è il connotato primario
della Modernità, come sapevano Hegel, Goethe e i romantici, e come
profetizzarono le tre streghe del Macbeth, darne rappresentazione
letteraria non era abdicare alle ragioni dell’arte ma, al
contrario, scoprire nel brutto il bello. Un rovesciamento dialettico,
sfuggito a Gide e a Cocteau, manon all’acribia filosofica di Eco.
ALIAS IL MANIFESTO - 22
OTTOBRE 2011
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