La cappella di Luca Ronconi nel cimitero di Civitella Benazzone |
Tra Gubbio e Perugia
Vasto
è il territorio del Comune di Gubbio. Cinquecentoventicinque
chilometri quadrati ne fanno il più esteso dell'Umbria. A sud-ovest,
sul confine con il territorio quasi altrettanto vasto di Perugia,
insiste la frazione di Santa Cristina, tra colline ricche di querce,
funghi e asparagi, il cui paesaggio selvatico, lascia intravedere il
lungo, lento, faticoso intervento umano.
In
Santa Cristina aveva fissato la residenza e trovava dimora
soprattutto nei mesi estivi Luca Ronconi, il prestigioso regista
teatrale morto di polmonite a Milano sul finire di febbraio. La sua
casa, quasi al sommo di una delle valli, era un'antica villa con
masseria, poi ristrutturata da Gae Aulenti, che nella stessa valle,
più da basso, aveva sistemato la propria residenza estiva. Dei due
edifici quello di Ronconi sembra meglio inserirsi nel paesaggio,
mentre i colori di villa Aulenti producono un lieve shock, coerente
con la poetica del celebre architetto. Sulla casa del regista, curata
nei particolari, piena di soluzioni innovative e originali, circola
una singolare leggenda. Pare che, dopo il terremoto del 1984, che
aveva danneggiato le strutture portanti, i tecnici consigliassero per
ragioni economiche una demolizione del vecchio fabbricato e una
ricostruzione dalle fondamenta, ma Ronconi, intervenendo a spese
proprie alquanto al di là degli aiuti statali, avrebbe scelto di
mantenere in piedi la costruzione, neutralizzandone la pericolosa
fragilità con possenti strutture metalliche. Non so quanto il fatto
sia vero, ma appare efficace metafora del rapporto di Ronconi con la
tradizione: il suo peculiare avanguardismo mirava ad imbrigliarla
piuttosto che a fare piazza pulita.
A
qualche chilometro da lì, quasi in cima a un colle, c'è l'ampia
masseria ristrutturata e rivestita di bianco, profumata dal rosmarino
che la circonda, che è sede del Centro Teatrale Santa Cristina.
Ronconi lo fondò con Roberta Carlotto, già dirigente RAI e
organizzatrice di Festival e stagioni teatrali. Anche su questo sito
non mancano leggende. Pare che fino agli anni 60 del secolo scorso il
proprietario si facesse chiamare “conte” pur senza avere un
aristocratico pedigree.
Più tardi arrivò un calabrese dai modi un po' bruschi, che lo aveva
popolato di mucche allevate allo stato brado. I contadini si
lamentavano delle invasioni bovine, ma un giorno, all'improvviso,
l'uomo caricò gli animali sui camion e sparì. Dopo qualche tempo
arrivarono Ronconi e la Carlotto. Il centro, nato nel 2002 ha
prodotto laboratori, corsi e spettacoli, alternando le attività di
una scuola di specializzazione per attori giovani con la
realizzazione di produzioni che li mettevano a confronto con
interpreti già affermati. Lo spazio, immerso nella campagna,
sembrava a Ronconi fatto apposta per il suo sperimentalismo
perfezionista: si lavorava, dormiva, mangiava, studiava tutti
assieme, in una sorta di college, ed era difficile distinguere le ore
di lezione da quelle di vita comune. L'obiettivo era mettere l’attore
nella condizione di analizzare un testo e controllare la propria
espressività; ma forza della scuola era la presenza costante e
insostituibile di Ronconi. Non si sa, perciò, se e come
l'esperienza possa continuare.
Sul
versante perugino del sistema collinare, c'è la frazione di
Civitella Benazzone. Ronconi, con qualche sorpresa, ha voluto e
preparato per sé un funerale cattolico proprio in quel borgo, tra
pochi intimi. Alla fine, in verità, si son raccolte (nella
piazzetta, ché la chiesa era piccina) duecento persone, tra cui
attori, giornalisti e politici presenzialisti. Nella predica il
vescovo ausiliario Giulietti ha dichiarato che “non si chiude un
sipario, ma si apre su nuove prospettive”, frase degna di figurare
in un breviario dei luoghi comuni come quella del sindaco di Perugia,
Romizi: “Ci mancherà l’uomo, ma porteremo sempre con noi
l’artista”. Nel piccolo, romantico cimitero di Civitella
Benazzone, c'è un cappella un po' nascosta, linda e per nulla
appariscente, il contrario di quella tronfia e sporca della contessa
Bracceschi: l'ha fatta costruire Ronconi e ospita i resti della madre
e della prima assistente del regista. Dopo la cremazione arriveranno
anche le sue ceneri.
L'Orlando Furioso dal chiostro alle piazze
L'Orlando Furioso dal chiostro alle piazze
Il
regista, nonostante l'evidente amore per i luoghi, era umbro solo di
elezione: aveva avuto nascita a Susa, in Tunisia, infanzia tra un
collegio in Svizzera e l'Abruzzo, ove la madre, insegnante, aveva
trovato lavoro; giovinezza a Roma, ove aveva coltivato la propria
vocazione teatrale, scegliendo il ruolo di regista dopo il diploma
all'Accademia e alcuni anni da attore.
Il
legame con l'Umbria, tuttavia, non è solo sentimentale, ma
sostanziato di esperienze artistiche. Qui nacque, infatti, lo
spettacolo che gli ottenne fama mondiale. Nel 1969, per il Festival
dei Due Mondi, Ronconi mise in scena l'Orlando Furioso nel
Chiostro di San Nicolò, a Spoleto. Lo spettacolo ebbe repliche
numerosissime, in Italia e all'estero, soprattutto nelle piazze, fino
ad una sua riduzione televisiva, che sul finire degli anni Settanta
ottenne un largo e imprevisto successo. Edoardo Sanguineti, che al
Furioso di Ronconi
aveva contribuito con il rimaneggiamento del testo ariostesco,
così ne ragiona: “C'erano
stati parecchi tentativi di rinnovamento del teatro italiano, ma
nessuno era andato a buon fine. L'Orlando furioso
abolì la tradizionale separazione fra attori e pubblico,
trasformando lo spettacolo in una grande festa collettiva, facendo
delle piazze in cui andava in scena, luoghi di comunità festiva, con
un rimescolamento dei ruoli”. Aggiunge:“Fino a quel momento
ironia e straniamento brechtiano erano sempre stati antitetici. Per
la prima volta nell'Orlando furioso
si riusciva a ottenere un teatro che attraverso il distacco, faceva
pensare, e al tempo stesso, con questi modi da festa popolare, da
liturgia pagana, invitava al massimo dell'immedesimazione”. A suo
dire l'Orlando furioso
“non fu testa di serie di esperimenti, non ebbe epigoni”.
In
verità quella rappresentazione fu un modello nel teatro di base e di
piazza nato sulla spinta del Sessantotto, che postulava l'uscita dai
luoghi canonici, l'acquisizione di nuovi spazi, l'utilizzazione di
macchine, l'uso di nuovi linguaggi, la scelta di testi non teatrali.
Di tutte queste cose, in Umbria più che altrove, lo spettacolo di
Ronconi apparve una sorta di “manifesto”, anche se sovente si
praticava l'utopia di una improvvisazione senza professionalità,
cioè l'esatto contrario dell'idea ronconiana di teatro. E c'era un
grave equivoco sul teatro di piazza. Ronconi fu chiaro in
un'intervista del 2003 a “Drammaturgia”: “Originariamente
l’Orlando furioso è
stato realizzato in uno spazio non teatrale ma al chiuso... Fatto in
piazza sembrava uno spettacolo popolare, ma così com’è nato era
tutt’altro che uno spettacolo popolare. Uno spazio differente in
qualche modo determina una diversa percezione dello spettacolo da
parte del pubblico, qualunque sia il carattere originario dello
spettacolo”.
Così
rievoca quella stagione Enrico Sciamanna: “Eravamo entusiasti
dilettantissimi giovani attori quando irruppe sulla scena l’Orlando
Furioso di Luca Ronconi. Ci
frastornò. Prima si percorrevano i sentieri suggeriti da Grotowsky
con le sue regie e con la Bibbia Per un Teatro Povero
(1968) e dal Living Theatre, che proponeva una visione del dramma
basata sull’attore che trascinava la sua umanità sulla scena per
proiettarla nella società. Quella di Ronconi ci parve un’altra
forma di purezza di teatro, basata sulla ricerca dell’effetto,
sulla macchina, sullo spostamento del centro e sulla sua
moltiplicazione, sulla professionalità dell’attore e sostenuta
dalla letteratura teatrale. L’Orlando Furioso
di Spoleto fu un input per manifestazioni popolari come il
Calendimaggio assisano e per i teatri in piazza: ne utilizzarono le
suggestioni fino ad abusarne”. Sciamanna è convinto che il
“ronconismo di massa” ignorasse spesso la cosa più importante
del Furioso, “l’invenzione
della multifocalità e contemporaneità delle azioni sceniche”.
La
presenza e influenza di Ronconi in Umbria non si limitò a quel
periodo eroico. Le regie e le messe in scena sono state tante e
varie, per modalità, per genere, per luogo, fino all'anno scorso. Le
collaborazioni più intense sono state con il Teatro stabile
dell'Umbria, con il Teatro Lirico Sperimentale e con il Festival dei
Due Mondi di Spoleto. Fausto Gentili che fu tra gli amministratori
più colti e sensibili delle istituzioni teatrali umbre nell'ultimo
Novecento racconta: “Nel caso dell'Umbria, bisognava tener conto
dei limiti oggettivi (budget,
assenza di tradizioni significative, ridotto bacino di utenza) e
sfruttare le opportunità: tra tutte, la disponibilità di teatri
storici nati per ospitare edizioni bonsai
dell'opera lirica ed ora in cerca di una nuova vocazione. A questa
ricerca Ronconi si è dedicato, in quegli anni, con una
consapevolezza estrema, a partire dalla convinzione che bisognasse
'non fare mai dei sottoprodotti' ed 'evitare delle specie di nicchie
per un teatro di serie B'. Cercava di dimostrare che i piccoli teatri
di provincia permettevano alla serie A di sperimentare condizioni
diverse da quelle dei grandi teatri. Soleva dire che 'la provincia
italiana non è affatto provinciale, ma è aristocratica'. Questo
totale rispetto per il pubblico, per il suo diritto ad avere il
massimo da quelli che salgono su un palcoscenico o che lavorano ad
uno spettacolo, era – credo – la chiave etica del suo lavoro”.
Gentili
aggiunge una testimonianza di spettatore privilegiato: “L'unica
vera ricompensa era l'osservare da vicino - spesso dall'ombra
discreta di un palchetto. Nel caso di Ronconi l'impressione che
ricavavi - quasi un'eccitazione - era di cogliere l'opera d'arte nel
suo farsi, dalla prima lettura intorno al tavolo fino alla prova
generale, e di percepire quanto grandi siano le doti di tenacia, di
intelligenza e di onestà intellettuale necessarie a tirar fuori da
un testo tutte le intenzioni dell'autore, giustificando ogni gesto,
consentendo alle parole di respirare in un loro spazio, come se il
personaggio le stesse pensando mentre le dice. L'altra cosa che
colpiva era la gratitudine degli attori: che si trattasse di giovani
provenienti dalla scuola o di mostri sacri collaudati da migliaia di
repliche, c'era – nel loro rapporto con Ronconi - una sorta di
devozione, come se concepissero quell'esperienza come una rara
opportunità formativa, l'occasione di imparare qualcosa, del proprio
lavoro, che altrimenti sarebbe loro sfuggita per sempre”.
Ce
l'ha confermato Claudio Carini, che alla metà degli anni Ottanta,
quando gli venne proposto un ruolo secondario nella goldoniana La
serva amorosa, prodotta dal
Teatro Stabile dell'Umbria per la regia di Ronconi (protagonista Anna
Maria Guarneri), era
già attore affermato del
circuito regionale, con una fisionomia definita, ma colse quella
offerta come un'occasione importante: “In molte delle cose che
faceva Ronconi c'era un elemento di sfida. Sceglieva spesso testi non
teatrali o testi teatrali difficilmente rappresentabili e poco
rappresentati. Il rito della lettura del testo era coinvolgente,
portava a considerarlo in tutto il suo spessore e poi a intendere
cosa sta dietro. Le prove erano faticosissime. Ronconi faceva nel
teatro quanto Kubrik faceva nel cinema. Era capace di far ripetere
anche cento volte una battuta, persino dagli attori più esperti,
fino a che essa non corrispondeva alla sua idea. Credo che fosse una tecnica: ci stancava per vincere ogni resistenza, ogni tentativo di
offrire una interpretazione personale”. Carini, che non è attore
“ronconiano” e ci tiene a dirlo, riconosce il suo debito su due
punti cruciali: l'idea di un teatro basato su testi non nati per il
teatro (ha fatto nella scorsa stagione un suo bel Don
Chisciotte) e l'importanza della
lettura ad alta voce come strumento di interrogazione critica del
testo (produce una serie di audiolibri in cui la scelta va da
Sant'Agostino a D'Annunzio). Conclude: “Abbiamo una grande fortuna. Di molte
messe in scena ronconiane esiste una documentazione utilizzabile. C'è
molto da studiare. Ci sarà da imparare ancora per tantissimo tempo”.
micropolis, marzo 2015
Nessun commento:
Posta un commento