Poche donne sono state
oggetto di così dure esecrazioni come Caterina de' Medici. Figlia di
banchieri, nipote di un papa, moglie di Enrico II di Francia, madre
di tre sovrani (Francesco II, Carlo IX ed Enrico III), reggente o
consigliere al trono, la «mercante fiorentina» ebbe in sorte per
trent'anni il governo di un paese dilaniato pressoché
ininterrottamente da aspri conflitti politici, sociali e religiosi,
esposto ai colpi di mano e alle ingerenze dei suoi avversari. Era
ancora in vita, e più che mai temibile, quando venne additata come
la causa di tutti i mali che affliggevano la Francia; né l'odio per
la straniera «avida di potere, usurpatrice astuta e crudele, educata
dall'usura, nutrita nell'ateismo», si spense del tutto dopo la sua
morte. Su di lei continuò a gravare l'accusa di a-vere organizzato
il massacro degli Ugonotti, nella famosa notte di San Bartolomeo del
1572, in un secolo che pur vide stragi e violenze non meno spietate e
infamanti.
Del resto, ancor prima di
trovarsi al centro di vicende tanto drammatiche, Caterina non aveva
mai avuto vita facile. Rimasta orfana della madre a pochi giorni
dalla nascita, coinvolta, adolescente, nel tumultuoso epilogo della
Repubblica fiorentina nel 1527, quando i capi della fazione più
estremista avrebbero voluto mandarla a morte o gettarla in un
postribolo, vittima inconsapevole di un'ardita combinazione
diplomatica fra Francesco I e Clemente VII (andata a monte per la
prematura scomparsa del pontefice), e perciò tollerata a malapena —
quasi come un'ospite indesiderata — alla Corte di Parigi, dove ci
si aspettava ben altro che «una ragazza nuda e cruda» quale sposa
del Delfino, Caterina fu per lungo tempo tenuta in disparte dal
marito, innamorato della bella Diana di Poitiers e incurante di
dissimularlo. Piccola, tonda, gli occhi sporgenti, il colorito
pallido, Caterina, per quanto compiacente e discreta, non aveva
attrattive tali da tener testa onorevolmente alla rivale; né la sua
intelligenza e la sua finezza, sebbene largamente apprezzate,
potevano assicurarle un ruolo di primo piano nella direzione degli
affari pubblici.
Fu la tragica scomparsa
del marito, nel luglio 1559, a rivelare in lei una personalità
energica e volitiva sotto la maschera di condiscendente passività di
cui aveva fatto mostra fino allora per non essere sopraffatta.
Giocando d'astuzia, traendo vantaggio dai conflitti d'interesse e
dalle passioni di chi le stava intorno, contrapponendo un rivale
all'altro, muovendo con estrema abilità e spregiudicatezza tutte le
pedine in suo possesso, l'«italiana» finì per imporsi come la più
strenua tutrice della monarchia francese in un periodo in cui questa
pareva destinata a dissolversi. «Un miracolo di natura, veramente
nata per reggere e governare», la definirà nel 1579 l'ambasciatore
veneto Lippomano, che pur aveva visto all'opera tanti altri maestri
di intrighi e di macchinazioni.
Abito vedovile
Ma quando Caterina
assunse il timone dello Stato, nel 1560, per conto del figlio
quindicenne Francesco II, la partita era appena cominciata e nulla
(dalla bancarotta della finanza pubblica alla prepotenza dei grandi
signori feudali e al dilagante malcontento dei ceti popolari) faceva
presagire che quella partita si sarebbe risolta in suo favore.
In un libro denso di
fatti e documenti (Caterina de' Medici, Sansoni, pagg. 624, lire
25.000), Ivan Cloulas si è proposto di riabilitare una figura tanto
discussa e controversa, a costo di scontrarsi non soltanto con una
mitologia nazionale di segno avverso, alimentata da centinaia di
libelli del tempo e di rievocazioni romanzate, ma anche con alcune
interpretazioni storiche fra le più accreditate. E lo ha fatto —
occorre riconoscere — con abilità, evitando di stendere un velo
pietoso sui misfatti perpetrati da Caterina, mettendo anzi in luce
talune sue caratteristiche poco edificanti (la dissimulazione, la
mancanza assoluta di scrupoli, lo spirito di vendetta, l'indifferenza
per le convinzioni morali e religiose), ma giustificandole alla luce
della ragion di Stato, di una lotta lunga ed estenuante per
garantire, fra mille avversità, la continuità del potere regio e
per salvare, insieme alla monarchia, l'unità della nazione francese.
In realtà, l'innato
machiavellismo della Regina madre, la sua capacità di destreggiarsi
fra i venti mutevoli della fortuna non andando tanto per il sottile,
fu un'arma importante, ma non quella decisiva. La chiave segreta del
suo successo fu piuttosto l'ascendente che Caterina seppe esercitare
sui propri sudditi (pur insofferenti dei suoi arbitrii più
scandalosi e delle fameliche cricche che alla sua ombra
spadroneggiavano a Parigi) in nome di un'autorità di cui la regina
si sentiva gelosa custode prim'ancora che legittima erede. Il suo
mesto abito di vedova, i suoi veli neri, ostentati come un simbolo
solenne di maestà regale, rappresentarono il presidio più sicuro
del suo potere assoluto e, insieme, una sorta di alibi privilegiato
per qualsiasi evenienza.
Ansie morbose
Madre imperiosa e calcolatrice, attenta e risoluta nel difendere con
le unghie e con i denti ciò che apparteneva ai figli, spietata con
chi tentasse di sbarrarle il passo, Caterina era tuttavia consapevole
della sua intima debolezza e del suo crescente isolamento. Al punto
che, come non esitò mai a sterminare i propri nemici al minimo
sospetto, così continuò, per tutta la vita, a valersi di qualsiasi
espediente per esorcizzare le proprie paure, le proprie ansie
ossessive. La sua inclinazione morbosa per l'occultismo e la
divinazione non fu un'oltraggiosa diceria messa in giro dagli
avversari. Per scongiurare la cattiva sorte, Caterina non soltanto si
circondò di amuleti e talismani, ma fece ricorso più volte ad
astrologi e negromanti, anche se non si fece mai suggestionare dai
venditori di facili profezie e fu abbastanza lesta a sbarazzarsene al
momento giusto.
Si fidava assai più dei banchieri che s'era portata dietro da
Firenze; e non a torto. Quantunque uomini d'affari come i Gondi, i
Birago, i Sardini badassero soprattutto ad arricchirsi a scapito
dell'erario e a spillare senza tregua privilegi e titoli nobiliari,
essi assicuravano alla regina l'appoggio di un «partito italiano»
tanto influente a Corte (in un periodo in cui, senza gli anticipi dei
finanzieri, sarebbe stato difficile attendere a qualsiasi compito di
governo) quanto abile e sollecito, all'occorrenza, nel tenere le fila
di delicate e complesse mediazioni con la Spagna e con il Vaticano.
In verità, Caterina trovò validi collaboratori anche nell'apparato
statale, che cercò di rafforzare senza peraltro sacrificare i
diritti di parola delle Assemblee e delle Comunità locali
sull'operato dei funzionari regi e sull'amministrazione della
giustizia.
Ma la situazione della Francia era troppo compromessa (il paese era
scosso da un profondo disagio economico e sociale e lacerato da
sanguinose discordie confessionali) perché a Caterina potesse
riuscire la stessa operazione portata a compimento con successo da
Elisabetta in una società come quella inglese: che traboccava
d'energia e vedeva nella monarchia l'istituto garante dell'unità
politica e religiosa del paese e l'interprete di nuovi ideali
nazionali. In Francia, l'alleanza stabilitasi in passato fra Corona e
borghesia s'era ormai dissolta (da un lato, per la convulsa
resurrezione dei particolarismi feudali, dall'altro, sotto la
pressione del rivoluzionammo radicale dei calvinisti).
Sfacciata
corruzione
A Caterina non restava che l'ingrato compito di salvare il salvabile
in un paese preso di mira dalle cupidigie imperiali di Filippo II e
spaccato in due dalle guerre di religione. Manovrando
pericolosamente, con un gioco serrato di ambigui compromessi e di
feroci prove di forza, fra le due maggiori famiglie di Francia (i
Guisa, a capo della Lega Cattolica e della fazione più
conservatrice, e i Borboni, a capo del partito protestante e delle
forze riformatrici), la regina madre riuscì a tenere a bada gli uni
e gli altri con una politica di volta in volta liberale e repressiva,
attenta in ogni caso a preservare la sovranità e i diritti della
Corona in un'atmosfera resa sempre più incandescente dalle sedizioni
interne della piccola nobiltà provinciale e dai furori della plebe
parigina, infiammata dagli anatemi papali e dai suoi predicatori.
Ma le passioni dottrinali e ideologiche ebbero spesso il sopravvento
sul cinismo politico e sullo spirito realistico di Caterina. D'altra
parte, gli eccidi di cui s'era macchiata, la sfacciata corruzione
morale che imperversava nei suoi palazzi, le ruberie dei suoi
favoriti e il deficit catastrofico dello Stato non erano circostanze
tali da accreditare il ruolo moderatore della monarchia e la sua
candidatura ad arbitro supremo. La guerra dei tre Enrichi (Enrico III
di Valois, Enrico di Guisa ed Enrico di Navarra), scoppiata nel 1588
— un anno prima della scomparsa di Caterina — annullò d'un colpo
tutti gli sforzi di pacificazione da lei compiuti e segnò il ritorno
sulla scena del fanatismo religioso.
Caterina aveva spento i roghi dell'Inquisizione e messo le mani sulle
rendite ecclesiastiche, s'era adoperata per risvegliare la coscienza
nazionale e aveva tentato riorganizzare l'amministrazione pubblica.
Si proponeva di lenire i mali delle carestie e del pauperismo, più
con gli strumenti del virtuosismo personale e la fede mistica nella
missione detta Corona, che con metodi di governo moderni ed efficaci.
Ci vollero, in effetti, altri dieci anni perché la Francia
risorgesse dalle sue ceneri per opera di Enrico IV, convertitosi al
cattolicesimo in cambio del riconoscimento dei suoi diritti al trono
(«Parigi vai bene una messa»), e perché, insieme alla libertà di
culto, tornasse in vita il vecchio disegno di rivincita
antiasburgica.
Nel frattempo, era fatale che sulla figura di Caterina si operasse un
trasferimento dell'immagine materna della Francia con tutti i suoi
fervori e tabù ancestrali. Le ondate di devozione filiale, il timore
reverenziale, i rancori dissacratori che la regina giunse a suscitare
non si potrebbero spiegare diversamente.
la Repubblica giovedì 15 gennaio 1981
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