Una rivoluzione solo
promessa.
L'interpretazione dei
sogni (Vienna e Lipsia 1899) è il capolavoro scientifico di una
rivoluzione culturale che andava facendosi strada nella civiltà
europea. Ma che, purtroppo, doveva interrompersi brutalmente con la
prima guerra mondiale. L'interpretazione dei sogni è un libro
unico nel suo genere, straordinariamente ricco di pensiero scorrevole
e di piacevole lettura, nonostante le sue cinquecento e passa pagine.
Tratta un tema che all'epoca, così come ai nostri giorni, non aveva
dignità scientifica: l'interpretazione dei sogni, appunto. E ne fa
l'introduzione ad una nuova concezione del pensare e del vivere e dei
loro rapporti, imperniandoli sulla potenza del desiderio. Scritto in
una lingua tersa e composta, ordinato come un trattato, la sua
materia è però calda e intima: materia inconfessabile, di suo, e
guadagnata a questa pacata dizione attraverso una pratica allora
nuova e sconosciuta, la psicoanalisi.
Anche il suo autore,
Sigmund Freud (1856-1939), medico delle malattie nervose, viennese di
adozione, era all'epoca uno sconosciuto. Dalla pubblicazione di
quest'opera egli si aspettava la fama (che in effetti arriverà, ma
più tardi).
I contenuti
Come in molti libri di
carattere scientifico, il capitolo 1 (i mei riferimenti sono al vol.3
delle Opere ed. Boringhieri) è dedicato allo stato della
questione. Va detto che Freud, più che cercare precedenti (che pure
esistevano), sembra interessato a dimostrare che nessuno prima di lui
ha capito quello che lui ha capito. Verso la fine, fa un'importante
precisazione sui rapporti tra psichico e fisico: non è necessario,
ed è poco proficuo, voler ridurre l'uno all'altro (pp.48-49).
Il capitolo 2 ci
introduce al pensiero del nostro autore, e lo fa nella maniera più
agevole, attraverso l'analisi di un sogno, il famoso "sogno
dell'iniezione a lima", analisi da cui discende una prima veduta
teorica: i sogni sono l'appagamento di un desiderio. E' questo
l'argomento del capitolo 3.
Elvio Fachinelli (che
dell'Interpretazione è il traduttore insieme alla moglie
Herma Trettl mi fece notare, a suo tempo, come questa pur grande
scoperta agisca di fatto come un espediente per chiudere l'analisi:
trovato il desiderio, non ci sarebbe più nulla da interrogare.
Il capitolo 4 risponde
alla principale obiezione contro la teoria del sogno-appagamento di
desiderio, e cioè che molti sogni non sono affatto piacevoli.
Occorre distinguere, risponde Freud, fra contenuto manifesto e
pensieri latenti. Quello è una traduzione di questi, che altrimenti
non troverebbero espressione a causa di una nostra interna censura. A
questa spiegazione Freud arriva analizzando come agisce la censura
vera e propria, dandoci così un ottimo esempio di quei salti da un
contesto all'altro del vivere umano, che costituiscono un elemento di
attrazione (ma anche un rischio di ciarlataneria) della psicoanalisi.
Il capitolo 5 dà ragione
delle peculiari caratteristiche della memoria nei sogni (preferenza
per cose molto vicine o molto lontane) e dell'origine infantile di
molti sogni. Dalla loro analisi "abbiamo la sorpresa di
ritrovare un bambino che continua a vivere con i suoi impulsi"
(p.181). In passi come questo, l'opera di Freud ne è costellata, noi
vediamo la cultura scientifica aprirsi al sapere antico e rigettato
della poesia, della santità, della pazzia. E' un avvenimento da
sottolineare.
Segue un lungo capitolo,
"Il lavoro onirico", che da solo potrebbe formare un libro.
Qui la scienza positivistica ha voltato pagina. Qui la realtà
diventa un testo che si spiega come ogni testo, attraverso il suo
senso. Su questo capitolo si sono soffermati, fra i tanti, il
linguista Roman Jakobson e lo psicoanalista-filosofo Lacan. Che
cos'è il lavoro onirico?
In breve, è il lavoro
necessario per trasformare i pensieri latenti, direttamente innestati
sui desideri, più o meno indicibili nei contenuti del sogno,
ricordabili e raccontabili. Il lavoro onirico è un pensare, dice
Freud, ma "si stacca dal modello del pensiero vigile". "Non
che esso sia più sciatto, più scorretto, più smemorato, più
incompleto del pensiero vigile; è qualcosa di interamente diverso"
(p.463). A questa intima alterila del nostro pensare, è dedicato il
capitolo 7, l'ultimo, che avanza una teoria della psiche; vi compare
una serie di concetti che il successo della psicoanalisi ci ha reso
non più chiari ma certo più correnti, come: regressione, inconscio,
preconscio, rimozione, processi primario e secondario. Qui, ancora
poco usati, sono più aspri e toccanti. Più veri.
Radici negate
Insomma, è un libro da
leggere, o rileggere, saltando in qualche modo la sua trasmissione
psicoanalitica, per vederlo come a sé stante. O meglio, come
radicato in una cultura venuta meno, imparentata con altri scritti,
con altri nomi, con correnti di pensiero, con movimenti politici e
artistici, con musiche speranze e fatti di una cultura da cui ci
separano montagne di morti, di sofferenze, di errori, di tentativi
falliti, forse, un intero secolo perduto. La tradizione
psìcoanalitica ci presenta L'interpretazione dei sogni come
un'opera quasi-giovanile che prelude agli sviluppi futuri della
psicoanalisi, e le toglie così la sua caratteristica di opera
matura, che si radicava nella crisi di fine secolo. Crisi difficile
ma vitale e promettente.
Vero è che questo
sradicamento dell'Interpretazione dei sogni fu voluto dallo
stesso Freud. Due (o tre) sono le radici negate di questo libro come
di tutto il pensiero freudiano: Nietzsche (e, con lui, Schopenhauer),
da una parte, Ernst Mach dall'altra.
Negli scritti di Freud i
riferimenti a Nietzsche sono relativamente numerosi, ma sono
inadeguati se non reticenti. Il primo lo incontriamo proprio
nell'Interpretazione dei sogni, dove di Nietzche compare non
il nome ma il concetto, quello di trasmissione di tutti i valori
psichici (p. 303, nell'originale, facilmente identificabile come
suo).
Ha l'aria di un prestito
linguistico, nulla più. Quanto al concetto di rimozione, non
meno importante, Freud negherà di averlo ripreso da Schopenhauer.
“Il mio debito verso Schopenhauer - scriverà nel 1914 - è
inesistente”. Quanto a Nietzsche, aggiunge, "io mi sono
interdetto l'alto godimento" di leggere le sue opere "con
il deliberato obiettivo di non essere ostacolato da nessun tipo di
rappresentazione anticipatoria nella mia elaborazione delle
impressioni psicoanalistiche" (Opere 7, p.389). "In
compenso", aggiunge, sono disposto "a rinunciare ad ogni
pretesa di priorità". Bizzarro discorso: una rinuncia (all'alto
godimento) compensata da una rinuncia (alla priorità), e una
priorità ventilata nei confronti di un autore venuto
cronologicamente prima. Un atteggiamento simile Freud prende a
proposito dell'Es, dove il rapporto con Nietzsche viene ridotto a un
fatto di usi linguistici: "Adeguandoci all'uso linguistico di
Nietzsche ..." ( Opere 11, p.184).
Non continuò e passò ad
Ernst Mach, che fu tra i più consapevoli esponenti di quella
rivoluzione culturale solo promessa al nostro secolo. Non è facile
illustrare in poco spazio il rapporto di Freud con Mach. Questi era
un personaggio illustre nella Vienna del tempo ed era in rapporti di
amicizia e stima con Joseph Breuer, nome importante nella biografia
del giovane Freud. Questi, per parte sua, conosceva Mach di fama e
certamente lo lesse, lo sappiamo da una sua lettera all'amico Fliess
del 12 giugno 1900: dopo aver fantasticato sulla gloria che potrebbe
dargli L'interpretazione dei sogni, scrive d'aver letto
L'analisi delle sensazioni di Mach, seconda edizione (così
precisa Freud: la seconda edizione è del 1900, l'altra era del 1886)
e di essere contento che quest'opera "che ha gli stessi
obiettivi che anch'io mi propongo", sui sogni non abbia scoperto
quello che lui, Freud, sa. Ma il libro in questione non si occupa di
sogni. Si occupa invece del rapporto tra fisico e psichico, per
sostenere, contro ogni forma di dualismo e di riduzionismo, che tra
l'uno e l'altro non c'è soluzione di continuità. Che è la
posizione di cui Freud si fa forte, nel primo capitolo
dell'Interpretazione dei sogni, posizione che gli mancava nel
1885, quando scrisse l'inedito e incompiuto, quanto ambizioso,
Progetto di una psicologia.
La conclusione che
suggerisco, si indovina da sé. A Ernst Mach, secondo me, Freud deve
l'essersi liberato dal dogma psichiatrico secondo cui i fatti
psichici possono considerarsi spiegati solo se ricondotti a cause
organiche. Gli deve probabilmente anche l'idea, centrale nel pensiero
di Mach come poi in quello di Freud, che l'Io non è un primum nella
vita psichica, ma una formazione secondaria.
Non ho qui lo spazio per
argomentare compiutamente le mie affermazioni. Voglio pero raccontare
un episodio. Nel 1932 Freud sente l'esigenza di difendersi da un
sospetto di plagio (la cosa non ci meraviglia) nei confronti di certo
Joseh Popper, ingegnere e autore di un libro sui sogni apparso
proprio nel 1899. La difesa convince ma colpisce perché echeggia
altre difese simili ma meno convincenti, e perché vi appare il nome
di Ernst Mach. Scrive Freud: "Non cercai di conoscerlo" (si
riferisce a J. Popper e al 1900). "Le mie innovazioni nel campo
della psicologia mi avevano alienato le simpatie dei contemporanei,
in specie di quelli più anziani; più di una volta, avendo
avvicinato un uomo che a distanza onoravo, mi ero sentito respingere
dalla mancanza di comprensione da questi dimostrata per quello clic
era ormai diventato il contenuto essenziale della mia esistenza. Dopo
tutto Josef Popper veniva dalla fìsica; era stato un amico di Ernst
Mach" (Opere 11, p.314). Queste ultime parole sono a dir
poco imbarazzanti. Mach fu certo un fisico, ma fu ben più un
filosofo: non era forse l'autore di L'analisi delle sensazioni e
il rapporto fra fisico e psichico?
D'altra parte, si capisce
sempre meno perché quest'uomo, che soffriva della mancanza di
comprensione da parte dei suoi contemporanei, non ebbe l'idea di
cercarla nella lettura di filosofi grandi e a lui vicini come
Schopenhauer e Nietzsche. Anzi, l'idea gli venne ma la respinse, così
almeno dice.
Una lotta fra
maschi
Può sembrare che io
voglia fare su Freud il gioco della psicoanalisi inventato da Freud.
No, non ho intenzione di psicanalizzare Freud. Voglio capire le
caratteristiche dei rapporti fra uomini impegnati nel lavoro del
pensiero, non come essi li dipingono (per esempi, quando dissertano
di etica della comunicazione) ma come li praticano. Sono rapporti
molto marcati dalla rivalità e dalla ricerca del primato, talvolta
al punto da violare gli ideali più condivisi di correttezza. Quello
che Freud ci da da vedere non è un caso patologico né limitato ad
un minoranza. Un filosofo oggi tenuto in conto da molti, Richard
Rorty, ha tracciato la stori della filosofia come un susseguirsi di
pensatori dove, chi viene dopo, lotta "per non restai un
epigono" e per diventare, anzi, "superiore" a chi lo
ha preceduto, impedendo però, con le sue trovate, a chi verrà dopo,
di fare lo stesso nei suoi confronti (La filosofia dopo la
filosofia, Laterza, 1989). In tanta esplicitezza, resta da
esplicitare soltanto una cosa piuttosto trasparente, e cioè che
questa è la pittura di una lotta fra maschi.
In effetti, quello che
Freud ci da da vedere e Rorty teorizza, è un diffìcile regolamento
delle posizioni rispettive fra uomini. Suppongo che ciò risponda a
qualche bisogno simbolico del loro sesso. Lo suppongono perché in me
non lo avverto, anzi: le situazioni di rivalità e le questioni di
primato mi mettono in grave disagio e così è per molte mie simili -
ma basterebbe guardare i giochi dei bambini, per accorgersi di questa
differenza maschile.
Di cui però Freud non è
consapevole in generale, non c'è nei pensatori della nostra
tradizione nessuna consapevolezza della differenza maschile.
Si illudeva Freud quando,
sbarcando negli Usa, disse: vengo a portare la peste. Si illudeva
circa la forza dirompente del sapere psicoanalitico nei confronti
della civiltà borghese. Ma lui stesso gli aveva tolto la forza,
tagliando le radici che lo collegavano a i grandi pensitori critici
della civiltà borghese, quelli stessi che pure lo avevano nutrito.
Per non parlar degli altri, come Marx. Lo aveva fatto non per
opportunismo, ma per una ragione più insidiosa, più interna: per
poter lavorare con lo sprone di sentirsi il primo e di poter restare
tale. Torsione debilitante di un pensiero che sa la secondarietà
dell'io, ma non sa praticarla.
In Il crac della Banca
Romana,supplemento de “il
manifesto”, maggio 1993
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